Roberto Renzetti
Anche qui avrò l’eccellente guida di Karlheinz Deschner, Il gallo cantò ancora (Massari, 1998), che è uno dei più grandi ed eruditi teologi contemporanei ed al quale rimando per ogni referenza bibliografica. Alcune volte riporterò suoi interi brani.
Ho già discusso del fatto che all’inizio Gesù era considerato come un profeta che piano piano fu divinizzato. La cosa non è però così semplice ed infatti sorsero vari problemi teologici non da poco. Che rapporto c’è tra Gesù e Dio ? Sono due dei ? sono cioè distinti ? sono coesistenti ? e se sono distinti, vi è una gerarchia tra loro ?
Occorreva risolvere la cosa altrimenti il prezzo sarebbe stata una totale frantumazione delle comunità cristiane che già avevano problemi grossi con l’introduzione del culto dei santi (ad imitazione del culto pagano degli eroi e del politeismo) e del culto della verginità di Maria (preso di sana pianta da miti pagani).
Anche nella soluzione dei problemi posti vi era la presenza delle tradizioni pagane che avevano tutte una trinità da venerare (Iside, Osiride e Horus; Zagreo, Fane e Dioniso; Giove, Giunone, Minerva; …).
Sulla divinizzazione di Gesù molto contribuì Paolo anche se non lo considerava identico al padre, iniziando la teoria subordinazionista (il padre è più importante del figlio). Per Paolo solo il padre è Dio (JeoV), mentre il figlio è Signore (kurioV). La cosa si ritrova nel Vangelo di Giovanni, dove Gesù dice: Il Padre è più grande di me (Giovanni 14, 28). E la cosa venne accettata da tutte le comunità cristiane e da tutti i pensatori (Ireneo, Tertulliano, Origene, …) almeno fino al IV secolo. Fu allora che Ario sostenne le stesse cose di precedenti Padri della Chiesa e venne trattato da idolatra ed eretico. Ciò che era accaduto era solo che il processo di divinizzazione di Gesù era avanzato grandemente.
Fu Teofilo di Alessandria il primo a condannare la posizione subordinazionista e con essa Origene (che verrà condannato definitivamente dal V Concilio della Chiesa nel 553) ed Ario.
Ma vi erano altre complicazioni. Certamente Dio era puro spirito (come si legge in Giovanni) ma la Chiesa operò una divisione ulteriore, introdusse lo Spirito Santo ad imitazione dello Spirito Santo dell’Iran (spenta manju) che dovette aspettare per un adeguato riconoscimento.
Gesù non conosceva la Trinità: l’ordine che in Matteo viene posto sulla bocca del «risorto» di battezzare «in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» è unanimemente considerato un falso dalla ricerca critica. Se Gesù pensò a uno Spirito di Dio, lo fece forse nel senso della concezione veterotestamentaria dello «Spirito di Jahve» (ruach Jahve), menzionato nel Vecchio Testamento ben 378 volte .
Neppure Paolo conosce una dottrina trinitaria o contiene allusioni trinitarie; lo «Spirito» di cui scrive è completamente collegato a Cristo, il che Paolo esprime persino con l’equivalenza: «Ma il Signore è lo Spirito» (2 Cor. 3, 17); anche quando parla dello Spirito di Gesù Cristo, dello Spirito del Figlio e simili, parla insieme dello «Spirito del Signore» e del «Signore dello Spirito» .
Nel N.T. esiste anche la formula trinitaria o piuttosto la giustapposizione di Dio, Cristo e gli Angeli e in verità assai spesso, dato che nel Giudaismo essa si era già costituita.
Nell’Apocalisse incontriamo la trinità Dio padre, i Sette Spiriti e Gesù Cristo (Apocalisse 1,4 sg.); in seguito si manifestano persino accenni a una quaternità: intorno al 150 Giustino parla della quaternità formata da Dio Padre, il Figlio, le schiere degli Angeli e lo Spirito Santo (Just.Apol. 1,6).
Gli antichi cristiani trovarono il dogma della trinità attestato tanto esiguamente nella Bibbia, che nel IV secolo si pervenne a una delle più celebri interpolazioni neotestamentarie, al Comma Johanneum, un falso insinuato in parecchi Codici. Per l’esattezza il passo della Prima Lettera di Giovanni
«Sono tre che generano: lo spirito, l’acqua e il sangue, e i tre sono uno», venne modificato in : «Sono tre che generano nel ciclo: il Padre e il Verbo e lo Spirito Santo; e i tre sono uno» .
La dottrina della fede nello Spirito Santo sorse gradualmente nel II secolo nella Confessione di fede apostolica. Ma anche in seguito le concezioni intorno allo Spirito Santo tradirono una confusione terribile: spesso lo si equiparò a Cristo o si vide in lui un Angelo o addirittura la madre di Gesù, la quale lo afferrò «a uno dei capelli» e lo portò sul monte Tabor, oppure lo si identificò semplicemente con l’interiorità dell’uomo .
Alla fine del II secolo e nei primi anni del III teologi come Ireneo e Tertulliano ritennero lo Spirito Santo un’entità interna alla divinità; invero Tertulliano lo subordinò al Figlio, come già il Figlio al Padre. Del pari Origene dichiarò lo Spirito Santo come una creatura subordinata al Figlio e proibì, come mima di lui il Padre della Chiesa Clemente, la preghiera alla terza persona divina . Generalmente nelle loro speculazioni sulla trinità divina i Padri della Chiesa di questo periodo spesso si dimenticarono dello Spirito e parlarono solo di due Persone . Lo Spirito Santo ottenne la divinità piena solo nel 381 in occasione del Secondo Sinodo ecumenico di Costantinopoli.
In un Sinodo, quello di Antiochia, convocato e guidato da Osio di Cordoba nel 324-325, si condannò Ario per sostenere la subordinazione del figlio al padre. A tale Sinodo parteciparono 56 persone e le decisioni furono prese da ben pochi fratelli esperti in faccende di fede ecclesiastica.
Il sinodo d’Antiochia fu solo una sorta di preludio all’assemblea chiesastica prevista da Costantino in un primo tempo in Ancira (l’odierna Ankara), poi tenuta nel 325 nella sua residenza estiva di Nicea (oggi Iznik, a 130 Km da Istanbul), nell’Asia Minore nordoccidentale, il primo Concilio ecumenico, vale a dire universale, cui presero parte circa trecento vescovi provenienti da ogni parte del mondo.
In verità la massima parte dei delegati proveniva dall’oriente; l’occidente fu rappresentato solo da un vescovo gallico, uno calabrese e uno pannonico, inoltre erano presenti il vescovo spagnolo Osio di Cordoba, Ceciliano di Cartagine e due preti romani delegati in rappresentanza del vescovo di Roma Silvestro, che era ammalato.
Il livello intellettuale di molti padri sinodali era oltremodo basso; un contemporaneo, sicuramente a torto, parla maliziosamente di un «sinodo di veri e propri cretini».
La grandissima parte dei chierici cattolici nemmeno oggi ha grande dimestichezza con la teologia storico-critica, ma per altre ragioni. A Nicea, in ogni caso, come già in Antiochia, solo pochi padri sinodali si mostrarono capaci di autonomia di giudizio, ma neppur essi riuscirono a concludere nulla. Da maggio o giugno fino all’agosto ospiti dell’imperatore, restarono impressionati dalla pompa, dalle adulazioni del monarca, da come egli baciava le cicatrici dei martiri e dall’appellativo di «amici» e «amati fratelli», col quale si rivolgeva ai presenti; così il credo niceno fu esattamente la formulazione che l’imperatore voleva: nulla accadde contro la sua volontà.
Costantino aprì il concilio, intervenne nel dibattito e ne determinò l’andamento. Non furono approntati protocolli oppure essi furono fatti sparire ad opera della Chiesa. Quando gli Ariani lesserò il loro credo, al portavoce fu strappato di mano il foglio e ridotto in mille pezzi, prima ancora che avesse finito.
Oltre la questione ariana, si tentò di regolamentare anche altre questioni che in definitiva riguardavano il portare la concordia nella Chiesa perché una chiesa divisa non gli serviva.
Assecondando i desiderata imperiali, alla fine ai vescovi venne proposta una formula che non era stata sostenuta da nessuno dei due gruppi contendenti, che affermava l’uguaglianza di sostanza del Figlio col Padre, l’identità di una sostanza divina in entrambe le persone (la cosa era stata già rigettata da un altro Sinodo – Antiochia 268 – e anche nella Bibbia non era prevista). In tal modo furono poste fuori gioco tutte le concezioni subordinazionistiche in relazione al rapporto Padre-Figlio. Da dove proveniva questa idea ? La Chiesa non ce lo ha fatto mai sapere esplicitamente fino agli inizi del Novecento. Da allora sappiamo che l’idea è di derivazione gnostica. Anche il concetto numerico di «triade», che si trova alla base del dogma trinitario, come concetto dogmatico è di derivazione gnostica. Il Valentiniano Teodoto fu il primo cristiano a definire Trias Padre, Figlio e Spirito Santo, mentre la Chiesa non aveva assolutamente inventato nulla di simile nella sua tradizione più antica. E così un imperatore, per giunta neppure battezzato detta dogmi alla chiesa. E questo è solo l’inizio del vero miracolo non di Gesù o Dio ma della Chiesa: la completa distruzione del messaggio del Cristo delle origini. E la Chiesa continuò per secoli ad essere governata da imperatori e, come accennato, nel 381, nel sinodo ecumenico di Costantinopoli, nacque la Trinità come legge dello Stato. Una invenzione che l’antica comunità cristiana non si sarebbe mai sognata, che non compare nei Vangeli dove semmai il dogma viene contraddetto.
http://www.homolaicus.com/storia/antica/cristianesimo_primitivo/
costantino/svolta_costantiniana.htm
LA SVOLTA COSTANTINIANA
Costantino (306-337) salì al potere con un colpo di stato militare, poiché, essendo figlio della concubina Elena, non poteva succedere legalmente al trono del padre Costanzo, imperatore d’Occidente.
Pur di diventare unico Augusto dell’impero romano, egli fu disposto a eliminare ogni possibile rivale: Massimiano (già Augusto), Massenzio (proclamato Augusto dal senato e dal popolo romano), Massimino Daia (Cesare dell’Augusto Galerio) e Licinio (nominato Augusto su proposta di Diocleziano). Probabilmente portò al suicidio lo stesso Diocleziano.
Costantino si servì vergognosamente anche della politica matrimoniale per raggiungere i suoi fini di potere, sposando la figlia di Massimiano e dando in moglie la sorella a Licinio. Con l’aiuto di quest’ultimo sterminò tutte le famiglie di Galerio, di Flavio Severo (riconosciuto Augusto da Galerio), di Massimino Daia e di Diocleziano, perché nessuno potesse rivendicare una successione al trono. Lattanzio poi scriverà che non fu un “peccato” massacrare le famiglie dei persecutori anticristiani.
Non solo, ma egli eliminò anche la moglie Fausta e un figlio, Crispo (326), avuto dal primo matrimonio con Minervina. Nonostante questa catena di delitti, ai quali naturalmente bisogna aggiungere quelli, molto più numerosi, ch’egli commise in quanto “imperatore”, la chiesa greca lo venera ancora oggi come “santo”, insieme alla madre Elena, e “Uguale agli Apostoli”, mentre la chiesa romana gli decreterà solo l’appellativo di “Grande”, non quello di “santo”: sia perché egli aveva trasferito la capitale a Bisanzio, sia perché aveva inaugurato la politica cesaropapista (opposta a quella che sorgerà in Occidente: il “papocesarismo”).
Inizialmente Costantino era favorevole al culto di Apollo-Sole, una specie di monoteismo sincretistico: il Sol invictus (in cui il padre Costanzo credeva) nella figura dell’Apollo gallico. La prima manifestazione autonoma di Costantino nel campo religioso è la visita al tempio di Apollo in Autun (308), prima di attaccare i Franchi.
Da notare che secondo la tradizione raccolta dallo storico Eusebio di Cesarea, consigliere e biografo di Costantino, questi, alla vigilia della battaglia decisiva presso Ponte Milvio contro Massenzio, fece mettere i simboli X e P (sovrapposti) sugli scudi dei suoi soldati. Naturalmente Eusebio presentò il gesto come una testimonianza della fede cristiana di Costantino, in quanto X e P sarebbero l’inizio della parola Cristo scritta in greco.
In realtà un monogramma simile lo si ritrova su insegne militari orientali precristiane come simbolo del Sole: è probabile che Costantino l’avesse adottato per accattivarsi le simpatie dei cristiani. E se anche non fosse da escludere una certa superstizione di Costantino a favore di Cristo, è però evidente che nel 312 egli non poteva considerarlo ancora più grande del Sole: il Cristo non era, per lui, che un dio accanto ad altri dèi.
Peraltro l’arco di Trionfo decretatogli dal senato romano dopo la sua vittoria su Massenzio (terminato nel 315), ricevette una decorazione figurata corrispondente alla concezione pagana del senato, che vide nel Sole invitto il dio protettore dell’imperatore. Questo anche se l’iscrizione dell’arco, ascrivendo la vittoria ad una “ispirazione della divinità”, poteva non risultare sgradita al mondo cristiano.
Costantino cominciò ad accettare il culto cristiano solo dopo la vittoria su Massenzio, facendo applicare il suddetto monogramma a una grande insegna di guerra, uno stendardo dell’esercito, al quale si doveva tributare uno speciale culto. Una guardia particolare doveva proteggerlo durante i combattimenti. Da notare che la storiografia cristiana (a partire naturalmente da Eusebio e Lattanzio) ha sempre voluto far vedere che nella battaglia di Ponte Milvio si scontravano due religioni opposte: paganesimo e cristianesimo. In realtà Massenzio non era anticristiano: egli semplicemente era contrario a che il potere governativo fosse concentrato nelle sole mani di Costantino, che voleva abolire ogni divisione territoriale dell’impero.
Insieme a Licinio, Costantino emanò il cosiddetto Editto di Milano nel 313, che in realtà era un mandato circolare per i proconsoli. Ci è stato conservato, in versioni non molto diverse, da Lattanzio (in latino) e da Eusebio (in greco), ma soltanto nella redazione che ricevette nel decreto di Licinio per il governatore della Bitinia e pubblicato a Nicomedia. Esso comunque non fece che estendere a tutto l’impero le disposizioni già prese dall’imperatore Massimino Daia in Asia Minore, poi sconfitto da Licinio. O, se si preferisce, non fece che ampliare le disposizioni già contenute nell’editto di Galerio del 311.
L’Editto di Milano concedeva a tutti, entro i confini dell’impero, e in particolare ai cristiani piena libertà di religione e di culto, senza preferenze statali per alcuna particolare religione. Esso prevedeva anche la restituzione oppure l’indennizzo degli edifici ecclesiastici, dei fondi passati al fisco o in possesso privato e dei cimiteri alle comunità cristiane, ora considerate come enti corporativi dotati di personalità giuridica.
Nel 314 egli convocò il sinodo di Arles, a causa dello scisma donatista che durava in Africa da circa un decennio, in seguito al rifiuto di un folto gruppo d’intransigenti vescovi africani di riconoscere Ceciliano, vescovo di Cartagine, consacrato da Felice, un vescovo presunto “traditore” che nella persecuzione dioclezianea aveva ceduto le Scritture al rogo. Il sinodo condannò i donatisti. (Esso minacciò anche di scomunica tutti i soldati che volevano disertare dalle armate imperiali: il che tornava comodo a Costantino nella sua lotta contro Licinio).
Successive indagini provarono non solo che Felice non era un traditore, ma che lo erano stati alcuni vescovi del movimento donatista. Sicché Costantino, vista la loro ostinazione a rifiutare le decisioni del sinodo, prese a reprimerli con la forza, facendo esiliare molti vescovi “eretici” e confiscare le loro chiese. Ma non riuscì che a creare dei martiri, finché, rassegnato, abbandonò la lotta. Paradossalmente il primo a tradire lo spirito e la lettera dell’Editto di Milano era stato proprio lui.
Sul piano legislativo Costantino emanò, dal 315 al 325, una serie di decreti favorevoli ai cristiani per ottenere il loro appoggio contro Licinio e diventare unico princeps dell’impero. Molte di queste leggi però vanno aldilà dell’uso politico meramente strumentale e si possono considerare un segno del mutare dei tempi.
Facciamo alcuni esempi. Abolì la croce come strumento di morte ed equiparò l’uccisione di uno schiavo ad un assassinio e l’uccisione di un bambino, eseguita in nome dell’autorità paterna, al parricidio. Venne incontro alle necessità dei genitori poveri per dissuaderli dal vendere o abbandonare i propri figli. Vietò di bollare in faccia i condannati ai lavori forzati o ai giochi circensi. Stabilì che i prigionieri potessero vedere ogni giorno la luce del sole. Proibì la tortura. Soppresse la facoltà, data al magistrato, di destinare i colpevoli di gravi delitti alle lotte dei gladiatori. Proibì che si disperdessero i membri di una famiglia di schiavi quando si ponevano in vendita dei beni dello Stato. Abolì le tasse introdotte da Augusto a carico dei celibi e delle coppie senza figli. Favorì la legittimazione dei figli naturali. Punì l’adulterio rendendo più difficile il divorzio. Obbligò lo Stato ad assumere la tutela degli orfani e delle vedove.
Nelle leggi degli anni 319 e 321 riconosce ancora il culto pagano come esistente di diritto, opponendosi solo alla pratica segreta e politicamente pericolosa della magia, delle celebrazioni sacrificali domestiche e dell’aruspicina privata (esame delle viscere degli animali sacrificati), tollerando solo quella pubblica, tenuta sotto controllo. Ammetteva però lo scongiuro della pioggia e della grandine. Proibì inoltre al clero cristiano di partecipare al sacrificio lustrale pagano.
Costantino cercò di privilegiare i cristiani, all’inizio, sul piano giuridico-amministrativo: ad es. perché un piccolo sobborgo o una comunità rurale potesse ottenere lo status di città era sufficiente che i suoi abitanti si dichiarassero tutti cristiani. In un’ordinanza al vescovo Osio di Cordova (suo consigliere) si riconosceva ai cristiani la facoltà di dare, dinanzi al vescovo, la libertà ai propri schiavi (privilegio che fino ad allora avevano avuto solo i governatori provinciali).
Ai vescovi concesse, in un decreto del 318, il diritto di giudicare quelle cause civili in cui anche solo una delle parti in lite, nonostante l’opposizione dell’altra, avesse fatto istanza di deferire il caso al tribunale ecclesiastico. Quanto la lex christiana decideva, aveva poi validità legale, senza possibilità di appello. Altri imperatori, in seguito, pretenderanno la volontà di ambedue le parti, altri ancora invece permetteranno che si formi una giurisdizione esclusiva per le cause sugli ecclesiastici, ovvero che il clero si costituisca in casta speciale (il potere arbitrale del vescovo nei paesi germanici non riuscirà mai ad affermarsi).
Che il clero fosse trasformato in una casta privilegiata è documentato anche dal fatto ch’esso si separò sempre più dal laicato, tant’è che molti decreti imperiali erano rivolti non tanto alla comunità cristiana in senso lato, quanto alla corporazione del clero, che tendeva sempre più a irrigidirsi nella sua struttura gerarchica. Il prete si distinguerà maggiormente dal diacono e il vescovo dal prete.
Persino tra vescovi si formeranno, a seconda dell’importanza della loro città, diverse gradazioni d’influenza: ad es. nelle cariche più alte, i cinque vescovi più importanti diverranno, col tempo, i metropoliti della pentarchia (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme); fra le cariche più basse si abolì quella di “corepiscopo”, cioè il vescovo di quei luoghi di campagna che non avevano titolo di città. Naturalmente la carica di vescovo cominciò a diventare così prestigiosa, per gli onori e le ricchezze che la accompagnavano, ch’era impossibile impedire, in occasione di nuove elezioni, violente lotte (p.es. a Roma, nel 366, in occasione della contesa fra Damaso e Orsino moriranno ben 137 persone!).
Costantino, già nel 313 e poi ancora nel 319, aveva addirittura dispensato gli ecclesiastici dagli oneri municipali (tasse o servizi che lo Stato ordinariamente richiedeva), affinché – questa era la motivazione – non fossero ostacolati nell’esercizio del loro ministero. Ma nel 320 deve opporsi energicamente all’immediato accorrere tra le file del clero di tutti i decurioni o i ricchi, desiderosi di esimersi da tali pesi; e impose che il clero fosse ordinato solo in ragione dei posti vacanti per la morte dei titolari, vietando che una persona, che per nascita o per censo avesse obblighi curiali, potesse prendere gli ordini.
Sempre sul piano economico, Costantino permise che si arrivasse a distribuire annualmente, in ogni città, dei sussidi di grano e di altri generi alimentari alle chiese, a beneficio del clero (il quale avrebbe poi dovuto ridistribuire a poveri, vedove e orfani). Nel 324 egli autorizzò tutti i metropoliti orientali a prelevare, temporaneamente, dai governatori provinciali o dall’ufficio dei prefetti al pretorio, qualsiasi somma che paresse loro necessaria a restaurare o ampliare le chiese delle loro province, o a costruirne di nuove. Ciò al fine di risarcire -questa era la volontà di Costantino- i danni causati dalla persecuzione di Licinio. Lui stesso, a sue spese, fece edificare tantissime chiese, dotandole di vaste proprietà.
Offrì insomma ai vescovi (considerati come senatori) onori e ricchezze, immunità fiscali di ogni tipo (che poi porteranno alla nascita della “manomorta” ecclesiastica) e tutti i privilegi degli ex-sacerdoti pagani. Favorì persino l’esercizio del commercio al clero: misura, questa, che verrà revocata da Valentiniano III (425-55), perché diventata fonte di abusi. Assegnò alla chiesa anche la gestione di tutti gli ospizi dei poveri, gli alberghi, i brefotrofi, gli orfanotrofi, gli ospedali e altre istituzioni assistenziali.
Con una legge del 321 aveva reso la domenica giorno festivo obbligatorio per i lavoratori manuali e per i tribunali, anche se nella legge si precisa che la domenica andava dedicata alla “venerazione del Sole”. Egli d’altro canto continuava ad emettere monete in onore del Sol Invictus. Quanto alla preghiera (una specie di Padre nostro) che i soldati dovevano recitare la domenica, essa non era che una formula neutrale, a sfondo deistico, alla quale avrebbero potuto adattarsi sia i cristiani che i pagani. In ogni caso i soldati cristiani avevano il permesso di partecipare alle funzioni domenicali. (Da notare che ora la domenica subentra alle vecchie feste pagane per segnare il ritmo calendariale).
Con un altro decreto dello stesso anno riconobbe a chiunque il diritto di lasciare per testamento quello che voleva alla chiesa cristiana (non alla chiesa ebraica o ad altre chiese eretiche). Arrivò persino, con altre disposizioni, a considerare il cristianesimo come cultus Dei, in quanto gli ebrei che diventavano cristiani venivano protetti dalla legge in maniera speciale se rischiavano d’essere lapidati. Agli inizi furono vietati il proselitismo e la circoncisione ai loro schiavi pagani o cristiani. Però furono confermate le immunità dai doveri curiali a coloro che svolgevano funzioni nelle sinagoghe.
Costantino fece queste e altre concessioni non solo – come già si è detto – per avere l’appoggio contro Licinio, ma anche perché, una volta vinto Licinio, sperava di tenere la stessa chiesa sottomessa alla sua volontà. Licinio, dal canto suo, era interessato non meno di lui a controllare il potere della chiesa, ma sbagliò a reprimere immediatamente con la forza la resistenza che questa gli oppose e a non cercare il consenso popolare (quello che Costantino appunto otterrà con le sue concessioni). Ancor più sbagliò quando cercò di scaricare sulla chiesa tutto il suo odio per Costantino, che voleva chiaramente detronizzarlo. Quando poi Licinio cercò di tornare a privilegiare il paganesimo, il suo destino era praticamente segnato.
Costantino ne approfittò immediatamente per sconfiggerlo in guerra (a tale scopo fu persino disposto a far entrare i Goti nell’impero), sottraendogli l’impero d’Oriente ed eliminandolo dopo avergli promessa salva la vita (gli ucciderà anche il figlio adolescente). A partire dal 324 (la guerra contro Licinio era durata dal 314 al 323) Costantino s’illuderà di poter realizzare una teocrazia monarchica, cercando di subordinare a sé la chiesa in modo politico e ideologico.
Sempre nel 325 egli (pur non essendo ancora né battezzato né catecumeno, anche se si faceva chiamare “isapostolo”, cioè “pari agli apostoli”, e “vescovo di quanti sono fuori della chiesa”) volle convocare e presiedere a Nicea, nei pressi di Nicomedia, un concilio per prendere le difese dei cristiani ortodossi contro gli ariani, che, subordinando nettamente il Cristo a Dio, erano favorevoli a una subordinazione, anche ideologica, della chiesa allo Stato. Naturalmente la chiesa cristiana si preoccupò di distruggere tutti i testi ariani in cui risultasse esplicita tale teologia politica.
Costantino era contrario a qualunque forma di dissenso religioso nell’ambito del cristianesimo e, per questa ragione, non si faceva scrupolo di servirsi di sinodi e concili (convocati in luoghi e date che solo lui poteva decidere) per eliminare rivalità di potere intraecclesiale o risolvere controversie teologiche. Era sempre lui che, in ultima istanza, decideva di dare o no l’approvazione alle deliberazioni dei sinodi, che, in caso favorevole, potevano diventare leggi imperiali.
Costantino interferiva continuamente nella vita della chiesa, anche nei casi di elezione episcopale. Le stesse comunità cattoliche ed eretiche si rivolgevano a lui perché dirimesse le loro controversie dottrinali o di altro genere, e solo quando una delle due parti si sentiva insoddisfatta delle decisioni ch’egli aveva preso, scattava l’accusa d’ingerenza negli affari ecclesiastici o comunque d’aver fatto ricorso al potere secolare.
In occasione del concilio ecumenico di Nicea (il primo nella storia del cristianesimo), Costantino, pur preferendo, ovviamente, la dottrina di Ario (come anche Eusebio di Cesarea e il vescovo di Nicomedia gli avevano consigliato di fare), si mise dalla parte di quella di Alessandro e Atanasio (rispettivamente vescovo e diacono di Alessandria), poiché le tesi di quest’ultimi avevano ottenuto in concilio la stragrande maggioranza dei voti (solo due vescovi furono contrari).
Ora, siccome la prassi conciliare impediva di poter decretare alcunché se non fosse stata raggiunta l’unanimità, Costantino decise di allontanare i due dissidenti, oltre naturalmente ad Ario (dalla scomunica si passerà poi all’esilio). Gli altri vescovi (quelli dell’Occidente latino, convocati da Costantino, erano stati solo sei) accettarono questo atto di costrizione e intimidazione, ma cominciarono ad opporsi, tranne alcuni, all’idea di introdurre nel Credo, formulato dal concilio, la parola greca homoousios (consustanziale) per contrastare il subordinazionismo di Ario. Essi temevano che con questo termine (non convalidato, peraltro, da alcuna autorità biblica: probabilmente era stato suggerito a Costantino dal vescovo Osio di Cordova) si sarebbe fatto un favore alle teorie dell’eretico Paolo di Samosata, che escludeva ogni distinzione tra il Padre e il Figlio.
Così fu Costantino che tagliò la testa al toro, obbligando i convenuti a formulare un Credo dogmatico e di carattere universale con l’inserimento di quella nuova parola. I vescovi accettarono questa seconda imposizione, ma appena tornati alle loro sedi, molti cominciarono a pentirsi d’averlo fatto e ripresero le proprie professioni di fede locali e tradizionali. Alcuni ripudiarono apertamente la formula di Nicea, ma furono sostituiti da Costantino con uomini più condiscendenti. Questo gesto autoritario scatenò l’inferno. Per evitare lo scisma si cercò un compromesso suggerendo la parola homoiousios (di sostanza simile), ma molti vescovi preferirono l’esilio all’aggiunta di quell’unica vocale.
Per farla in breve, il concilio, voluto per raggiungere l’unanimità dogmatica, provocherà uno scoppio di ostilità teologiche che si trascineranno in Oriente per mezzo secolo e in Occidente per altri due secoli. Lo stesso Costantino ritornò sulla sua decisione e fece richiamare dall’esilio Ario e tutti gli altri ch’erano stati deposti. Lo riabilitò in un nuovo concilio niceano, nel 327. In un altro sinodo, a Tiro, nel 335, la cui presidenza era stata affidata a un dignitario di corte, gli ariani trionfarono. Atanasio fu esiliato a Treviri e Costantino invitò a corte Ario. Ma questi, dopo essere stato nel palazzo imperiale, fu colto da un improvviso malore e morì subito dopo, probabilmente avvelenato.
* * *
Nel 330 Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, sulle rive del Bosforo, imitando, in questo, Diocleziano, che l’aveva trasferita a Nicomedia (non molto lontana da Bisanzio). Lo fece per diverse ragioni: militari (andavano difesi meglio i confini orientali, maggiormente minacciati), economiche (l’oriente stava manifestando una grande vivacità commerciale), culturali (egli voleva creare una nuova civiltà, frutto di una sintesi tra cristianesimo e paganesimo), ma soprattutto politiche, affinché egli potesse governare in modo teocratico, in una città quasi completamente cristiana e ben disposta, sotto questo aspetto, a veder realizzato una teocrazia imperiale. Egli sapeva bene che a Roma avrebbe incontrato maggiori resistenze sia da parte del mondo pagano (nel 326, ad es., celebrando a Roma il ventennale della presa del potere, egli si espose allo scherno del Senato e della popolazione pagana, per aver ripreso i suoi soldati che sacrificavano a Giove Capitolino); sia da parte della stessa chiesa cattolica, che ormai pretendeva d’essere “uno Stato nello Stato” e non avrebbe permesso a nessun imperatore di poter governare senza il suo consenso.
Anche dal punto di vista civile la città fu voluta a immagine e somiglianza del basileus: non avendo un prefetto ma un proconsole, né questori, pretori e tribuni della plebe, e avendo un senato più che altro simbolico, essa in realtà non era che una residenza imperiale, al pari di Nicomedia. Quando la si inaugurò, Costantino permise che si celebrassero anche dei misteri pagani. D’altra parte egli non vietò mai che si costruissero templi pagani, neppure nella nuova capitale, la cui dea personificratice era la pagana Tyche (Fortuna), per quanto egli stesso fece porre una croce sulla fronte della statua, al fine di toglierle il suo significato prettamente pagano. Sino alla fine della sua vita Costantino impedì di molestare i cittadini pagani a motivo della loro fede.
Non a caso poco tempo prima di morire egli si era riavvicinato al paganesimo predicato dal neoplatonico Sopatro, discepolo di Giamblico. Qui la tradizione cristiana attribuisce l’uccisione del filosofo alla stessa volontà di Costantino, che non voleva più saperne di paganesimo. Il che però contrasta col fatto ch’egli non rinunciò mai al titolo di “pontefice massimo”, anche se esso, sotto il suo regno, non implicava più alcuna partecipazione al culto pagano. Il fatto ch’egli ricevette il battesimo (ariano!) in punto di morte (se la storia non è leggendaria), non contraddice certo l’atteggiamento strumentale che Costantino ha sempre tenuto nei confronti della religione. Quanto alla rinuncia ad essere considerato un dio, Costantino vi accondiscese solo in teoria, non in pratica. Tanto i pagani quanto i cristiani non misero mai in dubbio la sua particolare “intesa” con la divinità. Ogni opposizione alla sua persona continuò ad essere considerata come un sacrilegio. Perfino dei templi vennero dedicati al suo nome.
La corte imperiale, in mano praticamente ai cristiani, si stava indirizzando verso la realizzazione di un cristianesimo di stato. Stando ad Eusebio, l’ultimo Costantino avrebbe proibito del tutto i sacrifici pagani (interrogare oracoli, erigere simulacri a divinità, celebrare misteri). E -dice sempre tale tradizione- i suoi figli fecero quello che avrebbe dovuto fare lui con maggiore risolutezza (il riferimento è soprattutto alla distruzione materiale dei templi).
Infatti, suo figlio e successore al trono d’Oriente, Costanzo, di religione ariana, arriverà a proibire nel 341 i sacrifici pagani, con la minaccia di morte e il sequestro dei beni, ordinando la chiusura di tutti i templi. Egli anticiperà, di poco, il proclama letterario dell’apologista Firmico Materno che aveva chiesto l’eliminazione di tutti i seguaci del paganesimo. Ma con Costanzo tornarono ad essere perseguitati anche i cristiani ortodossi. “Ciò che io voglio -disse una volta ad alcuni vescovi ortodossi- deve essere tenuto come un canone nella chiesa”.
Infine, con l’Editto di Tessalonica (380) l’imperatore Teodosio (379-395) vieta tassativamente il culto ariano e qualunque altra eresia non conforme alla dottrina del pontefice Damaso e del vescovo Pietro di Alessandria, dando così inizio alla campagna di persecuzioni contro i filosofi e gli scienziati pagani (vedi ad es. l’assassinio di Ipazia nel 415 ad Alessandria d’Egitto) e contro gli eretici (la prima condanna a morte ebbe luogo a Treviri nel 384, contro Priscilliano e i suoi seguaci).
Nel 381, al concilio di Costantinopoli, si ribadisce definitivamente, aggiungendo altri dogmi, il Credo di Nicea. L’anno dopo l’imperatore Graziano farà rimuovere dal Senato l’ara della Vittoria (simbolo delle antiche tradizioni della Roma pagana) e rinuncerà al titolo di “pontefice massimo”. Il paganesimo perdeva ogni connessione ufficiale con lo Stato. Nel 391 l’esercizio pubblico del culto pagano, assimilato al delitto di lesa maestà, fu proibito nelle città di Roma ed Alessandria; l’anno dopo si estese la proibizione a tutto l’impero. Nel 415-16 ai pagani verranno interdette tutte le funzioni pubbliche. Con l’editto di Marciano (451) s’introdurrà la pena di morte e la confisca dei beni contro chi offre sacrifici agli dèi pagani o vi coopera. Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano priverà il paganesimo anche di ogni mezzo di espressione culturale.
Arianesimo (IV secolo)
La storia
L’Arianesimo prende il nome dal presbitero di Alessandria, Ario, il quale contribuì solo parzialmente allo sviluppo teologico di questo pensiero. Piuttosto la paternità del movimento va ricondotto al pensiero subordinazianalista o adozionista sviluppato da diversi teologi più o meno ortodossi del III secolo, come Paolo di Samosata, il suo pupillo Luciano di Antiochia e maestro di Ario, e San Dionisio (o Dionigi) d’Alessandria.
Ufficialmente l’a. prese avvio dal sinodo dei vescovi del 321, convocato da Alessandro, vescovo di Alessandria, che fece scomunicare Ario, reo di propagandare il suo pensiero eretico.
Quest’ultimo, fuggendo in Palestina, si rivolse al suo ex compagno di scuola, Eusebio di Nicomedia, il quale lo accolse a braccia aperte e creò un centro di riferimento per l’a. nella propria diocesi.
Fu proprio Eusebio il maggiore interprete e difensore dell’a.: asceso a posizioni di massimo livello della gerarchia della Chiesa, ebbe sempre un certo ascendente sull’Imperatore Costantino, che aveva legalizzato il Cristianesimo nel 313.
Costantino, influenzato da Eusebio, dapprima cercò di mediare la situazione, considerandola una pura disputa sulla terminologia cristologica, ma poi si decise di convocare il 1° (il primo della storia del Cristianesimo) Concilio Ecumenico a Nicea nel 325 per dirimere la questione fra cattolici ortodossi e ariani.
Il Concilio ebbe inizio il 20 Maggio 325 alla presenza di circa 220 vescovi (secondo altri autori, 318), in larghissima maggioranza della parte orientale dell’Impero.
Ario comparve, portando un atto di fede, stracciato, tuttavia, in pubblico ed anche l’intervento di Eusebio non fu tra i più felici: egli lesse un documento, allineato sulle posizioni ariane, dove si affermava molto palesemente che Cristo non era Dio.
Questa terminologia senza compromessi alienò i favori dei moderati, che, dopo estenuanti discussioni, aderirono al cosiddetto Credo Niceno, dove, per quanto concerne la natura di Cristo, si affermava il termine homooùsion (consustanziale, in altre parole, della stessa sostanza del Padre e generato, e non creato).
L’a. fu condannato e Ario ed Eusebio furono mandati in esilio.
Nonostante la vittoria degli ortodossi al Concilio di Nicea, gli ariani rimasero comunque in tale maggioranza che nel 328 Costantino decise di richiamare Eusebio dall’esilio e di offrirgli il seggio di vescovo di Costantinopoli: il momento di massima gloria per Eusebio fu quando, nel 337, Costantino in punto di morte decise di farsi battezzare da lui, suo vescovo ariano.
Inoltre, dalla sua influente posizione, Eusebio si adoperò per riuscire a condannare, per diverse volte, all’esilio il suo mortale nemico, Atanasio, vescovo di Alessandria, quasi l’unico e strenuo difensore del homooùsios (identico, nella sostanza, a Dio, cioè consustanziale), secondo il Credo di Nicea.
Nel 340, il Papa Giulio I (337-352) convocò un concilio a Roma, al quale parteciparono 50 vescovi, che riabilitarono Atanasio, considerato ingiustamente calunniato.
I vescovi ariani rifiutarono di partecipare ed organizzarono per contro un concilio ad Antiochia nel 341, sotto il coordinamento di Eusebio: venne proposto, senza molto successo, una formula di compromesso, che ponesse l’accento sulla coesistenza eterna di Cristo e del Padre, sorvolando, però, il punto controverso della consustanzialità (“il Figlio è della stessa essenza della divinità e della stessa volontà del Padre”).
Poco dopo questo concilio, nello stesso 341, Eusebio morì, mentre Ario era già morto nel 336.
La dottrina
L’insegnamento ortodosso del Cristianesimo ai tempi di Ario propugnava la dottrina di Dio Padre e Dio Figlio come due persone distinte con una sola essenza.
La principale preoccupazione di Ario era di negare che così potessero coesistere due Dei oppure che non si scivolasse nel modalismo, la dottrina dove si affermava che le persone della Trinità non erano altro che “modi” di essere e di agire dell’unico Dio.
Il fulcro dell’a. era invece la negazione della consustanzialità (stessa sostanza o homooùsios) del Figlio con Dio Padre.
Secondo Ario, il Padre era eterno, la sorgente, in altre parole, non originata di tutta la realtà, mentre il Figlio, sebbene fosse il primo nato fra tutte le creature e il creatore del mondo, era dissimile (anòmoios) ed inferiore al Padre in natura e dignità, perché generato e creato dal Padre stesso, prima di tutti i tempi. Tuttavia ci fu un tempo in cui il Figlio non c’era, come recitava una frase molto citata di Ario.
L’arianesimo dopo Ario ed Eusebio
In seguito alla morte di Eusebio, l’imperatore Costanzo II (337-361, figlio di Costantino), convocò vari sinodi, tenuti tra il 357 ed il 359 a Sirmio (nell’ex Iugoslavia) per cercare di venire a capo delle interminabili dispute teologiche.
Rispetto alla natura di Cristo, le formulazioni presentate furono addirittura quattro:
Homooùsios (identico, nella sostanza, a Dio, cioè consustanziale), secondo il Credo di Nicea, difeso, come si è detto, strenuamente e quasi isolatamente (Athanasius contra mundum: Atanasio contro il mondo) da Atanasio di Alessandria.
Homoioùsios (simile, nella sostanza, a Dio), propugnato da Basilio di Ancyra.
Anòmoios (dissimile da Dio), secondo il credo ariano più canonico, e difeso da Aezio di Antiochia o di Celesiria, Eunomio di Cizico e Ursacio di Singiduno.
Hòmoios (simile a Dio), proposto da Acacio di Cesarea, definizione vaga, dove si parlava di una generica similitudine tra Padre e Figlio, senza precisare il rapporto sul piano della sostanza. I seguaci del partito di Acacio si chiamarono omeisti.
L’imperatore Costanzo dapprima (358) aderì alla dottrina dell’homoioùsios di Basilio, ma successivamente, dopo il sinodo del 359, cercò di imporre la versione homoios di Acacio come ufficiale e convocò i vescovi occidentali a Rimini e quelli orientali a Selucia per ratificare la formula acaciana.
Contemporaneamente fece deporre e relegare a Berea in Tracia Papa Liberio (352-366). Al suo posto fu eletto l’antipapa, di ispirazione ariana, Felice II (355-365). Papa Liberio poté rientrare ad occupare la sua sede, solo dopo aver firmato un documento molto vicino alle tesi ariane.
Questo momento storico del Cristianesimo fu ben descritto da S. Girolamo nella sua frase: ”Il mondo, gemendo, stupì di trovarsi ariano”.
Il concilio di Seleucia, nel 359, al quale partecipò Acacio di Cesarea, oltre a 150/160 vescovi orientali, mostrò tutta la ben nota divisione nel partito ariano, e fu aggiornato dall’imperatore stesso a Costantinopoli, l’anno successivo, dove fu imposta la formula dell’homoios.
Ma nel 361, morì l’imperatore Costanzo e la situazione politica divenne poco chiara: paradossalmente l’ascesa di Giuliano l’Apostata (361-363) permise agli ortodossi niceni di serrare le fila: ad Atanasio fu permesso di ritornare ad Alessandria.
Nel concilio di Lampsaco del 364, indetto da Valentiniano I (364-375), imperatore della parte occidentale, le tesi ariane furono rigettate e i vescovi più in vista furono condannati, tuttavia la parte orientale dell’impero rimase ariana, sotto l’imperatore Valente (364-378, fratello di Valentiniano), lui stesso un ariano radicale.
Fu fondamentale, allora, l’azione dei tre grandi Padri Cappadoci [San Basilio (c.330-379), San Gregorio di Nissa (c.330-395) e San Gregorio di Nazianzo (329-389)], origenisti e strenui difensori del credo niceno, che iniziò a fare breccia nel blocco ariano.
Furono anche decisivi i due nuovi imperatori, Graziano (375-383) ad occidente, ma soprattutto Teodosio (379-395), ad oriente, cattolici convinti, a far pendere l’ago della bilancia a favore del Cattolicesimo ortodosso.
Teodosio convocò nel 381 il 1° Concilio di Costantinopoli, gettando le basi di quel credo niceno-costantinopolitano, fulcro del Cristianesimo, imposto nel 391 come nuova religione di Stato.
Inoltre nel 394, Teodosio diventò l’unico imperatore e impose l’ortodossia su tutto l’impero.
Tuttavia, l’a. diventò religione predominante per i popoli germanici: i Goti, convertiti da Ulfilas il Goto, ma anche i Burgundi, gli Ostrogoti, i Visigoti, i Longobardi, i Vandali mantennero per diversi secoli il loro credo ariano, per poi essere gradualmente riassorbiti dall’ortodossia: solo entro la fine del VIII secolo, l’a. si poté definire scomparso.
L’arianesimo moderno
Dopo svariati secoli, vi fu un certo revival dell’arianesimo alla fine del XVII secolo, nel pensiero di Samuel Clarke (1675-1729), mentre oggigiorno la corrente religiosa protestante, erede più diretto dell’arianesimo è l’unitarianismo.
http://www.dirittoestoria.it/memorie2/
Testi%20delle%20Comunicazioni/Aiello-Mito-Costantino.htm
Università di Messina
IL MITO DI COSTANTINO.
LINEE DI UNA EVOLUZIONE
Voglio approfittare di questa occasione per riflettere su alcuni aspetti di una vicenda complessa, intricata, contraddittoria, e forse per questo affascinante, qual è quella della memoria del primo imperatore cristiano, Costantino il Grande.
Il mio intento sarà di individuare le linee dello sviluppo di questa memoria, prima con alcune considerazioni di carattere generale e poi soffermandomi su determinati punti che ritengo significativi.
Quando parlo del mito di Costantino, intendo ovviamente riferirmi a quel complesso di narrazioni, di programmi iconografici, di celebrazioni liturgiche, che hanno costituito per secoli la memoria del primo imperatore cristiano, in altre parole il Costantino dopo Costantino. Una memoria che è ovviamente elaborazione e che spesso appare lontanissima dalle vicende storicamente verificabili. Una memoria che, come talvolta accade, col tempo ha del tutto cancellato il Costantino storico, per crearne uno appunto ‘mitico’. Il fatto paradossale è che faranno riferimento proprio a questo Costantino – per dodici lunghi secoli, da subito dopo la morte dell’imperatore e sino al XVI secolo – in oriente e in occidente, potere politico e potere religioso, chiesa luterana e chiesa riformata, tradizione colta e fede popolare.
Pochi altri personaggi hanno avuto una simile sorte. Non sappiamo se la ‘mitizzazione’ di Costantino – da collocarsi ovviamente nell’ambito della straordinaria fortuna della memoria di Roma – sia frutto della eccezionale portata storica della sua vicenda o piuttosto della volontà dei contemporanei di manipolare questo personaggio per piegarlo ai propri interessi, per costruire un Costantino a propria misura.
La vicenda costantiniana ha avuto conseguenze veramente dirompenti sulla società antica ed ha suscitato, soprattutto nei più tradizionalisti – beninteso pagani e cristiani – fortissime reazioni. Se i pagani sotto la pressione dei barbari guardavano a Costantino per trovare le cause della drammatica incertezza del momento, anche fra i cristiani il ruolo svolto dall’imperatore aveva creato gravi problemi.
E, a pensarci bene, non poteva essere diversamente. Esisteva una inconciliabilità fra i cristiani e il potere imperiale, risolta dal rivoluzionario Costantino coll’identificare la ecclesia con lo stato, sostenendola, difendendone l’unità.
Tutto ciò doveva apparire ai contemporanei, superata l’euforia della conquistata libertà di culto, una novità sconvolgente che peraltro conteneva in nuce gli elementi del successivo, centenario conflitto fra chiesa e stato. Quando, col passare dei decenni, i cristiani si resero conto delle conseguenze della politica costantiniana, anche nelle forme in cui fu attuata dai suoi successori, si levò un ‘anticostantinianesimo’ di parte cristiana sempre più forte.
Ecco dunque che l’immagine del Costantino diciamo ‘storico’ comincia a diventare un peso ingombrante, una memoria difficile da gestire; ma si trattava pur sempre del primo imperatore cristiano, di colui che per primo aveva dato la libertà ai cristiani, li aveva sostenuti economicamente, aveva fatto loro ampie donazioni: non poteva, dunque, essere semplicemente messo da parte, era opportuno creare un ‘nuovo’ Costantino, meno contraddittorio, meno spigoloso, meno umano.
Una delle conseguenze di questo scarso interesse verso il Costantino storico è anche, in qualche modo, la scomparsa di molta parte della storiografia antica. I moderni non potranno che continuare a sentirsi in qualche modo ‘orfani’, per perdite significative quali, ad esempio, quella dei primi tredici libri di Ammiano, delle Storie di Eunapio, dei mai sufficientemente rimpianti annales di Nicomaco Flaviano, per non parlare della letteratura ariana, dei due libri della Storia relativa al grande Costantino di Praxagoras.
Cosa dire poi delle perdute Orationes dello stesso Costantino, ‘discorsi’ che Giovanni Lido, in piena età giustinianea, poteva leggere in latino.
In ogni caso questa tradizione storiografica (con l’eccezione della storiografia ecclesiastica, che però si è presto liberata del Costantino eusebiano, del Costantino storico) è stata pressoché dimenticata sino alla seconda metà del XVI secolo, e possiamo essere più precisi, sino al 1576, quando, come ha evidenziato Santo Mazzarino, Johannes Löwenklav riporta all’attenzione degli studiosi la Historia Nova di Zosimo, riaprendo dunque il dibattito sulla storiografia antica relativa alla vicenda costantiniana.
Attraverso quali canali, sino a quel 1576, ha viaggiato allora la memoria di Costantino? Facciamone un breve, e certamente incompleto catalogo.
Accanto alla propaganda di corte e al cerimoniale imperiale a Costantinopoli, laddove vi è un continuo riferirsi a Costantino e a sua madre Elena, ci sono le circa 25 Vitae agiografiche dell’imperatore (quelle elencate nella Bibliotheca Hagiographica Graeca ai nn. 362-369).
Poi ci sono le tradizioni diffuse nell’Europa orientale. Bisogna ancora ricordare la meno nota, ma significativa, tradizione britannica, interna al ciclo Arturiano, che vuole Costantino nato in Britannia da Elena, figlia del re Coel di Colchester.
Parallela alla saga costantiniana, corre poi la tradizione della ‘Kreutzauffindungslegende’, che, come vedremo, ad un certo momento, e siamo alla fine del IV secolo, si legherà strettamente allo sviluppo del mito costantiniano.
Ancora bisogna ricordare due, forse meno noti, filoni narrativi, risalenti ai secoli XIII e XIV, ma che conservano tracce di narrazioni più antiche.
I primo è il cosiddetto Libellus de Constantino Magno eiusque matre Helena risalente alla fine del XIII e pubblicato nel 1879 da Eduard Heydenreich, recentemente riproposto da Giulietta Giangrasso. In questa si narra di Elena, nobile fanciulla di Treviri, che, recatasi a Roma per far visita alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, viene rapita e violentata dall’imperatore Costanzo, che poi, preso dal rimorso, la lascia libera. Rimasta a Roma, dà alla luce Costantino. Dopo molte traversie, fra le quali il matrimonio, combinato da alcuni mercanti, di Costantino, spacciato per il figlio dell’imperatore di Roma, con la figlia dell’imperatore costantinopolitano, che aveva combattuto una guerra con l’imperatore di Roma (ed è significativo questo contrasto, non solo narrativo, fra romani d’occidente e romani d’oriente, che nasce probabilmente dalla memoria della poco amichevole presenza bizantina in Italia, e ancora dal ruolo antagonista che l’impero di Bisanzio svolge nel XIII secolo nei confronti delle città mercantili d’Italia), durante il viaggio di ritorno verso Roma i due giovani subiscono il furto di tutti i doni matrimoniali, ad esclusione di una preziosissima veste della sposa, grazie alla quale Elena compra una locanda e diviene una stabularia, la bona stabularia della tradizione ambrosiana.
A questo punto Costantino si mette in luce nel corso dei giochi allestiti in occasione del compleanno dell’imperatore Costanzo che lo riconosce come figlio, nominandolo proprio erede; anche l’imperatore greco, venuta a sapere l’esito della vicenda, lo riconosce come proprio erede, per cui l’impero ritrova l’unità.
La seconda narrazione è testimone di una tradizione confluita nei poemi del Ciclo carolingio, elaborati nella versione italiana dei Paladini di Francia e che trova alla fine del XIV secolo un efficace autore in Andrea da Barberino, autore dei Reali di Francia,dove viene affermata la discendenza dei re di Francia, e dunque di Carlo, da Costantino, una discendenza che compare, oltre che nei Reali barberiniani, solo nelle cosiddette Storie di Fioravante redatte sempre in Italia fra il 1315 e il 1340, e in una tradizione islandese definita Flovents saga Frakka konungs che dipenderebbe dalle Storie di Fioravante, tutti e tre dipendenti da un’unica tradizione.
«Nel tempo che Gostantino regnò in Roma – così iniziano I reali – fu in Roma un santo papa, pastore di santa chiesa, che aveva nome Salvestro, il quale fu molto perseguitato da Gostantino, lui e gli altri cristiani, per fargli morire».
Silvestro cerca di sfuggire alla persecuzione e trova rifugio sul «monte Siracchi», il Soratte; da qui però Silvestro «andossene nelle montagne di Calabria, nelle più scure montagne chiamate le montagne d’Aspromonte, per le più aspre, e menò seco certi discepoli che s’erano battezzati e fatti cristiani e servi di Cristo».
Questa riferimento all’Aspromonte come luogo di rifugio di Silvestro poggia su un’altra tradizione, quella della cosiddetta chanson d’Aspremont, una narrazione che appartiene ovviamente al filone delle chanson de geste e che colloca in Calabria, a Reggio, denominata Risa, un episodio della lotta tra i paladini e i mori.
Torniamo alla narrazione dei Reali. Gostantino si ammala di lebbra; viene chiamato Silvestro che lo guarisce tramite il battesimo. L’imperatore fa battezzare tutta la sua famiglia, tranne due figli, Gostantino, come il padre, che fugge ad Aquileia, ove muore ucciso da nemici, e Costo, come il nonno (ovviamente Costanzo Chloro), che fugge a Costantinopoli, che era stata già fondata, ove muore. Solo un terzo figlio accetta di essere battezzato, Gostanzo detto Fiordimonte, di circa vent’anni.
Questi, che dopo il battesimo prende il nome di Fiovo, si rende protagonista di un grave fatto. Mentre serviva una coppa di vino al padre Gostantino, cadutene alcune gocce sul mantello di un tale Saleone, «signore di molte province di Grecia», grande amico dell’imperatore, ma che non aveva voluto essere battezzato, venne da questi colpito con un pugno e così apostrofato «Ribaldo poltrone, se io non riguardassi all’onore di tuo padre, io ti torrei la vita».
Fiovo per vendetta uccide il greco Saleone (ancora una volta ritorna il motivo dello scontro con i greci, i ‘romani d’oriente’) fugge poi in direzione della Toscana, dove inseguito dal padre Gostantino, riesce a stento a sfuggirne l’ira («Figlio bastardo! Figlio snaturato! Si perda con te la discendenza, si cancelli il mio nome, precipiti lo stato; ma pure il meglio è ch’io t’uccida con le mie mani, che farti giustiziare a Roma». Raggiunge la Provenza, ne converte la popolazione al cristianesimo, prende Parigi.
Assediata Roma dai pagani, che Andrea da Barberino identifica con i saraceni, Gostantino richiama Fiovo, che ha la meglio sui nemici. Gostantino a questo punto si trasferisce a Costantinopoli, Fiovo regna a Roma, mentre i suoi figli, Fiore e Fiorello saranno rispettivamente l’uno re di Dardenna (cioè delle Ardenne e dunque della Francia orientale) e l’altro della Francia occidentale; da essi sarebbero poi discesi Pipino e dunque Carlo.
Come è noto, la vicenda di Costantino lebbroso guarito da Silvestro attraverso il battesimo è in realtà ripresa dalla tradizione degli Actus Sylvestri, una affascinante vita agiografica del vescovo di Roma.
Una narrazione, da collocarsi tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, che, per un verso o per l’altro costituisce l’Ur-Text di tutte le altre tradizioni su Costantino. Si tratta di un testo estremamente importante diffuso in più versioni (latina, greca, siriaca, armena), che hanno conosciuto nell’età tardoantica e in quella medievale un’ampia diffusione, testimoniata da oltre 400 codici, e una straordinaria fortuna come testo di riferimento per i compilatori medievali e umanistici; un testo che nella comune opinione, pur nella varietà delle versioni esistenti, si deve far risalire ad una redazione latina.
In essa, a mio parere, compaiono tre sezioni ben distinte fra loro e che risalgono a nuclei narrativi distinti poi confluiti a formare il testo nella forma a noi nota: la prima è incentrata sulle imprese carismatiche e sulle riforme liturgiche operate da Silvestro; la seconda riguarda la conversione di Costantino pagano e malato di lebbra; la terza è costituita da una altercatio, un contraddittorio tra Silvestro e dodici rabbini, svoltosi alla presenza di Costantino e di sua madre Elena.
Nella parte centrale, quella che ho chiamato conversio Constantini, si racconta di Costantino, pagano, persecutore dei cristiani, malato di lebbra. I sacerdoti pagani gli consigliano un bagno di sangue umano e per questo i soldati raccolgono oltre tremila fanciulli; subito l’imperatore si rende conto della gravità dell’atto e vi rinuncia. Nella notte gli appaiono in sogno Pietro e Paolo che, inviati da Cristo, lo sollecitano a richiamare dall’esilio sul monte Soratte il vescovo Silvestro, fuggito a causa della persecuzione, il quale gli indicherà il modo per guarire dalla malattia attraverso il battesimo. Siamo, e gli Actus lo dichiarano esplicitamente, nel 326.
Una tradizione, questa di Costantino lebbroso guarito dal battesimo, che confluirà arricchita della donazione di Roma a Silvestro nel constitutum Constantini, e che troverà ampia attestazione nella iconografia altomedievale nell’ambito ovviamente del confronto fra autorità statale e autorità religiosa.
La conversio è nata probabilmente dopo il sacco alariciano del 410, allorquando la polemica pagana che negli ultimi anni del IV secolo si era in qualche modo attenuata, ritrova ora virulenza nel sostenere il nesso di consequenzialità tra l’abbandono dei culti tradizionali a favore della religione cristiana e la caduta di Roma.
Quanti tra i pagani si opposero alla rivoluzione costantiniana, infatti, avevano avuto gioco facile a rintracciare in quella vicenda aspetti che, per un verso o per l’altro, polemicamente potevano diventare oggetto di critiche talvolta anche gravi. Così negli anni ‘60 del IV secolo, il nipote Giuliano in un passo famoso dei caesares, senza citare direttamente i delitti familiari quali l’uccisione del figlio Crispo e della moglie Fausta, presenta lo zio Costantino che in compagnia della Dissolutezza e della Sregolatezza incontra Cristo, il quale promette ad ogni peccatore, attraverso l’acqua purificatrice del battesimo e la riconciliazione, la cancellazione di ogni colpa, una divinità verso la quale – continua Giuliano – Costantino non tarda a indirizzarsi.
Una opposizione a Costantino, ma più in generale al cristianesimo e, ancora, alla nuova capitale, Costantinopoli, che per vie non ancora del tutto chiarite, nelle quali si deve collocare la mediazione dei già ricordati annalesdi Nicomaco Flaviano, già forse presente nell’opera di Eunapio, appare, in forma radicalizzata in Zosimo.
Contro le rinnovate argomentazioni pagane polemizza la conversio Constantini, che mantenendo inalterati gli elementi della tradizione pagana anticostatiniana ne stravolge quello che era l’elemento negativo, l’uccisione di Crispo e Fausta come causa determinante e facendo ricorso ad una tradizione forse già diffusa, presenta Costantino pagano afflitto dalla lebbra, dalla quale tenta di guarire attraverso il bagno cruento, per poi fare ricorso al lavacro battesimale.
Una risposta alla polemica pagana che però nel contempo, spostando il battesimo di Costantino al 326, e soprattutto a Roma, pone in risalto il carattere occidentale della conversione, di cui è artefice Silvestro, vescovo della città in quegli anni; soprattutto veniva eliminata ogni contaminazione con l’arianesimo insita, come vedremo, nel battesimo nicomediense. Ancora, veniva sancito il primato del vescovo di Roma non solo sul processo di conversione dell’imperatore e dunque in qualche modo nei confronti dell’autorità statale, ma anche sulla chiesa occidentale, e fors’anche su quella orientale.
La fortuna degli Actus si concretizza, in occidente quasi immediatamente, alla fine del V secolo, nella decretalis de recipiendis et de non recipiendis libris legata al nome di papa Gelasio e ancora agli inizi del VI secolo attraverso i cosiddetti ‘Apocrifi Simmachiani’ realizzati durante lo ‘scisma laurenziano’: il Silvestro degli Actus, colui cioè che aveva guarito e convertito Costantino, viene chiamato in causa come illustre precedente a sancire l’indipendenza del vescovo di Roma dall’autorità statale; una tradizione che si rafforza, tra il 525 e il 530, attraverso la confluenza della biografia di Silvestro nella raccolta del Liber Pontificalis. In oriente bisogna attendere il 787, allorquando in occasione del secondo concilio niceno questa tradizione viene ufficialmente accettata.
Tutto questo prosperare di narrazioni, tutto questo sviluppo del mito costantiniano è servito anche a compensare, in certo qual senso, una serie di lacune nella conoscenza della vicenda costantiniana, talune importanti, che hanno condizionato e continuano a condizionare pesantemente la comprensione di quanto accaduto nella prima metà del quarto secolo.
Facciamone una brevissima carrellata. Le zone d’ombra cominciano dalla origo di Costantino, dai rapporti fra Costanzo ed Elena, la bella locandiera, dell’anno di nascita dell’imperatore, ricostruito solo su base deduttiva, senza peraltro alcuna certezza e del luogo, forse Naisso, l’attuale Niš in Serbia, città tuttavia che, come è stato notato, appare troppo legata alla memoria della vittoria del restitutor Claudio Gotico avvenuta nel 269 e la cui indicazione come patria,come città natale dell’imperatore è attestata solo da due testimonianze.
E ancora oscure continuano ad apparirci le vicende relative alla fanciullezza e alla giovinezza dell’imperatore, prima cioè del ricongiungimento con Costanzo, tra la fine del 305 e gli inizi del 306, alla morte del quale nel giugno del 306 presso York viene proclamato dai soldati come successore del padre; anni nei quali è genericamente collocata una presenza presso la corte di Diocleziano e Galerio. Nulla dunque sui rapporti con il padre Costanzo e di questi con Elena, nulla sugli anni della formazione, nulla sul legame con Minervina e sulla nascita del primogenito Crispo: un velo avvolge quegli anni, per squarciarsi, all’improvviso con l’ingresso (dirompente) nella compagine tetrarchica.
Senza neppure tentare di accennare alla miriade di problemi che circondano il tema della conversione di Costantino, un tema sul quale, si può dire con sicurezza, dal IV secolo in poi il dibattito non si è mai sopito, e che di recente è stato fortemente rilanciato dal lavoro di Jochen Bleicken, altre vicende ci appaiono oscure, come quelle relative alla guerra contro Massenzio per la quale non disponiamo che del resoconto offerto da due panegirici, quello anonimo pronunciato a Treviri tra l’estate e l’autunno del 313 e quello offerto da Nazario il 1 marzo del 321, sulla base dei quali tuttavia non è possibile una chiara ricostruzione non tanto delle azioni compiute dalle truppe costantiniane, quanto del modo in cui la guerra è stata condotta da parte di Massenzio. Così come non del tutto chiare sono le fasi della battaglia di Ponte Milvio.
E si potrebbe continuare con i difficili rapporti fra Elena, Fausta e i figli di Teodora, e dunque delle varie soluzioni dinastiche escogitate dall’imperatore, tutte vanificate dalla strage del settembre 337. E per finire, i rapporti con gli ariani e le modalità del battesimo ad opera di Eusebio di Nicomedia. L’elenco è lungo, a dimostrazione del fatto che in realtà su Costantino è molto più quello che non sappiamo che quello che sappiamo.
Non è un caso, ovviamente. Da una parte c’è stata la volontà dello stesso Costantino a creare una ben definita immagine di se stesso, costruita su un numero limitato di informazioni debitamente propagandate; dall’altra la vicenda costantiniana, come ho già detto, ha creato non pochi imbarazzi ai contemporanei.
Proprio in relazione a questi vuoti emblematica è la vicenda di Silvestro. Una perfecta defectio, una eclissi totaleè quella accaduta a proposito della vicenda di Silvestro I, vescovo di Roma dal 314 al 335, un ventennio senza dubbio cruciale nella storia dell’impero e, ovviamente, nella storia della chiesa; cruciale soprattutto per la definizione dei rapporti fra stato e chiesa, sulla base dei quali prenderà forma l’Europa medievale e moderna.
Di questi importanti anni Silvestro non può non essere stato testimone privilegiato; anzi ci aspetteremmo di vedere proprio il vescovo della Città Imperiale, in qualche modo, attore di primo piano, se non addirittura protagonista di quegli avvenimenti.
E invece sembrerebbe che nulla di tutto questo sia accaduto: sulla vicenda di Silvestro I le fonti antiche appaiono, nel migliore dei casi, reticenti e più spesso tacciono quasi completamente. Sulla scorta di questa reticenza, di questo apparente silenzio, gli storici moderni hanno liquidato un episcopato ventennale in poche battute.
Un silenzio attribuito da una parte alla, per così dire, inettitudine dello stesso Silvestro, e dall’altra alla contemporanea, concorrente presenza di Costantino che svolse certamente un ruolo determinante e in qualche modo assolutizzante.
In realtà di Silvestro conosciamo solo le assenze. A proposito della vicenda donatista, il iudicium romano del 313 che vedeva contrapposti Ceciliano e Donato dinanzi ad una corte di vescovi presieduta da Milziade, vescovo di Roma, si era risolto con la conferma di Ceciliano quale vescovo di Cartagine, non aveva però eliminato l’opposizione di Donato e della sua fazione, che interposero immediatamente appello. La nuova inchiesta viene prima affidata al vicario d’Africa, poi al proconsole Eliano. La relazione di quest’ultimo raggiunge Costantino a Treviri tra il febbraio e il marzo del 314, ed è una relazione sostanzialmente favorevole a Ceciliano. Occorreva dunque che un organo ecclesiastico facesse propri quei risultati. L’imperatore convoca così una sinodo per il 1° agosto di quel 314 ad Arelate.
Alla sinodo, nella quale sono rappresentati quasi tutti i territori sottoposti a Costantino e che si configura dunque come una sorta di concilio generale delle chiese occidentali, non partecipa, ed è questo il fatto significativo, il nuovo vescovo di Roma, Silvestro, che invia al suo posto due presbiteri e due diaconi.
All’assente Silvestro, i vescovi riuniti ad Arles inviano una lettera con la quale comunicano l’esito della sinodo e lamentano l’assenza di Silvestro, quasi a dire che la sua presenza avrebbe reso ancora più severa la condanna di Donato e dei suoi seguaci.
Funzionale all’auspicato esito dell’incontro di Arles era ritenuta l’esclusione di quanti – come Silvestro – avrebbero potuto impedire la conciliazione fortemente voluta dall’imperatore Costantino; una posizione, molto probabilmente, suggeritagli da qualcuno dei suoi consiglieri, fra i quali è da annoverare – già in quegli anni – certamente Ossio di Cordova, un personaggio destinato a svolgere un ruolo fondamentale nella attuazione della politica religiosa costantiniana e al quale l’imperatore, già nel 313, aveva affidato, come è noto, il compito di sovrintendere alla distribuzione di denaro alle chiese africane.
Ancora Ossio incontriamo in relazione all’altra significativa assenza di Silvestro, quella in occasione del concilio di Nicea del 325. A questo incontro decisivo, voluto da Costantino per risolvere la grave e difficile situazione in cui si trovava la chiesa d’oriente dilaniata dal problema ariano, partecipano circa 300 vescovi, in gran parte orientali, ma con significative presenze occidentali. Mancava, come ricorda Eusebio nella vita Constantini, il vescovo di Roma a causa dell’età, rappresentato dai presbiteri Vito e Vincenzo.
Proprio Ossio, che apre la lista delle sottoscrizioni, presiederà l’assemblea e sarà – come comunemente si ritiene – l’artefice delle decisioni conciliari. Svolgerà dunque un ruolo determinante, adeguato peraltro al prestigio che aveva assunto presso Costantino.
Dicevamo dell’assenza di Silvestro. La notizia fornita da Eusebio non può non suscitare alcune perplessità. Certo, noi non possediamo alcun dato cronologico a proposito di Silvestro, ma probabilmente nel 325 egli doveva essere realmente abbastanza avanti negli anni, circa 60; purtuttavia, Silvestro continuò a sostenere la carica episcopale a Roma per altri dieci lunghi anni; e ancora c’è da notare come lo stesso Ossio, che a Nicea svolge un ruolo delicato e impegnativo, aveva in quella occasione ben 70 anni.
Ad Arles Silvestro era stato forse escluso dalla sinodo in quanto, per quello che abbiamo detto, avrebbe potuto intralciare l’opera di mediazione voluta da Costantino e messa in atto da Ossio; adesso, a Nicea, la contrapposizione fra Silvestro e Ossio è netta, dovuta presumibilmente, ancora una volta, ad una qualche difficoltà, da parte di Silvestro, a giocare in quella occasione un ruolo di mediazione.
Nella lettera sinodale inviata da Damaso a Graziano e Valentiniano nel 380 dopo il quarto concilio romano, si fa riferimento ad accuse che erano state fatte proprio a Silvestro, che si era dovuto difendere dinanzi a Costantino
Agostino in un passo del De unico baptismo, scritto nell’atmosfera infuocata della conferenza di Cartagine del 411, riferisce del fatto che da parte donatista agli inizi del V secolo (ma doveva certo trattarsi di accuse che risalivano alla prima metà del IV) venne mossa al vescovo Marcellino (296-304) l’accusa di essere stato un traditor; accusa rivolta anche a tre suoi presbiteri Milziade, Marcello e Silvestro, personaggi nei quali, senza eccessiva difficoltà, potremmo riconoscere il Marcello, futuro vescovo di Roma nel 308-309, Milziade, vescovo dal 310 al 314, e il nostro Silvestro.
Se dunque questa è l’accusa mossa dai donatisti a Silvestro, quella cioè di aver ceduto alle pressioni dei persecutori, di avere consegnato i libri sacri e dunque di essere stato un traditor, allora si potrebbe comprendere il fatto che egli rappresentava, ad Arles, la persona meno adatta a partecipare ad un giudizio oggetto del quale era proprio l’accusa di Donato ad un Ceciliano, consacrato dal traditor Felice d’Aptungi.
Partendo da questa ipotesi si potrebbe dunque comprendere l’isolamento nel quale Silvestro viene a trovarsi per il prosieguo del suo episcopato; un isolamento che è determinato non tanto, o meglio non soltanto, dall’iniziativa sempre più ampia che Costantino prende nei confronti della chiesa che vuole cattolica, quanto dall’essere Silvestro collocato su posizioni che Ossio – e dunque lo stesso Costantino – non consideravano accettabili; dal costituire cioè un problema, dall’essere, per usare una espressione moderna, impresentabile.
Tuttavia non si poteva rinunciare alla figura di quel vescovo di Roma che aveva guidato la città proprio negli anni della svolta costantiniana. Sorge allora una tradizione agiografica che opera una lieve elaborazione degli avvenimenti; per cui Silvestro diviene, attraverso l’esperienza del carcere, confessore, si ritira, durante la grande persecuzione, sul monte Soratte cum suis clericis, costituendo quindi, in quel luogo, una sorta di cenobio. Ritorna poi a Roma per svolgere un ruolo determinante nel processo di conversione di Costantino, vicenda che collocata nella tradizione della conversio Constantini nel 326 naturalmente non può che porre l’allora vescovo della città, Silvestro, quale protagonista: è proprio la conversio, a mio parere, a catalizzare l’attenzione su Silvestro, a riabilitarlo e a farne il protagonista di una saga fra le più interessanti.
L’altro personaggio che ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo del mito costantiniano è la madre Elena. Non è un ruolo scontato. Molte sono le perplessità sul reale peso di questa donna sulla vita del primo imperatore cristiano, certamente negli anni giovanili, ma anche nella maturità, quando certamente ebbe un peso sulle scelte politiche dell’imperatore e nel contrasto con Fausta (morte di Crispo) e poi nella opposizione verso il ramo cadetto (figli di Costanzo Cloro e di Teodora, e poi i nipoti Annibaliano e Delmazio).
In ogni caso il culto di Costantino appare quasi sempre accompagnato da quello per la madre Elena ed è sempre caratterizzato dalla presenza della croce. Si tratta, come è noto di un culto antico. Sorto in Oriente, forse già immediatamente dopo la morte dell’imperatore, è il frutto di una sorta di commistione fra apoteosi imperiale e canonizzazione, una apoteosi cristiana.
Come è noto Costantino venne sepolto in un sarcofago di porfido rosso nella Basilica dei XII Apostoli a Costantinopoli, in posizione centrale rispetto alle steli degli Apostoli; Costanzo II tra il 359 e il 360 avrebbe spostato la sepoltura, momentaneamente presso la chiesa di S. Acacio e poi trasferita nel Mausoleo, collocato all’esterno del Martyrion, dedicato nel 370. Si trattava, come avrebbe spiegato qualche anno dopo Giovanni Crisostomo, di distinguere nettamente i santi della chiesa e i sovrani divinizzati. Questo potrebbe essere l’indizio che la venerazione dell’imperatore fosse già iniziata.
Esistono profonde differenze nel culto di S. Costantino tra oriente, dove si è sviluppato senza soluzione di continuità, e occidente, dove il culto di questo santo è giunto per vie non ancora del tutto esplorate, ma certamente a seguito delle armate bizantine venute nelle nostre regioni a ‘liberarle’ dai goti e dai vandali.
Ma anche in queste regioni il culto a S. Costantino non si è diffuso in modo uniforme. Soffermiamoci sull’Italia. Accanto a testimonianze toponomastiche importanti e a celebrazioni vissute con una forte partecipazione popolare come questa di Sedilo, troviamo tracce altrettanto significative in altre regioni del paese che tuttavia non hanno alimentato un culto diffuso e partecipato come quello sardo.
Questo non significa che un culto non esista, o meglio non sia esistito. La Calabria, la Basilicata, anche l’Alto Adige, conservano S. Costantino in numerosi toponimi, con la presenza spesso di luoghi di culto dedicati al santo ancora attivi.
Anche alcune zone della Sicilia orientale presentano una analoga situazione. Sto compiendo una ricognizione delle testimonianze presenti nella provincia di Messina, o meglio in quella che era la medievale Val Demone e ho trovato numerose attestazioni di un culto ancora attivo anche se non in maniera eclatante, testimonianze che mi riprometto di presentare, magari in un prossimo incontro.
Anche l’onomastica risente in qualche modo di una limitata consapevolezza, fuor di Sardegna, dell’esistenza di un culto nei confronti del primo imperatore cristiano. Si pensi, ad esempio, che in uno dei più noto Dizionari etimologici dei nomi italiani, quello curato da Emidio De Felice, il nome Costantino non compare se non come derivato da Costante; il paradosso è che si vuole considerare il nome ‘Costantino’ con oltre 31.000 attestazione, più altre 9.000 della variante femminile, per un totale di 40.000 come derivato di ‘Costante’ che registra solo 7.000 attestazioni, senza alcun riferimento al fatto che il nome ‘Costantino’ potrebbe vivere di vita autonoma e che il suo successo potrebbe appunto derivare dal prestigio proprio di S. Costantino.
Si diceva di Elena e del fatto che il suo culto venga quasi sempre associato a quello del figlio. Non sono d’accordo con quanti ritengono che ciò sia avvenuto per attenuare l’eccessiva preponderanza del ruolo del principe: a mio parere Elena è stato lo strumento attraverso il quale è stato recuperato Costantino.
Perché accanto all’anticostantinianesimo pagano, che ho prima ricordato, è esistito anche un forse più virulento anticostantinianesimo cristiano, destinato a divenire col tempo sempre più radicale e che, in qualche misura, è durato sino ai nostri giorni.
Un anticostantinianesimo cristiano – sembrerebbe una contraddizione concettuale – che trae origine dal favore che Costantino sembra concedere negli ultimi anni della sua vita agli ariani. Un avvicinamento che culmina con il battesimo dell’imperatore avvenuto a Nicomedia per mano del vescovo Eusebio di Nocomedia, molto vicino alle posizioni ariane. Un battesimo dal quale, nella opinione di quanti erano legati all’ortodossia nicena, erano derivate conseguenze terribili, grazie anche al favore dimostrato agli ariani dal successore di Costantino il figlio Costanzo II, conseguenze che erano culminate negli atteggiamenti decisamente filoariani di Valente e nelle simpatie dello stesso Valentiniano II e soprattutto della madre Giustina.
Questa notizia, alla quale lo stesso Eusebio di Cesarea, nella sua vita Constantini, accenna in modo molto sfumato, appare in trasparenza nelle polemiche sorte sullo sfondo dell’aspro confronto che in occidente, all’indomani del 337, con Costanzo II si apre fra autorità statale e autorità religiosa.
Così il quasi centenario Ossio di Cordova, che pure di Costantino era stato il più fidato consigliere, si scaglia contro Costanzo e definisce in maniera chiara, per la prima volta dopo Costantino, i limiti dell’autorità politica nei confronti delle questioni religiose; in quella occasione egli condanna l’ingerenza di Costanzo, che tenta di ricreare l’unità della chiesa però su posizioni vicine a quelle ariane, col pensiero rivolto a colui che aveva creato i presupposti di quella politica religiosa, Costantino appunto.
Senza reticenze, poi, la voce estrema del radicalismo niceno, quella di Lucifero di Cagliari, si scaglia contro Costanzo II definito episcopus episcoporum e filius diaboli, in ciò giocando sull’ambiguità della affermazione, poiché Costanzo era pur sempre figlio di Costantino.
Tuttavia bisogna attendere i convulsi anni tra il 378 e il 380, quelli della battaglia di Adrianopoli e della morte di Valente, della ascesa al trono imperiale di Teodosio, della dichiarazione di fede nicena contenuta nell’editto di Tessalonica, perché la notizia del battesimo ariano venga dichiarata in maniera esplicita e con toni accorati nelle parole del chronicon di Girolamo: Constantinus extremo vitae suae tempore ab Eusebio Nicomediensi episcopo baptizatus in Arrianum dogma declinat.
Il disagio suscitato da una simile affermazione dovette essere notevole: se nella maggior parte dei casi la notizia viene ignorata, altri come Rufino di Aquileia la rielaborano, attribuendo ad Eusebio di Nicomedia non il ruolo di amministratore del battesimo, bensì quello di semplice esecutore testamentario. Gli stessi copisti medievali intervengono pesantemente sul testo, talvolta correggendo ConstantinusinConstantius, oppure ponendo Eusebio di Nicomedia quale soggetto della conversione all’arianesimo.
Da tutto questo, in ambiente niceno, l’immagine di Costantino, l’immagine del primo imperatore cristiano esce malconcia. Bisognerà attendere il 395, la morte cioè di Teodosio per assistere alla riabilitazione di Costantino. Una riabilitazione che passa attraverso la madre Elena nel de obitu Theodosii di Ambrogio.
Questi nel 395, alla morte dell’imperatore Teodosio il Grande, si trova a dover affrontare un grave problema di successione all’imperatore da poco scomparso: il 17 febbraio 395, quaranta giorni dopo la sua morte, alla presenza di Onorio e della corte, Ambrogio pronunciare il de obitu Theodosii, una orazione funebre che costituisce soprattutto il più autorevole sostegno alla politica dinastica teodosiana.
Il problema al quale Ambrogio cerca di dare una soluzione è estremamente grave. La morte improvvisa dell’imperatore aveva lasciato lo stato in una situazione difficile: a succedergli sono due figli giovinetti, il diciottenne Arcadio e il più piccolo Onorio di soli dieci anni, due adolescenti, due principes pueri.
Al di là dei problemi oggettivi, un tale evento doveva fare i conti con l’esistenza di una forte polemica contro la successione affidata ad adolescenti, se non addirittura a fanciulli, un tema caro al confronto politico e al dibattito storiografico del IV secolo e destinato a essere rinnovato nel secolo successivo.
Una polemica che oggi definiremmo trasversale in quanto il cristiano, ma tradizionalista, Ambrogio si muoveva in sostanziale sintonia con quello che era l’atteggiamento di quella parte ancora pagana e radicalmente tradizionalista dell’aristocrazia romana.
Ambrogio tuttavia, sulla spinta di nuove esigenze, anche politiche, avrebbe presto mutato opinione allorquando, nel 392, pronunciava il discorso funebre per l’improvvisa e misteriosa morte del ventunenne Valentiniano II, nel quale il puer Valentiniano, diviene senex negli atteggiamenti, nelle scelte politiche, nella maturità degli atti privati e di governo.
Nel de obitu Theodosii, a poco più di due anni di distanza, Ambrogio non deve più difendere la memoria un princeps puer, deve invece sostenere il futuro di due pueri che la scomparsa del padre ha reso principes. Il momento è grave: è in gioco la stabilità dello stato, sono in gioco le scelte politiche operate da Teodosio, sono in pericolo soprattutto le sue scelte religiose di segno niceno. La stabilità politica, la sicurezza dello stato dipendono essenzialmente dalle azioni dell’imperatore, dalle scelte dell’imperatore cristiano che solo in quanto colmo di virtù cristiane si è vista garantita la protezione divina e l’assunzione in cielo; protezione divina il cui trasferimento ai figli Arcadio e Onorio diviene un argomento fondamentale per superare l’incertezza del momento.
Stando così le cose, Ambrogio in qualche modo sembrerebbe aver superato le obiezioni opposte ai principes pueri. Ma non basta; deve fornire al proprio pubblico una prova concreta di come quella successione sia la soluzione migliore per la stabilità dello stato. Per far questo ha bisogno di un preciso modello di riferimento.
Così, a sostegno del programma dinastico teodosiano, nella cerchia dei familiari che nei cieli circondano l’imperatore, colloca anche Costantino, il primo imperatore cristiano; Teodosio ora sa di regnare veramente perché non si separa da Costantino, con una avvertenza «…sebbene a Costantino la grazia del battesimo (senza specificare in quale forma!) abbia rimesso tutti i peccati solo in punto di morte, tuttavia, siccome fu il primo imperatore a credere e lasciò dopo di sé ai suoi successori l’eredità della fede (hereditas fidei), ottenne un posto degno dell’insigne suo merito…».
È questo il grande merito di Costantino, al di là delle critiche, al di là degli aspetti negativi, al di là dell’evidenza, talora drammatica, dei fatti.
Come è noto, i successivi capitoli 41-51 del de obitu Theodosii contengono un’ampia digressione relativa alla inventio crucis ad opera di Elena, madre di Costantino, la quale nel voler assicurare al figlio la protezione divina per affrontare con sicurezza gli scontri militari, visitò i luoghi santi e sul Golgota rintracciò i chiodi della croce; con essi realizzò un morso da cavallo e un altro inserì in un diadema di gemme, morso e diadema che inviò al figlio Costantino, il quale li utilizzò subito e li trasmise poi ai propri successori, e con essi la fede: il chiodo inserito nel diadema rappresenta la guida divina all’azione imperiale, mentre quello collocato nel freno rappresenta la moderazione che deve ispirare il principe cristiano.
La scelta di Costantino come primo imperatore cristiano, come primo detentore di quella fides, era ovvia, ma non per questo si trattava di una scelta facile. L’anticostantinianesimo da parte nicena che non poteva certo essere ignoto ad Ambrogio. Tuttavia Costantino gli serviva: certamente poiché egli era il primo imperatore cristiano, ma forse anche per un’altra ragione.
Dicevamo della necessità da parte di Ambrogio di dimostrare nei fatti l’utilità della successione dinastica. Gli esempi, nel recente passato, di una dinastia consolidata nel tempo e vittoriosa, non erano molti; la dinastia valentinianea non poteva certo essere additata a modello sia per i legami con gli ambienti ariani che per la relativa brevità del regno; il breve regno di Gioviano (363-364) non era neppure da prendere in considerazione e il pagano Giuliano era escluso per ovvi motivi. Restava Costantino che aveva regnato per trenta anni e aveva lasciato il regno ai figli e in particolare a Costanzo II, il quale ultimo aveva a sua volta regnato per altri ventiquattro anni, cumulando quindi, a merito della dinastia, oltre mezzo secolo, quasi un sessantennio, di regno che aveva visto il successo degli eserciti romani sia contro i nemici esterni, che contro gli usurpatori interni.
Quella costantiniana, dunque, poteva rappresentare per Ambrogio un utilissimo modello; tuttavia era un modello che non poteva essere proposto a cuor leggero proprio a causa di quel favore manifestato nei confronti degli ariani.
Ma ecco la soluzione: della vicenda costantiniana viene selezionato un solo episodio, una vicenda che non poteva creare alcun imbarazzo al niceno Ambrogio, ma che anzi costituiva un potente segno della benevolenza divina nei confronti di Costantino: la scoperta della croce ad opera di Elena.
Si trattava di una tradizione che già doveva circolare alla fine del IV secolo, ma è Ambrogio il primo a presentarla, per potere in questo modo recuperare in positivo la figura di Costantino.
Così, grazie ad Elena, la figura di Costantino può essere riabilitata; così Agostino nel de civitate Dei potrà annoverare Costantino, assieme a Teodosio, quale campione della fede. Così l’interpretazione geronimiana della vicenda di Costantino, quella che era, nei fatti, la più veritiera, veniva sconfessata e sconfitta da quella ambrosiana che, stravolgendo i fatti, creava l’immagine di un Costantino ortodosso; una immagine che, parallelamente a quella degli Actus Sylvestri, delle narrazioni agiografiche, del culto, dei poemi cavallereschi, dei cicli pittorici era destinata a percorrere i secoli.
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