LA RELATIVITÀ DA NEWTON AD EINSTEIN (PARTE 3) 

Roberto Renzetti

 8 – LA POSIZIONE DI OSTWALD E DUHEM: L’ENERGETISMO. LA TERMODINAMICA ALLA BASE DI UNA NUOVA FISICA. LE POSIZIONI DI BOLTZMANN E POINCARE’.

        II primo che tentò di costruire una fisica fondata sulla termodinamica, sull’onda del successo del lavoro di Helmholtz Sulla conservazione della forza, fu il fisico britannico W.J.M. Rankine (1820-1872).  (710)  Nel suo Lineamenti di una scienza dell’energetica (1855), egli sostenne che il metodo più proficuo per conoscere la natura è quello che si affida ad astrazioni che sono in grado di essere formalizzate per condurci alla scoperta di principi generali. La termodinamica, nella quale l’energia gioca il ruolo più importante perché da essa dipendono i cambiamenti, è il migliore strumento che può servire alla conoscenza della natura. In definitiva, per Rankine, la scienza energetica è il sistema teorico più generale per la conoscenza del mondo naturale che ci circonda.

        La tesi di Rankine venne ripresa dal fisico tedesco G.  Helm  (1851-1923) il quale, nel suo Lezioni sull’energia (1877), sostenne, in accordo in questo con Mayer, che tutte le forme di energia sono equivalenti, togliendo in questo modo un qualche ruolo privilegiato all’energia meccanica. E poiché tutte le forme di energia sono equivalenti, la materia, che in meccanica è il veicolo di trasmissione dell’energia, perde il suo ruolo centrale (Helm aveva buon gioco a sostenere questa tesi soprattutto a partire dal 1886, dopo le prime esperienze di Hertz). In questo quadro esplicativo veniva, rifiutata l’idea di atomo e di corpuscolo e quindi di ogni descrizione modellistica. Per fare scienze,  occorre  osservare  i  fenomeni  cercando  delle  relazioni matematiche  tra  le  diverse osservazioni senza introdurre ipotesi; le stesse osservazioni, comunque, non hanno mai una validità assoluta. (711) Scriveva Helmt:  (712)

Per la fisica teorica generale non vi sono né atomi né energia, né nulla di simile, ma solo esperienze tratte immediatamente da gruppi di osservazioni. Perciò penso che il maggior pregio dell’energetica consista nella sua facoltà di adattarsi in modo immediato alle esperienze, molto più di quanto non potessero farlo le vecchie teorie.”  

        Dopo questi brevi cenni agli iniziatori, arriviamo al più noto rappresentante dell’energetica, il chimico-fisico tedesco W. Ostwald (1853-1932).  (713) Egli avanza delle idee addirittura più radicali di quelle di Helm: non solo l’energia è la base di tutti i fenomeni naturali, ma essa. è addirittura una sorta di nuova sostanza. (714)  In una sua opera, L’energia (1908), che ebbe una notevolissima influenza sugli scienziati del tempo, egli formula così le sue concezioni;

Si intende per energetica lo sviluppo dell’idea secondo la quale tutti i fenomeni della natura debbono essere concepiti e rappresentati come delle operazioni effettuate sulle diverse energie. La possibilità di una simile descrizione della natura, non poté essere immaginata che quando fu scoperta la proprietà generale che possiedono le diverse forme di energia di potersi trasformare le une nelle altre. Robert Mayer fu dunque il primo che poté prendere in considerazione questa possibilità.

Fino a lui tutti gli scienziati aderivano alla concezione meccanicista, cioè all’idea che i fenomeni naturali sono tutti, in ultima analisi, di natura meccanica, il che vuol dire che possono essere ricondotti a dei movimenti della materia. Là dove non si poteva dimostrare l’esistenza di questi movimenti, come nel caso del calore e dell’elettricità,  si ammetteva che essi si producessero negli atomi, cioè in particelle così piccole da sfuggire all’osservazione diretta …

L’ipotesi meccanicista ha due inconvenienti molto grandi; in primo luogo essa obbliga ad adottare un gran numero d’altre ipotesi indimostrabili, quindi essa è impotente a farci comprendere il legame che esiste incontestabilmente, dal momento che lo constatiamo giornalmente, tra i fenomeni fisici nel senso stretto del termine ed i fenomeni psicologici

Ora, sono le teorie meccaniche tali da poter essere applicate in un modo sufficientemente generale ? Ebbene no, non c’è dubbio che esse non lo sono. Bisogna in primo luogo far notare che tra i fenomeni a noi conosciuti non ce ne sono che pochi (la maggioranza dei fenomeni astronomici) che soddisfano alle leggi meccaniche … Noi spieghiamo questo fatto mediante l’attrito. Il problema che allora si pone è di far rientrare i fenomeni d’attrito nelle leggi meccaniche …

Un’altra strada fu seguita da R. Mayer. Essa consisteva nel considerare i fenomeni meccanici come semplici casi particolari delle generali trasformazioni dell’energia, che sottostanno tutte alla legge di conservazione.”

Se non si sceglie questa strada, com’è possibile, secondo Ostwald, dar conto dell’elettricità statica ? Dove stanno qui i movimenti ?

Questo problema è nato unicamente dall’ipotesi arbitraria che si abbia a che fare con un fenomeno meccanico, quando esso non lo è affatto. Esso è, con tutta la forza del termine, uno pseudoproblema, per usare un’espressione molto corretta di E. Mach …

Di fronte alla concezione meccanicista si erge quella di Mayer, che noi chiamiamo la concezione energetica poiché essa si fonda essenzialmente sulla nozione di energia … Non è possibile caratterizzare in modo migliore il metodo dell’energetica; essa estrae dai fenomeni le proprietà delle differenti specie di energia, e generalizza queste proprietà per mezzo dell’induzione …

Così si deve considerare Robert Mayer come il primo degli energetisti. Ai suoi occhi, l’energia è un oggetto reale, ed egli la colloca come tale, a lato della materia, dalla quale, per lui, si distingue per la sua imponderabilità …

Un tratto che contribuisce a fare di Mayer un vero energetista, un energetista con spirito moderno, è la sua avversione per le ipotesi.”

Con queste parole Ostwald traccia il nucleo centrale dell’energetica. Ma, come abbiamo visto per Mach, la polemica contro il meccanicismo non si ferma qui: essa tende a diventare dura polemica contro tutto il materialismo.  (716 bis)

        Nel 1895, al congresso dei medici e naturalisti che si tenne a Lubecca, Ostwald lesse una comunicazione dal titolo, molto significativo, Il superamento del materialismo scientifico. Tra le altre cose Ostwald disse:

La materia è un’invenzione, del resto abbastanza imperfetta, a cui facciamo ricorso per rappresentarci quanto vi è di permanente in tutto ciò che accade. La realtà effettiva, quella che opera su di noi, è l’energia, [inoltre] l’irreversibilità di fatto dei fenomeni effettivi della natura dimostra che vi sono processi i quali non sono descrivibili mediante equazioni meccaniche, e con ciò il verdetto sul materialismo scientifico è deciso.”

Ed Helm,  presente a quel congresso,  nello scrivere la sua cronaca (l898),  coglie bene i livelli e l’intensità dello scontro, che non erano banalmente legati a questa o a quella teoria, ma ad un modo nuovo o almeno diverso di fare scienza e, più in generale, ad una diversa concezione del mondo. Scrive Helm:  (719)

Nella polemica che si accese a Lubecca non si trattava di atomismo o di spazio occupato da materia continua, non della irreversibilità nella termodinamica, o dei fondamenti energetici della meccanica. Queste sono tutte bazzecole. Si trattava in realtà dei principi della nostra conoscenza della natura.”

Anche A. Sommerfeld (l868-195l) era presente a quel congresso e così descriveva (1944) la situazione: (720)

Il campione dell’energetica era Helm, dietro di lui stava  Ostwald e dietro entrambi la filosofia di Ernst Mach (che non era presente di persona). A loro si opponeva Boltzmann, assecondato da Felix Klein. (721) La battaglia tra Ostwaid e Boltzmann fu molto simile ad un duello tra un toro ed un agile torero. Tuttavia, questa volta il toro sconfisse il torero nonostante la sua agilità.

Gli argomenti di Boltzmann non trovarono resistenza. Noi giovani matematici eravamo tutti dalla parte di Boltzmann; fu subito ovvio per noi che era impossibile che da una sola equazione per  l’energia potessero seguire le equazioni del moto anche di un solo punto materiale.

        Spero si intuisca da quanto qui brevemente riportato a che livello e con che asprezza ci si scontrava.

        La tesi di Ostwald e di tutta la corrente fenomenista, che vedeva Boltzmann praticamente solo a tentare una qualche opposizione, era sostanzialmente la seguente.

        Molti fenomeni fisici e, si noti l’accostamento, psicologici, non sono spiegabili con la meccanica. In particolare, e qui si ritorna ad una obiezione che Loschmidt fece a Boltzmann,  (722)  “l’irreversibilità termodinamica non può essere spiegata dalla meccanica che ha delle equazioni che risultano completamente reversibili. Inoltre il complesso dei fenomeni elettromagnetici non è riconducibile ad una interpretazione meccanicista. Ed in definitiva, secondo Ostwald, tutta l’enorme varietà dei nuovi fenomeni sfuggono ad una interpretazione meccanica a meno di supporre strane entità, come gli atomi, delle quali non si ha nessun indizio sperimentale o a delle ipotesi   (723)  che sfuggono a qualunque verifica sperimentale. Il rifiuto della meccanica e dei suoi metodi comporta il rifiuto dei fondamenti della meccanica ed in particolare di quella entità, la materia, che non è altro che una particolare energia che noi percepiamo come materia con i nostri sensi. Tutto ciò che ci circonda non è altro che energia. Noi abbiamo a che fare con differenti forme di energia che si trasformano l’una nell’altra facendo salvi i principi di conservazione e di degradazione (l° e 2° principio della termodinamica). L’energia è alla base di tutto, anche dei fenomeni psicologici. In particolare:   (724)

Ciò che udiamo trae origine dall’azione esercitata sul timpano dalle vibrazioni dell’aria. Ciò che vediamo è soltanto energia raggiante che esercita sulla retina un’attività chimica, la quale viene percepita come luce … Da questo punto di vista la totalità della natura ci si presenta come una serie di energie continuamente mutevoli nel tempo e nello spazio, delle quali abbiamo conoscenza nella misura in cui percuotono il nostro corpo, e specialmente gli organi di senso dotati di una forma adatta a ricevere le energie appropriate.

Ma, con ancora maggiore chiarezza, l’energetica è la panacea che fa comprendere all’uomo tutto ciò che durante secoli si è affannato a cercare di conoscere:  (725)

Il materialismo è incapace di rispondere alla questione di sapere come il corpo può arrivare a produrre lo spirito, che differisce totalmente da esso, e lo spiritualismo è impotente a confutare l’obiezione che il mondo, per il solo fatto che non si conforma alla nostra volontà, ma continua, molto spesso a nostre spese, per la sua strada, non dovrebbe essere una creazione del nostro spirito.

L’energetica permette, a mio avviso, di uscire da tutte queste difficoltà in una sola volta ed in un modo del tutto naturale, grazie al fatto che essa ha distrutto l’idea di materia … Non bisogna più preoccuparsi di come lo spirito e la materia possano agire l’una sull’altra; la questione che bisogna risolvere è quella di sapere in quale relazione la nozione di energia, che è molto più ampia di quella di materia, si incontri con la nozione di spirito.

In definitiva, mediante l’introduzione dell’energia nervosa e di quella psichica, Ostwald riconduce la psicologia all’energetica. Così “la coscienza ha delle basi energetiche” ed anche la sociologia, intesa come rapporto tra individui, può essere ricondotta all’energetica.  (726)

        Su queste basi Ostwald metteva in discussione le ipotesi non verificabili dei meccanicisti. Una metafisica dell’energia! E quel che più conta è il grande seguito che queste idee avevano. (727)

          Ma ancora più rilevante è l’estrapolazione che veniva fatta e che rispondeva a questa successione: fallimento del meccanicismo; la materia non esiste;  (728)  superamento del materialismo nell’interpretazione del mondo.

         Ed in questo vi fu una netta e chiara convergenza delle due correnti del fenomenismo: l’empiriocriticismo e  l’energetica. L’empiriocriticismo forniva all’energetica la critica puntuale, attenta e precisa della meccanica; l’energetica forniva all’empiriocriticismo l’unificazione della scienza sulla base della termodinamica. Ambedue si incontravano sull’antimaterialismo.

         C’è un ultimo aspetto delle concezioni di Ostwald al quale bisogna accennare poiché riguarda uno degli argomenti al quale abbiamo dedicato varie pagine: il ruolo dell’etere nella visione fenomenista. In un suo scritto del 1903, Energia e chimica, così si esprimeva Ostwald: (729)

Io non credo che l’ipotesi di questo mezzo, l’etere, sia inevitabile … Non c’è necessità di cercare un portatore quando l’incontriamo dappertutto. Questo ci pendette di considerare l’energia raggiante come qualcosa che esiste indipendentemente nello spazio.

 Ma qui ci troviamo nel pieno di ipotesi in libertà, formulando le quali nulla è dato per la loro verifica sperimentale e, quantomeno, non si capisce bene perché vengano formulate se non per servire da completamento della tesi di  fondo. Questa negazione dell’etere ha, se possibile, un valore ancora minore della sua affermazione. Così come quando Ostwald prende a prestito l’affermazione di Hertz (ben altrimenti motivata !) sul fatto che “la teoria di Maxvell è il sistema delle equazioni di Maxwell“: in questo non c’è altro che la volontà di screditare l’elaborazione maxwelliana che, come abbiamo visto, almeno in una prima fase, era strettamente legata agli strumenti ed ai metodi del meccanicismo (le analogie, i modelli,  … ). Del resto abbiamo già accennato al giudizio che un altro fenomenista, il fisico francese M.P. Duhem (1861-1916), dava dei lavori di Maxwell. Ed anche Duhem afferma che “ciò che c’è d’essenziale nelle teorie di Maxwell sono le equazioni di Maxwell.” (730)

        Ma, poiché sono inaccettabili i metodi che hanno portato Maxwell a ricavare le sue equazioni, sarà almeno possibile, si domanda Duhem, mantenerle come punto di partenza per ricavare nuove teorie ?

        Ciò sarebbe lecito ad un matematico ma non ad un fisico poiché il fisico non può prescindere dall’ “insieme delle ipotesi e dei ragionamenti con i quali è giunto alle equazioni in questione.” Si nega quindi, oltreché i

risultati sperimentali, quanto sostenuto da Hertz. Non è vero che due teorie sono equivalenti, se conducono agli stessi risultati; occorre tener conto anche dei ragionamenti, delle ipotesi e dei metodi che hanno condotto a quei risultati. Così Duhem può continuare:

Non si possono dunque adottare le equazioni di Maxwell se non si ricavano da una teoria dei fenomeni elettrici e magnetici; e poiché queste equazioni non s’accordano con la teoria classica, che discende dai lavori di Poisson, sarà necessario respingere questa teoria classica, di rompere con la dottrina tradizionale e di creare con delle nozioni nuove, su delle ipotesi nuove, una teoria nuova dell’elettricità e magnetismo.”

C’è qualcuno che abbia tentato questa strada ? Certamente, si risponde Duhem, e questi è Boltzmann il quale è riuscito a ricavare le equazioni di Maxwell “in un modo logico“.  (731)

Ma Duhem ha ancora dei dubbi, soprattutto perché:

Se per ricavare le equazioni di Maxwell in un modo logico, seguiamo i metodi proposti dal Sig. Boltzmann, ci vediamo costretti a dover abbandonare in parte l’opera di Poisson e dei suoi successori … una delle parti, cioè, più precise e più utili della fisica matematica. D’altra parte, per salvare queste teorie, dobbiamo rinunciare a tutte le conseguenze della teoria di Maxwell e, in particolare, alla più seducente di queste conseguenze, alla teoria elettromagnetica, della luce ?

Anche Poincaré, del resto, ha notato l’impossibilità di rinunciare alla teoria elettromagnetica della luce. Come risolvere il problema ? Come venir fuori dal dilemma ? Ebbene, secondo Duhem, c’è un’altra teoria che ci permette di superare ogni difficoltà: si tratta della teoria di Helmholtz, esposta nel suo lavoro del 1870, Sulle equazioni del movimento dell’elettricità per corpi conduttori in moto (che già abbiamo discusso nel paragrafo 3 di questo capitolo). Questa teoria, sempre secondo Duhem, permette di conciliare logicamente l’antica elettrostatica, il vecchio magnetismo e la nuova teoria della propagazione delle azioni elettriche in mezzi dielettrici. Questa teoria 

è un ampliamento naturale dei lavori di Poisson, d’Ampère, di Weber e di Neumann … ; senza perdere nessuna delle recenti conquiste della scienza elettrica, essa ristabilisce la continuità della tradizione.

Insomma, per Duhem, occorre ripristinare la tradizione. Per far questo occorre ritornare ad Helmholtz che, se da una parte è quello che ha dato il via alla energetica con il suo lavoro del 1847, Sulla conservazione della forza, dall’altra è certamente un atomista che vede appunto la corrente elettrica come flusso di corpuscoli. Il fenomenista Duhem ammette quindi le particelle che la sua corrente di pensiero respinge in modo deciso ? Certamente che no, anche se

la logica, da Duhem più volte reclamata, ne soffre un poco. Nel suo Introduzione alla Meccanica Chimica (l893), Duhem sostiene:  (732)

“Perché cercare di sostituire delle costruzioni  meccaniche ai corpi ed alle loro modificazioni, invece di considerarli per come i sensi ce li offrono, o piuttosto per come la nostra capacità di astrazione, lavorando sui dati sensibili, ce li fa concepire ? … Perché immaginarsi i cambiamenti di stato come degli spostamenti, delle giustapposizioni di molecole, dei cambiamenti di traiettoria, invece di caratterizzare un cambiamento di stato per il turbamento che provoca rispetto alle proprietà sensibili e misurabili di un corpo … ? …

Queste riflessioni conducono a rovesciare il metodo finora seguito in fisica; … la teoria migliore sarà quella  che non farà entrare nei suoi ragionamenti altre nozioni che non quelle che hanno un senso fisico, che siano direttamente misurabili … ; quella che non prenderà come principi che delle leggi di origine sperimentale … ; quella che si proporrà come fine non di spiegare i fenomeni ma di classificarli”

e tutto questo, osservo io, con buona pace di Galileo e di tutti coloro che si sono battuti contro l’aristotelismo. (733)

          Ma c’è di più. Occorre far risaltare quanto già annunciato: la coerenza logica di Duhem. Da una parte si ammettono le non sperimentabili particelle di Helmholtz, per rendere conto di ciò che della teoria di Maxwell interessa a Duhem, al fine di affermare la tradizione e la sua continuità nella fisica. Dall’altra si afferma la necessità di rovesciare il metodo finora seguito in fisica  rinunciando a tutto ciò che come gli atomi non è né misurabile né sperimentabile.

         Anche Duhem poi sente l’esigenza di trovare una scienza che si ponga come unificatrice rispetto alla fisica. E questa scienza è naturalmente la termodinamica, che ci permette di descrivere logicamente il mondo che ci circonda su una base perfettamente sperimentabile. In questo senso dunque Duhem si pone come uno tra i più convinti sostenitori dell’energetica anche se, per il vero, non raggiunge gli eccessi metafisici e fanatici di Ostwald (situandosi più vicino a Mach che non allo stesso Ostwald). Anche Duhem avrà quindi una grossa parte nella polemica antimeccanicista, sull’altro fronte della quale si batteva, come già ricordato, il fisico austriaco L. Boltzmann.

        Questi, subito dopo il congresso di Lubecca, introdusse alcuni brani significativi nel suo Lezioni sulla teoria dei gas  (Lipsia, 1896-1898). Scriveva Boitzmann:  (734)

Sono convinto che questi attacchi sono basati puramente su un malinteso e che il ruolo della teoria dei gas nella scienza non sia ancora esaurito … Secondo me sarebbe una grande tragedia per la scienza se la teoria dei gas fosse temporaneamente dimenticata a causa di un momentaneo atteggiamento ostile verso di essa.”

Del resto Boltzmann aveva sempre inteso che gli atomi non fossero altro che un’ipotesi, aggiungendo la considerazione (l886) che “forse, un giorno, l’ipotesi atomica sarà sostituita da qualche altra ipotesi: ma non è molto probabile che ciò accada.”  (735)  Ed inoltre egli era convinto che:

noi ricaviamo l’esistenza delle cose unicamente dalle impressioni che esse incidono sui nostri sensi.”  (736) 

Conseguentemente, per fare scienza:

la via più diretta dovrebbe essere quella di partire dalle nostre sensazioni immediate per dimostrare come, per mezzo di esse, abbiamo ottenuto conoscenza dell’universo. Tuttavia, poiché questa via non sembra condurci  al nostro scopo, dobbiamo seguire la via opposta, che è quella della scienza naturale.” (737)

Quindi Boltzmann contrappone il dato immediato dei nostri sensi al dato mediato della scienza naturale e ciò a causa del fatto che non s’intravede ancora il modo di fare scienza con il solo dato sensoriale immediato. Inoltre, per far scienza occorre una metodologia che sfrutti tutto quanto sia utile all’elaborazione teorica (analogie, modelli,  …  ), fatta salva la verifica sperimentale. Molto lucidamente scriveva Boltzmann:  (738)

II compito principale della scienza è precisamente quello di costruire delle immagini che servano a rappresentare un insieme di fatti in modo tale che si possa predire da questi l’andamento di altri fatti simili. Naturalmente si intende che la previsione deve essere sempre verificata sperimentalmente. Probabilmente essa sarà verificata solo in parte. Vi è allora una speranza che si possano modificare e perfezionare le immagini in modo tale che esse rendano conto anche dei nuovi fatti.”

In questo contesto una teoria meccanica ( e non una spiegazione meccanica) ha senso solo se è in grado di fornirci  “le leggi più semplici possibili” mentre la, fenomenologia non è altro che una pura illusione. Aggiungeva Boltzmann:  (739)  

La fenomenologia ha creduto di poter rappresentare la natura senza, in alcun modo, andare al di la dell’esperienza, ma io penso che questa sia un’illusione. Nessuna equazione rappresenta con accuratezza assoluta un qualsiasi processo, ma lo idealizza sempre  sottolineando certi aspetti comuni a più processi e trascurando ciò che è differente, andando in tal modo al di là dell’esperienza. E che ciò sia necessario, se vogliamo avere una qualche idea la quale ci permetta di predire un qualcosa nel futuro, discende dalla natura dello stesso processo intellettuale, che consiste appunto nell’aggiungere un qualcosa all’esperienza e nel creare una rappresentazione mentale che non è esperienza e che può pertanto rappresentare molte esperienze.”   (740)

La posizione di Boltzmann è dunque in netta opposizione alla fenomenologia del suo tempo: occorre trascendere l’esperienza per poter avere una visione più generale del mondo che ci circondar e più andiamo al di là dell’esperienza e “più sono sorprendenti i fatti che riusciamo a scoprire.” Ma, avverte Boltzmann,  l’andare al di là dell’esperienza in modo troppo audace può indurci in qualche errore. “La fenomenologia pertanto non dovrebbe vantarsi di non andare al di là dell’esperienza, ma dovrebbe invece, semplicemente,  dice Boltzmann, ammonire a non compiere eccessi in tal senso.” Ed in definitiva, ribadisce il nostro,  (741)

i migliori risultati si otterranno, senza dubbio, se potremo sempre fare uso di ogni immagine che sia necessaria, senza trascurare di mettere le immagini alla prova  ad ogni passo, nei confronti di nuove esperienze.

Inoltre in questo modo non si sopravvaluteranno i fatti, essendo accecati dall’immagine, come spesso si argomenta contro gli atomisti. Ogni teoria, di qualunque tipo essa sia, porta ad una simile forma di cecità qualora sia seguita in modo troppo unilaterale.”

Certamente Boltzmann era sostenuto, nel portare avanti le sue tesi, proprio dall’esperienza, da quanto cioè si andava realizzando, con la forza dell’ipotesi, in quegli anni (si pensi a Maxwell, a Lorentz, … ); altrettanto certamente egli era convinto della necessità di non produrre rotture radicali con il passato: l’unità concettuale della fisica andava mantenuta e questo non era certamente garantito dal fenomenismo e tanto meno dall’energetica. E’ una posizione di grande onestà intellettuale quella di Boltzmana che si batte, tra l’altro, per dare un senso alla ricerca scientifica. Nella conferenza di St. Louis del 1904, della quale abbiamo già parlato, Boltzmann sostenne una posizione metodologica che, sfortunatamente ed efficientemente, la ricerca fisica del nostro secolo non farà sua:  (742)

Gli scienziati sono ora propensi a mostrare una spiccata predilezione per discutere tesi filosofiche, ed hanno tutte le ragioni per farlo. Una delle prime regole per la ricerca sulla natura è infatti quella secondo la quale non bisogna mai prestare una fiducia cieca nella verità con gli strumenti con i quali si lavora, ma bisogna invece analizzarli in tutte le direzioni … Se un progresso reale è  possibile,  lo si può  attendere  solamente da una collaborazione tra scienza e filosofia.”  (743)

E su questa illusione, che si dovrà scontrare con i bisogni di efficienza che vengono indotti nella fisica dalle necessità produttive si chiuderà, col suicidio, la vita di Boltzmann (1906).

          Proprio nell’anno della morte di Boltzmann, Duhem, nel suo lavoro La teoria fisica (1906), sosteneva: (744)

Queste due domande:                                                                      

  Esiste una realtà materiale distinta dalle apparenze sensibili ?

   Di quale natura è questa realtà ?                                                      

non entrano affatto nel campo del metodo sperimentale; quest’ultimo non conosce altro che delle apparenze sensibili e non sa scoprire ciò che le supera. La soluzione di tali domande è trascendente rispetto ai metodi di osservazione di cui fa uso la Fisica, ed è oggetto della Metafisica.                          

Pertanto, se le teorie fisiche hanno come oggetto la spiegazione delle leggi sperimentali, la Fisica teorica non è una scienza autonoma: essa è subordinata alla Metafisica.”                                                               

         In questo duro scontro tra posizioni radicalmente diverse, si inserisce la posizione epistemologica di H. Poincaré, che ridiscusse i fondamenti di tutti i capitoli più rilevanti della fisica, a partire naturalmente dalla meccanica. Ne La scienza e l’ipotesi  Poincaré inizia con l’osservazione che occorre ben distinguere, nella meccanica,  “ciò che è esperienza e ciò che è ragionamento matematico, ciò che è convenzione e ciò che è ipotesi“. Quindi, dopo aver sottolineato che: (745)

non vi è spazio assoluto e noi concepiamo solo moti relativi … ; non vi è tempo assoluto … [e due durate sono uguali solo] per convenzione; … non abbiamo [l’intuizione diretta] della simultaneità di due avvenimenti producentisi in due teatri diversi; … la nostra geometria euclidea non è che una specie di convenzione di linguaggio [e quindi] possiamo enunciare i fatti meccanici, riferendoli ad uno spazio non euclideo“,

 con la conseguenza che i concetti suddetti  “non sono condizioni che s’impongono alla meccanica“, Poincaré passa a discutere i principi della meccanica.

         Riguardo al primo principio, quello d’inerzia, esso “non s’impone a noi a priori” inoltre è impossibile verificarlo sperimentalmente poiché è impossibile, in tutto l’Universo, disporre di “corpi sottratti all’azione di ogni forza“. Poincaré propone quindi di sostituire il principio d’inerzia con una legge d’inerzia generalizzata avente il seguente enunciato: (746)

l’accelerazione di un corpo dipende dalla posizione del corpo stesso, dai corpi vicini e dalla loro velocità.

 Questa nuova legge è certamente quella con cui si è avuto a che fare in tutti i casi in cui si è dovuto fare una misura e quindi essa è stata verificata sperimentalmente in alcuni casi particolari. Inoltre essa

può essere estesa senza timore ai casi più generali, poiché sappiamo che in tali casi generali l’esperienza non può più né confermarla, né contraddirla.”  (747)

        Riguardo poi al secondo principio, Poincaré dice che così come esso è definito, basato cioè sul concetto di forza come causa di accelerazioni di date masse, è privo di significato perché non sappiamo né cos’è la massa né cos’è la forza. Quindi, “quando si dice che la forza è la causa di un movimento si fa della metafisica.”  (748) Perché la definizione di forza abbia senso occorre potere e sapere misurare quest’ultima, e per far ciò non c’è altro modo che passare al confronto diretto di due forze che ci permetta, ad esempio, di stabilire quando esse sono uguali. Per realizzare questo proposito, secondo Poincaré, disponiamo di tre regole: l’uguaglianza di due forze che si fanno equilibrio; l’uguaglianza dell’azione e della reazione (terzo principio); l’ammissione che certe forze, come il peso, sono costanti nella grandezza e nella direzione. Il fatto poi che il principio di azione e reazione debba intervenire nella definizione dell’uguaglianza di due forze fa si che

tale principio non deve essere più considerato come una legge sperimentale ma come una definizione.” (749)

Poste così le cose, si può affermare, con Kirchhoff, che la forza è uguale alla massa per l’accelerazione ma, “la legge diNewton cessa a sua volta di essere considerata una legge sperimentale; è una semplice definizione“.

         Ed anche come definizione è ancora insufficiente  “perché non sappiamo cos’è la massa“. Per completarla occorre di nuovo far ricorso alla definizione di azione e reazione:

Due corpi A e B agiscono l’uno sull’altro; l’accelerazione di A moltiplicata per la massa di A è uguale all’azione di B su A; nello stesso modo, il prodotto dell’accelerazione di B per la sua massa è uguale alla reazione di A su B. Poiché, per definizione, l’azione è uguale alla reazione, le masse di A e di B sono in ragione inversa delle accelerazioni di questi due corpi. Ecco definito il rapporto delle due masse: spetta all’esperienza verificare che esso è costante.”  (750)

Ma anche qui si tratta solo di un’approssimazione, poiché bisognerebbe tener conto delle attrazioni che tutti i corpi dell’universo esercitano su A e su B. E l’approssimazione è lecita solo se noi ammettiamo l’ipotesi delle forze centrali.

Ma abbiamo il diritto di ammettere l’ipotesi di forze centrali ?

Se dovessimo abbandonare questa ipotesi ci troveremmo di fronte al crollo dell’intera meccanica; non sapremmo più come misurare le masse ed il principio di azione e reazione dovrebbe essere enunciato così:

Il movimento del centro di gravità di un sistema sottratto ad ogni azione esteriore sarà rettilineo ed uniformeMa [poiché] non esiste sistema che sia sottratto ad ogni azione esteriore, la legge del movimento del centro di gravità non è rigorosamente vera, se non applicandola all’universo tutto intero.” (751)

Ma in che modo potremmo noi misurare le masse seguendo i movimenti del centro di gravità dell’universo ? La cosa è manifestamente assurda ed allora siamo costretti a riconoscere la nostra impotenza ricorrendo alla seguente definizione: 

le masse sono dei coefficienti che è comodo introdurre  nei calcoli.” (752)

Insomma, l’esperienza è certamente potuta servire di base ai principi della meccanica ma, poiché questi principi non sono altro che approssimazioni (e già lo sappiamo), esperienze più precise non potranno aggiungere mai niente a quanto sappiamo e quindi l’esperienza non potrà mai contraddire questi principi.

        Più oltre Poincaré definisce quello che da lui è chiamato il “principio del movimento relativo“:

Il movimento di un sistema qualunque deve ubbidire alle stesse leggi, che si riferiscono a degli assi fissi, o a degli assi mobili trascinati da un movimento rettilineo ed uniforme.” (753)

Ed  osserva che?

Così enunciato il principio del movimento relativo rassomiglia singolarmente a ciò che ho chiamato il principio dell’inerzia generalizzato; ma non è la stessa cosa, poiché, qui si tratta delle differenze di coordinate, e non delle coordinata stesse. Il nuovo principio c’insegna dunque qualcosa di più.”  (754)

Ma poiché, per questo principio si può fare la stessa discussione fatta per il principio d’inerzia generalizzato, ne consegue che anche esso non può essere né dato a priori, né ricavato come risultato immediato dell’esperienza.

           E veniamo ora a quanto Poincaré dice a proposito di energia e termodinamica e di come quindi egli si rapporta all’energetica. Dice Poincaré: (755)

La teoria energetica presenta sulla teoria classica i vantaggi seguenti:

     1°) Essa è meno incompleta; cioè, i principi della conservacene dell’energia e di Hamiton  (756) ci insegnano più dei principi fondamentali della teoria classica ed escludono certi movimenti non realizzati dalla natura e compatibili con la teoria classica. 2°)Essa ci dispensa dall’ipotesi degli atomi, quasi impossibile da evitare con la teoria classica. Ma solleva a sua volta nuove difficoltà: le definizioni di due specie di energia sono appena più facili di quelle della forza e della massa nel primo sistema.”

Inoltre, poiché nella conservazione dell’energia occorre tener conto di tutte le varie forme di energia bisognerà considerare anche l’energia interna molecolare (Q), sotto forma termica, chimica o elettrica. Così, se indichiamo con T l’energia cinetica e con U quella potenziale, possiamo scrivere il principio di conservazione dell’energia nella forma seguente:

         T + U + Q  =  costante.

Tutto andrebbe bene se i tre termini fossero assolutamente distinti, se T fosse proporzionale al quadrato della velocità, U indipendente da queste ultime e dallo stato dei corpi, Q indipendente dalle velocità e dalle posizioni dei corpi e dipendente soltanto dal loro stato interno … Ma non è così. Consideriamo dei corpi elettrizzati; l’energia elettrostatica dovuta alla loro mutua azione, dipenderà evidentemente dalla loro carica, cioè dal loro stato; ma essa dipenderà anche dalla loro posizione. Se questi corpi sono in movimento, agiranno l’uno sull’altro elettrodinamicamente e l’energia elettrodinamica dipenderà non soltanto dal loro stato e dalla loro posizione, ma anche dalle loro velocità. Non abbiamo più dunque alcun mezzo per fare la cernita dei termini che devono far parte di T, di U e di Q, e di separare le tre parti dell’energia.”  (757)

L’unica cosa che possiamo dire è allora che vi è una certa funzione

                     f (T + U + Q)

che  rimane costante e nessuno ci autorizza a ritenere che questa particolare funzione, che si chiamerebbe energia, è nella forma

                     T + V + Q  =  costante.

In definitiva la corretta enunciazione del principio di conservazione dell’energia è: vi è qualcosa che rimane costante.

Sotto questa forma, esso si trova a sua volta fuori degli attacchi dell’esperienza e si riduce ad una specie di tautologia. E’ chiaro che se il mondo è governato da leggi, vi saranno delle quantità che rimarranno costanti. Come accade per il principio di Newton e per una ragione analoga, il principio della conservazione dell’energia, fondato sull’esperienza, non potrà più essere infirmato da essa. Questa discussione mostra che, passando dal sistema classico al sistema energetico, si è realizzato un progresso; ma essa mostra altresì che questo progresso è insufficiente.” (758)

Riguardo poi al principio di minima azione vi è una obiezione ancora più grave. Quando si pensa che, a seguito di questo principio, una molecola per spostarsi da un punto ad un altro seguirà la linea più breve, sembra quasi che questa molecola, “come un essere animato e libero“, dopo essersi fatta tutti i suoi conti sui possibili cammini, scelga quello più breve. Ciò ripugna letteralmente  Poincaré (quasi che il principio di minima azione fosse dato a priori e non a posteriori!).

          In ultima analisi, i principi della meccanica, da una parte sono verità fondate su una esperienza grossolana, dall’altra sono postulati applicabili all’intero universo da considerarsi come veri. Ebbene, se possiamo considerare i principi della meccanica come postulati è per una semplice convenzione, la quale non è arbitraria ma, come alcune esperienze ci hanno mostrato, comoda.

          Occorre quindi rifarsi a questi principi generali, che sono cinque o sei,  (759)  poiché la loro

applicazione … ai differenti fenomeni fisici basta per insegnarci ciò che ragionevolmente possiamo aspettarci di conoscere di una cosa … Questi principi sono il risultato di esperienze sommamente generalizzate, e dalla loro stessa generalità sembrano acquistare un grado elevato di certezza. In effetti, quanto più generali sono, tanto più frequentemente si ha l’occasione di metterli alla prova, e moltiplicandosi le verifiche, assumendo le forme più diverse e più insperate, finiscono per non lasciar posto a dubbi.”   (760)

Ma, allo stato presente, questi principi mostrano alcune crepe che occorre chiudere al più presto in qualche modo. Una miriade di fatti sperimentali sembra non accordarsi con essi. Consideriamoli uno ad uno e vediamo dove essi sembrano cadere in difetto.

2° principio della termodinamica

Osservazioni recenti, più accurate, del moto browniano (761) e la spiegazione datane dal matematico tedesco C. Wiener (1826-1896) nel 1863 e dal chimico britannico W. Ramsay (1852-1916) nel 1876 mostravano che in un mezzo in equilibrio termico (una soluzione colloidale) del calore viene trasformato spontaneamente in lavoro (delle particelle in sospensione nella, soluzione si muovono rapidamente da una parte e dall’altra, con maggiore velocità quanto più sono piccole).  (762)  Questo fenomeno sembra negare la validità del 2° principio.

– Principio di relatività

L’esperienza di Michelson-Morley sembra metterlo in discussione. Lorentz è stato costretto ad accumulare ipotesi per cercare di sistemare le cose: tempo locale, contrazione delle lunghezze, …

– Principio di azione e reazione

In difficoltà per quanto già discusso ed in particolare perché, nell’ipotesi di Lorentz, nell’emissione di radiazione da parte di cariche elettriche accelerate esso non sembra rispettato.

– Principio di conservazione della massa

Recenti studi di Abraham, confermati da esperienze di Kaufmann, hanno mostrato la natura puramente elettrodinamica della massa. Ebbene, questa massa deve allora aumentare con la velocità: la massa non si conserverebbe più. Ma anche supponendo una massa meccanica essa, come Lorentz ha mostrato, sarebbe soggetta a contrazioni.

– Principio d’inerzia

Se non ha più validità il principio di conservazione della massa, anche il principio d’inerzia cessa d’essere valido. Infatti, in questo caso, qual è il centro di gravità che continua a muoversi di moto rettilineo uniforme ? A parte si può osservare che nel caso la massa non si conservi, che ne è della legge di gravitazione universale di Newton ?

– 1° principio della termodinamica

Da quando P. Curie  (1869-1906)  e M. Curie  (1867-1934) hanno posto del radio in un calorimetro ed hanno osservato che la quantità di calore, prodotta incessantemente, era notevole, il principio di conservazione dell’energia sembra in grave difetto.

– Principio di minima azione

E’ l’unico che sembra rimanere intatto (anche se così come è formulato ripugna Poincaré).

               Dopo questa rassegna abbastanza scoraggiante – e dalla quale si può subito capire che Poincaré aveva colto tutti gli elementi alla base dei radicali cambiamenti che presto avrebbero interessato la fisica – Poincaré formula un accorato appello:

E’ necessario che non si abbandonino i principi prima di aver fatto uno sforzo leale per salvarli.”

Ed aggiunge:     (764)  

E’ inutile accumulare ipotesi, poiché non si possono soddisfare in una volta. tutti i principi.  Pino ad ora non si è  riusciti  a salvaguardarne  alcuni senza sacrificarne degli altri, ma la speranza di ottenere migliori risultati non è del tutto persa.”

Com’è possibile far ciò ? La risposta a questa domanda permette a Poincaré di scrivere la seguente proposizione di grande interesse:  (765)

Forse … dovremmo  costruire  tutta  una  nuova  meccanica che non facciamo altro che intravedere, nella quale, aumentando l’inerzia con la velocità, la velocità della luce diventerebbe un limite insuperabile. La meccanica ordinaria, più semplice, rimarrebbe come una prima approssimazione, dato che sarebbe vera per velocità non molto grandi, di modo che ancora torneremmo a trovare l’antica dinamica al di sotto della nuova.

Come risulta evidente, la critica di Poincaré è molto attenta agli sviluppi della fisica, ed il fisico-matematico francese, anche se non fa il passo definitivo, ha intuito tutti i problemi che investono il mondo della fisica.. Ben altra classe rispetto agli Ostwald o Duhem.                                     

NOTE

(710) Per quanto dirò su Rankine ed Helm mi sono rifatto a bibl. 17, Vol. 5, pagg. 224-225.

(711) Mach loderà il lavoro di Helm (si veda, ad esempio, bibl.97, pag. 492).

(712) Citato in bibl.7, Vol.5, pag.310 e tratto da Helm, L’energetica nel suo sviluppo storico (1898).         

(713) Ostwald fu premio Nobel per la chimica nel 1909.

(714) Helm osserverà che: “nei tentativi di attribuire all’energia un’esistenza sostanziale, vi è una preoccupante deviazione rispetto alla chiarezza originale delle vedute di Mayer” (ibidem),

(715) Bibl. 155, pag.119 e segg. Si tratta di una edizione francese dell’opera di  Ostwald, datata 1910. Una traduzione di alcuni brani si può trovare in bibl. 54, pagg.189-192. Si noti che la conversione di Ostwald dal meccanicismo all’energetica avviene a seguito della lettura del lavoro di Helm citato e la  prima opera di Ostwald in tennini di energetica è la 2ª edizione (1893) della sua Chimica generale (bibl.127, pag.166).                                       i

(716) Ostwald. si riferisce principalmente alle ipotesi particellari che si erano sviluppate nella chimica, ma anche (l’opera in cui scrive queste cose è del 1908) alle teorie particellari dell’elettricità.

(716 bis) Si osservi che l’identificazione tra materialismo  e  meccanicismo  è di Hegel e contro questa identificazione si batterà Engels (bibl.103, pagg. 258-263).

(717) Citato in bibl. 54, pag. 106.

(718) Citato in bibl.158, pag. 180. Altri brani di Ostwald si possono trovare in bibl.56, pagg. 308-314 ed in bibl. 159, pagg. 119-195.

(719) Citato in bibl.7, Vol.5, pagg.309-310.

(720) Citato in bibl. 54, pag. 193.

(721) F. Klein (1849-1925),  matematico, collaborò con Lie allo sviluppo della teoria dei gruppi  e dette notevolissimi contributi in quasi tutti i campi della matematica dell’epoca. Si occupò anche di didattica e di storia della matematica.  

(722) Si veda la nota 428.

(723) Ostwald afferma che bisogna passare dalle ipotesi alle prototesi, essendo queste ultime delle ipotesi verificabili sperimentalmente. Riguardo al rifiuto degli atomi, Ostwald, nel 1909, nei suoi Fondamenti di chimica generale (4ª edizione), ritornò sulle sue posizioni ammettendone l’evidenza sperimentale.

(724) Citato in bibl. 16.Vol.2, pagg. 523.

(725) Bibl.155, pagg. 199-200.

(726) Quando Ostwald sviluppa l’argomento dell’energetica sociologica, dice una sola cosa che mi sento di condividere: “Il compito generale della civilizzazione consiste nell’ottenere, per le energie da trasformare, dei coefficienti di trasformazione i più vantaggiosi possibile.”

Si noti poi l’assonanza di molte delle cose qui sostenute con quelle che più tardi saranno del fascismo e del nazismo.

(727) Bellone (bibl.l58,pag.l80) osserva:”Il fatto che la tesi di Ostwald abbia avuto numerosi seguaci è del tutto irrilevante, se è vero che in materia di scienze fisiche i problemi non si risolvono per alzata di mano. ” E’ già dubbio che quanto afferma Bellone sia vero per una storia interna se solo si pensa che certe ricerche, nell’ambito delle istituzioni scientifiche, vengono finanziate solo se ci sono sufficienti alzate di mano. E’ del tutto falsa in relazione ad una storia esterna.

(728) Bellone osserva giustamente (ibidem) che qui si usa “ lo strattaggemma per cui la categoria filosofica di materia viene fatta coincidere con la categoria di materia operante nel mondo fisico.”

(729) Citato in bibl.l27, pag.l66. Citando questo brano Holton avanza l’ipotesi che la posizione in esso espressa dovesse incontrare il favore del giovane Einstein.

(730) Per quanto diremo in proposito e per le citazioni senza indicazione bibliografica che immediatameate seguiranno, si veda l’opera di Duhem (1902) di bibl. 105, pagg. 221-225.

(731) Duhem si riferisce qui ad un lavoro di Boltzmann in due volumi: Lezioni sulla teoria di Maxwell dell’elettricità e della luce (l891-l893).

(732) Citato in bibl. 54, pagg. 186-187.

(733) Si osservi che Duhem non solo sosteneva che la teoria di Maxwell era “un tradimento della ragione“, estendendo questo giudizio anche alla meccanica statistica di Boltzmann, ma anche che la Relatività di Einstein era una pura e semplice follia che non ha nulla a che vedere né con la ragione né con il buon senso (si veda l’opera di Duhem, La teoria fisica – l906 – nella prima e seconda edizione).              

(734) Citato in bibl. 54, pag. 179. Boltzmann, dopo Lubecca, scrisse anche un arti colo dal tono vagamente ironico, Una parola della matematica all’energetica, Wiedemann’s  Annalen, 1896.   

(735) Bibl.95, pag.265. La citazione è tratta da una conferenza di Boltzmann del 1866 dal titolo: La seconda legge della termodinamica.

(736) Ibidem, pag. 263. 

(737) Ibidem, pag. 265.

(738) Citato in bibl. 54, pag. 198. Si tratta di un articolo di Boltzmann del 1897, L’indispensabilità dell’atomismo nelle scienze naturali, raccolto, insieme ad altri in: Boltzmann, Theoretical Physics and Philosophical Problems, Reidel, 1975. Come si potrà osservare si tratta della definizione e della difesa della nascente fisica teorica.

(739) Si tratta di un articolo di Boltzmann del 1899 (si veda nota precedente e bibl. 95, pagg. 270-271).  

(740) Altrove (bibl.54, pagg. 194-195; si veda la nota 738) Boltzmann aveva sostenuto il medesimo concetto con parole differenti: “ Mi sembra che di un coerente insieme di fatti non possiamo mai avere una descrizione diretta ma solo e sempre un’immagine mentale. ” Si noti che, come sempre, sono i materialisti quelli che più esaltano le capacità creative dell’intelligenza (dello spirito?).

(741) Bibl. 95, pag.271. Si noti che un’analisi lucida e penetrante  dei rapporti tra Boltzmann, la crisi del meccanicismo e la nascita della teoria dei quanti si può trovare nel saggio di Ciccotti e Donini in bibl. 79, pagg. 145-159.  

(742) Si pensi alle scelte che saranno della Scuola di Copenaghen (1926)  alla quale abbiamo accennato in nota 702. In breve si può dire che di fronte alla domanda: “Esiste una realtà indipendente dalle nostre osservazioni ?” i fisici di  quella scuola, in maggioranza, risposero: “La questione non ci interessa.” Allo scopo si può vedere bibl.57 ed anche il bel saggio di F. Selleri, Sull’ideologia nella fisica contemporanea, bibl.53, pagg.l20-150.              

(743) Bibl. 95, pagg. 280-281.

(744) Ibidem, pag.273. Si noti che più avanti Duhem sosterrà che la scienza deve far ricorso al senso comune.

(745) Bibl. 140, pagg. 93-95.

(746) Ibidem, pag. 96.

(747) Ibidem, pag. 100. Si noti che quest’ultima affermazione è sostenuta da Poincaré sulla base del fatto che, se dovessero sorgere accelerazioni impreviste, si potrà sempre supporre che esse derivano dalla presenza (posizione e velocità) di altri corpi di cui non sospettavamo l’esistenza.

(748) Ibidem, pag. 101.

(749) Ibidem, pag.102.

(750) Ibidem, pag.103. Ritorna la legge di Mach.

(751) Ibidem, pag.105.  

(752) Ibidem, pag. 106.

(753) Ibidem, pag. 113.

(754) Ibidem, pagg. 114-115. Si noti che Poincaré critica la meccanica di Kirchhoff per essere egli partito dalla definizione di forza ricavata dai concetti, supposti primitivi, di spazio, tempo e materia. Ma, ancora di più, critica la Scuola del filo per la scarsa generalità della definizione che viene data al concetto di forza. In ogni caso anche questa definizione è convenzionale come quella di Kirchhoff (convenzionali si,  ma non arbitrarie, poiché, in qualche modo, discendono dalle esperienze).

(755) Ibidem, pagg. 123-124.

(756) Il principio di Hamilton è uno dei possibili enunciati del principio di minima azione.

(757) Ibidem, pag. 126.  

(758) Ibidem, pag. 127.

(759) I principi cui fa riferimento Poincaré sono: quello di conservazione dell’energia, quello di degradazione dell’energia (o di Carnot), quello di azione e reazione (di Newton), quello di relatività», quello di conservazione della massa (di Lavoisier), quello di minima azione (di Maupertuis).

(760) Questo brano e gli altri citati nel seguito sono tratti dall’intervento di Poincaré alla conferenza di St.  Louis del 1904, interamente riportato ne Il valore della scienza (1904). Bibl. 142, pag. 111.

(761) II fenomeno fu scoperto dal botanico britannico R. Brown (l773-l858) nel 1827.

(762) La spiegazione di ciò è di origine statistica. Le particelle più grandi urtate da tutti i lati dagli atomi in moto, rimangono ferme perché c’è compensazione tra gli urti. Le particelle più piccole ricevono invece pochi urti perché si realizzi la compensazione e quindi sono incessantemente in moto.  

(763) Ibidem, pag.125. Anche Einstein si rifarà ad una fisica dei principi, ma il senso è del tutto diverso, come vedremo più oltre. Si veda bibl. 161, pagg. 212-213.

(764) Ibidem.

(765) Ibidem, pag. 130.  

 9 – TENTATIVI DI COSTRUIRE UNA NUOVA FISICA FONDATA SULL’ELETTROMAGNETISMO: WIEN ED ABRAHAM.

        Non ci resta ora che andare a discutere di un altro tentativo che, proprio al nascere del nuovo secolo, venne tentato per cercare di mettere a posto   le  cose:   fondare  una  nuova  fisica   su  basi   elettromagnetiche.

          Abbiamo già fatto cenno alla raccolta di saggi che nel 1900 si pubblicò in onore di Lorentz. Tra questi abbiamo citato quello di Poincaré che discuteva del non accordo della teoria di Lorentz con il principio di azione e reazione.

         Tra questi saggi ve ne era uno del fisico tedesco W. Wien (1864-1928) lo stesso che abbiamo incontrato quando ci siamo occupati dell’irraggiamento del corpo nero , Possibilità di una base elettromagnetica per la meccanica, nel quale, dalla ripresa di alcune idee avanzate da J.J. Thomson nel 1881 e successivamente sviluppate da Heaviside nel 1889,  (766)   si prospettava la possibilità di ricavare le equazioni fondamentali della meccanica a partire dalle equazioni del campo elettromagnetico. In questo lavoro Wien ritiene di poter generalizzare il risultato di Heaviside ricavando dalla teoria eletiromagnetica l’inerzia meccanica. Egli scrive: (767)

L’inerzia della materia, che ci dà una definizione della massa indipendentemente dalla gravità, si può dedurre senza altre ipotesi dalla nozione già frequentemente impiegata di inerzia elettromagnetica.”

L’elaborazione di questi concetti lo portò a trovare un risultato in accordo con quello di Heaviside per piccole velocità. La massa di una particella carica in moto era dunque dovuta alla sua massa a riposo, alla quale si aggiungeva una massa elettromagnetica, che nasceva a seguito del moto per un effetto di autoinduzione. Quando infatti una particella carica è in moto essa equivale ad una corrente alla quale si accompagna un campo elettromagnetico costante. Ogni variazione di velocità di questa particella comporterà una variazione di intensità del campo magnetico che la circonda ed ogni variazione di questo campo comporta il nascere di una corrente indotta (in questo caso autoindotta). (768)   Poiché le correnti indotte tendono ad opporsi alle cause che le hanno generate (legge di Lenz), si originerà una forza che tenderà ad opporsi alle accelerazioni della particella (sono quelle che provocano l’autoinduzione). Tutto va come se la particella avesse un’inerzia più grande e cioè una massa più grande che, originatasi in questo modo, è di natura elettromagnetica.  (769) Questo aumento di massa sarà tanto più grande quanto più è grande la velocità della particella poiché a velocità maggiori della particella corrispondono campi magnetici più intensi e quindi autoinduzioni più intense (nel caso in cui la particella subisca accelerazioni). Data poi l’asimmetria della variazione del campo magnetico nella direzione del moto (longitudinale) ed in quella perpendicolare (trasversale) bisognerà considerare, al momento della variazione della velocità, due masse differenti, quella longitudinale e quella trasversale.

        Naturalmente questa e le altre elaborazioni teoriche che seguirono traevano spunto dalla scoperta dell’elettrone da parte di J.J. Thomson. E, sull’onda delle esperienze di quest’ultimo, altre ne furono immediatamente pensate e realizzate. Alcune di queste ebbero una notevole influenza sugli ulteriori sviluppi della fondazione elettromagnetica della meccanica.

        In particolare, grande interesse suscitarono i lavori sperimentali del fisico tedesco W. Kaufmann. (1871-1947). Egli, con esperienze estremamente complesse e delicate (1901-1905), (770)  nel misurare il rapporto tra la carica e la massa degli elettroni emessi dal bromuro di radio (a velocità molto elevate), ebbe modo di osservare una notevole variazione della massa con la velocità; in particolare trovò che a grandi velocità  il rapporto tra la carica e la massa diminuiva e, poiché era fuori discussione la costanza della carica (la teoria degli elettroni non la contemplava), se ne doveva concludere che era la massa ad aumentare. Nel suo primo lavoro (190l) Kaufmann concluse che la massa meccanica dell’elettrone era dello stesso ordine di grandezza della massa elettromagnetica. Successivamente (1902-1903) egli affermò che l’intera massa dell’elettrone era di natura elettromagnetica.

        Dalle esperienze di Kaufmann e dai lavori di Wien presero spunto le elaborazioni teoriche del più noto tra i sostenitori del programma elettromagnetico, il fisico tedesco M. Abraham (1857-1922). Egli, in due successive memorie (1902-1903),  (771)    sostenne la sua tesi di fondo che consisteva nel considerare tutta la massa come elettromagnetica, trovando dei risultati che sembravano in perfetto accordo con le esperienze di Kaufmann. Per elaborare la sua teoria Abraham: ricorse ad alcuni risultati conseguiti da Poynting nel 1884 (teorema omonimo),  (772) che gli servirono per introdurre (1903) nella sua trattazione il concetto di quantità di moto elettromagnetica; fece uso della espressione data da Lorentz per la forza cui è soggetta una particella carica in un campo elettromagnetico (forza di Lorentz) e più in generale delle equazioni di Maxwell scritte nella forma di Lorentz; partì dall’ipotesi di esistenza di elettroni dotati di carica negativa in tutti i corpi la cui massa fosse di natura elettromagnetica.

        Una grande difficoltà nasceva però fino dall’inizio; se un elettrone è di natura puramente elettromagnetica ed è carico negativamente, come fa ad essere stabile ? Quali forze e di che natura lo tengono unito, visto che le sue diverse parti, essendo cariche dello stesso segno, tendono a respingersi e quindi a disintegrarlo ?

        Per evitare questa difficoltà, Abraham ricorse ad un’ipotesi discutibile, almeno a questo punto dell’elaborazione teorica. Egli suppose che l’elettrone fosse una sfera perfettamente rigida ed indeformabile (sia quando esso era in quiete sia quando era in moto) nel quale la carica fosse distribuita in modo uniforme (o nel volume o nella superficie) .  (773) In particolare, secondo Abraham, l’ipotesi di un elettrone deformabile doveva essere respinta poiché essa:

implica che si dovrebbe svolgere, a causa della deformazione, un lavoro meccanico, e che si dovrebbe quindi tener conto, oltre che dell’energia elettromagnetica, di un’energia interna dell’elettrone. In questo caso diventerebbe impossibile un’interpretazione elettromagnetica della teoria dei raggi catodici o di Becquerel, che sono fenomeni puramente elettrici, e bisognerebbe rinunciare fin dall’inizio a fondare la meccanica sull’elettromagnetismo. (774)

         L’ipotesi di indeformabilità veniva dunque a trovarsi in contrasto con altre elaborazioni teoriche ed in particolare con quella di Lorentz. Essa permetteva però, come già detto, di ricavare dei risultati in accordo con  le esperienze di Kaufmann ed in particolare che la massa dipende dalla velocità. Tra l’altro, con l’introduzione della quantità di moto elettromagnetica, Abraham  riuscì  a  superare  le  obiezioni che  Poincaré  fece  a Lorentz  e  relative  al non accordo della teoria degli elettroni con la conservazione della quantità di moto. Con la quantità di moto elettromagnetica si può infatti rendere conto di quella pressione di radiazione che in quegli anni veniva, per la prima volta, misurata (P. Lebedev, 1901; E. Hichols – G. Hull, 1903): quando un elettrone in moto accelerato emette onde elettromagnetiche, la quantità di moto che perde è uguale alla quantità di moto elettromagnetica della radiazione. Dalla quantità di moto elettromagnetica è poi relativamente semplice ricavarsi la massa elettromagnetica, cosa che Abraham fece, calcolando per la prima volta (1903) le masse longitudinale e trasversale di un elettrone in moto. (775)  I valori di queste masse risultarono diversi da quelli che l’anno successivo (1904) fornì Lorentz e la cosa sembrava una seria obiezione alla teoria di  quest’ultimo, in quanto i risultati sperimentali di Kaufmann davano ragione ad  Abraham.  (776)

         Solo più tardi (1908) nuove esperienze, effettuate con maggiore cura sperimentale dal fisico tedesco A.H. Bucherer (1863-1927) e successivamente da altri, mostrarono che effettivamente le relazioni trovate da Lorentz erano quelle corrette.

        Nel 1903, comunque, la teoria di Abraham aveva il conforto sperimentale ma al suo interno poneva dei problemi che lo stesso Abraham fa risaltare.

Egli scrive (777)  che le equazioni del moto che ha trovato

corrispondono esattamente alle equazioni differenziali che si ottengono per il moto di un corpo solido in un fluido perfetto. Tuttavia, mentre per il problema meccanico, le componenti dell’impulso e del momento dell’impulso sono funzioni lineari della velocità attuale di traslazione e di rotazione, ... nel problema elettrodinamico l’impulso ed il momento dell’impulso non dipendono solo dal moto attuale dell’elettrone ma anche dalla sua storia precedente …

Questa circostanza crea una grande complicazione nel nostro problema, che non sembra rendere possibile una soluzione completa della dinamica dell’elettrone.”

Come osservano Petruccioli e Tarsitani, “si perdeva il ‘carattere  deterministico‘ delle equazioni differenziali che regolavano il moto dei corpi materiali, nel senso che l’impulso ed il momento – ora ‘grandezze‘ di natura elettromagnetica – non erano più definite in modo univoco in un punto dello spazio e del tempo, una volta assegnate le condizioni iniziali, ma contenevano informazioni riguardanti tutta la vita degli elettroni anteriore all’istante considerato.”  (777 bis)

        Altre difficoltà sorsero poi quando si vollero estendere i risultati di Abraham agli altri costituenti la materia che non fossero gli elettroni, alle forze molecolari ed a quelle gravitazionali. (778)  Sembra ritrovarsi qui la situazione creatasi con l’opera di Copernico, cambiare i ruoli di Terra (meccanica) e Sole (elettromagnetismo) senza preoccuparsi di tutti i problemi fisici che la nuova struttura avrebbe comportato.

        Ricapitolando brevemente, si può dire che a cavallo dei due secoli esistevano grosse differenze di opinione, contrasti anche molto duri, sui fondamenti ed i metodi (ed anche oltre) dell’intera scienza fisica. C’è chi ama parlare di ‘crisi‘, chi di ‘continuità‘; personalmente ritengo che certamente una quantità di problemi nascevano dall’esigenza di sistematizzare l’enorme messe dei dati sperimentali che si veniva producendo nei più svariati campi della fisica, sotto le pressioni delle esigenze tecnologiche della seconda rivoluzione industriale. Ed una qualche crisi doveva ben esserci se solo si pensa, in termini di storia interna, che una quantità di risultati non rientrava in una spiegazione razionale, determinata e conseguente con la fisica che fino ad allora si era costruita. L’eventuale crisi quindi nasceva dal venir meno dell’ideale di scienza unificata, di possibilità di interpretazione della realtà naturale a partire da un unico principio unificante, fosse esso quello meccanico, quello termodinamico, quello elettromagnetico.

        Semplificando molto si può dire che almeno quattro correnti di pensiero si contendevano il primato nell’ambito della fisica:

– quelli che ritenevano di dover procedere con gli strumenti ed i metodi fino ad allora seguiti;

– quelli che sentivano l’indispensabilità di una rifondazione della meccanica;

– quelli che ritenevano di poter basare l’intera fisica sulla termodinamica;

– quelli che ritenevano di poter basare l’intera fisica sull’elettrodinamica.

E neanche a pensare che non ci fosse sovrapposizione; molto spesso i sostenitori di una posizione confluivano in un’altra, purché, ad esempio, l’ideale comune antimeccanicistico (che sempre più diventava antimaterialistico) fosse realizzato. .Oppure quando si pensava che una data posizione non escludesse l’altra, o quando si tentava di mediare per garantire la continuità. In ogni caso, vi erano ancora quelli che credevano alla ‘curiosità scientifica‘, dei sopravvissuti ‘filosofi naturali‘, dei quali si perderà ogni traccia nel nostro secolo.

        Un’altra corrente di pensiero, in aggiunta a quelle schematicamente ricordate, vincerà sul piano scientifico ma non su quello filosofico, interpretativo e politico generale: si tratta, dei Planck e degli Einstein.  

NOTE

(766) J.J. Thomson: On the electric and magnetic effects. produced by the motion of electrified bodies, Phil. Mag. 11; 1881; pagg. 229-249. O Heaviside: On the electromagnetic effects due to the motion of electrification through a dielectric, Phil. Mag. 27; 1889; pagg. 324-339. Nel lavoro di Thomson era avanzata la possibilità di poter considerare l’inerzia come un fenomeno elettromagnetico. In questa ipotesi, un conduttore carico in movimento doveva aumentare di massa, anche se questo aumento risultava indipendente dalla velocità del conduttore. Heaviside dette a questo aumento di massa un significato fisico preciso, forza d’inerzia elettrica, distinguendolo così dall’inerzia puramente meccanica. Si veda bibl. 160, pagg. 140-145.

(767) Citato in bibl. 160, pag. 147.

(768) Per rendersi conto qualitativamente dei campi che circondano una particella carica in moto a velocità costante e in moto accelerato (emissione di onde elettromagnetiche), si può vedere bibl. 222, Vol. II, pag. 536.

(769) Questo fatto si può anche dire nel modo seguente: per mettere in moto una particella priva di carica, occorre vincere solo l’inerzia meccanica; quando la particella è carica, ad una sua messa in moto corri sponde la creazione di un campo magnetico; in quest ‘ultimo caso vi sono quindi due inerzie da vincere, poiché la creazione di un campo magnetico si ottiene a spese di un dato lavoro (inerzia elettrica) che va ad aggiungersi all’ordinario lavoro che bisogna fare per mettere in moto la massa (inerzia meccanica).

(770) I risultati di Kaufmann di cui si parla sono discussi nelle memorie seguenti:

      W. Kaufmann: Sulle deviazioni elettriche e magnetiche delle radiazioni di Becquerel e sulla massa. apparente degli elettroni, Gött. Nachr. 1901.

     W. Kaufmann:  Sulla ‘Massa Elettromagnetica’ degli elettroni,  Gött. Nachr. 1903.   

     W. Kaufmann: Sulla costituzione degli elettroni, Sitzb. preuss. Akad. Wiss., 1905.

(771) M. Abraham: Sulla dinamica degli elettroni, Gött . Nachr., 1902. M. Abraham: Principi di dinamica degli elettroni, Annalen der Physik, 1903. Si noti che anche A. Sommerfeld aderì al programma di Wien-Abraham, programma al  quale,  per  breve  tempo,   aderì  anche  Planck.

(772) J.H. Poynting: On the transfer of energy in an electromagnetic field, Phil. Trans., 175; 1884.

(773) Abraham si fece i conti nei due casi, trovando gli stessi risultati.

(774) Citato in bibl. 160, pag. 151.

(775) Nel suo lavoro del 1904 Lorentz troverà valori differenti per queste masse ed osserverà (bibl.131, pagg. 30-31):

I valori che ho trovato per le masse longitudinale e trasversale di un elettrone, espresse in funzione della sua velocità, non sono gli stessi di quelli precedentemente ottenuti da Abraham. Il motivo di questa differenza nasce dall’unica circostanza che, nella sua teoria, gli elettroni sono trattati come sfere di dimensioni invariabili. Ora, riguardo alla massa trasversale, i risultati di Abraham sono stati confermati in modo brillante dalle misure di Kaufmann della deflessione di radiazioni in campi elettrici e magnetici. Quindi, se non vi sono obiezioni più serie alla teoria da me ora proposta, deve essere possibile mostrare che queste misure sono in accordo con i miei valori quasi allo stesso modo che con quelli di Abraham.

(776) Poincaré, preso atto di questa conclusione, cominciò a porsi del problemi sulla validità del principio di relatività (bibl. 141, pag. 175), dicendo:

Il principio di relatività non avrà allora il valore che si à cercato di attribuirgli“, e subito dopo osservando che “ prima di accettare questa conclusione, è necessario riflettere un poco“.  

(777) Citato in bibl. 133, pag. 62.

(777 bis) Ibidem.

(778) Per ulteriori notizie sui lavori di Abraham si veda bibl. 160, pagg. 148-15 7.  

CAPITOLO V

30  –   La nascita della della Relatività di Einstein.

1 – LA FORMAZIONE DI EINSTEIN. I SUOI LAVORI ANTERIORI AL 1905. I LAVORI DEL 1905 SUL MOTO BROWNIANO E SUI QUANTI DI LUCE.

        Albert Einstein (1879-1955) nacque in Germania (Ulm – Würtemberg) dove fece i suoi primi studi (Ginnasio di Monaco). Quindi passò in Svizzera, dove, dopo un anno alla Scuola Cantonale di Aarau, riuscì  conseguire l’iscrizione al Politecnico di Zurigo (1896), nel quale si laureò nel 1900 in Fisica e Matematica. (77 9)  E’ da distaccare il fatto che tra i suoi docenti vi fu il grande matematico, di origine russa ma di formazione tedesca, H. Minkowski (1864-1909) il quale avrà grande parte nello sviluppo successivo della teoria della relatività.

        I lavori che certamente conosceva, almeno fino al 1905, erano quelli di Helmholtz, di Kirchhoff, di Hertz e di Boitzmann. Egli era certamente a, conoscenza dei lavori di Maxwell i quali lo avevano affascinato . E’ da notare però che il suo professore al Politecnico, H. Weber, non aveva incluso le teorie di Maxwell nel suo corso e, anche se non abbiamo nessuna sicurezza nell’affermarlo, pare probabile che Einstein conoscesse Maxwell, almeno all’inizio, solo attraverso i lavori di Helmholtz e di Hertz. Egli aveva inoltre letto i lavori di Lorentz del 1892 e del 1895, la Chimica generale di Ostwald, la Meccanica nel suo sviluppo storico-critico  ed I principi del calore nel loro sviluppo storico-critico, oltre ad altre opere, di Mach, almeno la prima memoria di Abraham del 1902, le memorie di Kaufmann del 1901-1902-1903, la memoria di Planck del 1900 nella quale si introduceva la quantizzazione dell’energia, l’opera La scienza e l’ipotesi di Poincaré. Conosceva bene Kant e Spinoza ed era rimasto molto influenzato dalla critica della meccanica fatta da Mach, (780)  ma ancora di più dalle concezioni filosofiche di D. Hume (in particolare dalla   critica della causalità e dei concetti di spazio e soprattutto di tempo).  (780 bis) Anche Ostwald, come del resto Abraham, aveva esercitato una notevole influenza su di lui; soprattutto là dove Ostwald negava la realtà di tutti quegli enti inosservabili come l’etere e portava avanti una fisica, quella termodinamica, che, come vedremo, rispondeva agli ideali di Einstein. Ben presto però (intorno al 1902) Einstein si distaccò sia da Ostwald sia dal programma elettromagnetico poiché non li trovava più aderenti alle sue esigenze di unità (in particolare il programma elettromagnetico tentava di fondarsi sulle equazioni di Maxwell-Lorentz che, come vedremo, Einstein trovava difettose). Altre sue letture erano poi le opere di Galileo, Kepler, Newton, Darwin e Riemann. Sembra accertato che Einstein non avesse conoscenza dei lavori di Michelson e Morley se non indirettamente, attraverso le memorie di Lorentz. (781)  Allo stesso modo egli non era a conoscenza né del lavoro di Lorentz del 1904, né di quelli di Boltzmann e Gibbs che trattavano del moto browniano e di questioni ad esso connesse come le fluttuazioni (in particolare non conosceva il lavoro di Gibbs del 1902). (78l ter)

         La matematica era ben conosciuta da Einstein. Come egli stesso sostie ne nelle sue Note autobiografiche (1946), già ai 16 anni aveva una buona conoscenza delle nozioni fondamentali della matematica, della geometria analitica, del calcolo differenziale ed integrale. Ciò nonostante non fu la matematica a cui Einstein dedicò il suo maggior impegno nel periodo universitario. Al contrario, gran parte del suo tempo lo passava nei laboratori (ricchissimi di strumenti poiché il Politecnico di Zurigo, attraverso il prof. H. Weber, era una emanazione del già enorme Gruppo Siemens), affascinato dal contatto diretto con l’esperienza (il suo biografo Reiser sostiene che nel periodo universitario Einstein era, dal punto di vista scientifico, un empirista puro). E non che la matematica a lui non piacesse, era soltanto che non si sentiva in grado  di scegliere, tra l’enorme varietà dei suoi rami, verso quale indirizzarsi. Racconta Einsteins   (782)

Certo anche la fisica era divisa in diversi rami … Anche qui la massa di dati sperimentali non sufficientemente collegati tra loro era enorme. Ma in questo campo imparai subito a discernere ciò che poteva condurre ai principi fondamentali da quella moltitudine di cose che confondono la mente e la distolgono dall’essenziale. Il guaio era, naturalmente, che, piacesse o no, bisognava ammucchiare tutta questa roba nella testa per gli esami.”

Quindi la fisica era al centro degli interessi di Einstein. In un primo tempo, fino al 1904, il suo approccio ai problemi in studio fu di tipo meccanicistico. Ma piano piano veniva maturando in lui una concezione diversa. Nelle sue Note autobiografiche, scritte da Einstein tra la fine del 1946 e gli inizi del 1947, così egli racconta:

” Fu Mach a scuotere, nella sua Storia della Meccanica, questa fede dogmatica: il suo libro, quand’ero studente, esercitò una profonda influenza su di me. Oggi riconosco la grandezza di Mach nel suo scetticismo incorruttibile e nella sua indipendenza; ma negli anni della mia giovinezza rimasi influenzato molto profondamente anche dalla sua posizione epistemologica, che oggi mi sembra sostanzialmente insostenibile.” (783)                                                                        

        Prima di passare ad occuparci dei lavori che Einstein portò a termine subito dopo la laurea, è necessario soffermarci su un aspetto che ancora oggi è fuorviante.  Riguarda la disinvoltura con cui molti  storici  o pedagoghi affrontano il tema dei rapporti tra la teoria della relatività e 1’esperienza di Michelson-Morley, gli uni nel tentativo di costruire una linearità nella storia delle conoscenze scientifiche, di accreditare il fatto che nella scienza si procede con un meccanismo di accumulazione di conoscenze, gli altri per una pretesa semplificazione didattica. Una testimonianza dello storico R.S. Shankland, riportata da Holton, si riferisce a due successive interviste che ebbe con Einstein nel 1950 e nel 1952 e ad uno scritto del 1952 che lo stesso Shankland richiese ad Einstein, in occasione della commemorazione del centenario della nascita di Michelson. Il racconto che Shankland fa della prima intervista riporta questo brano: (784)

Quando gli chiesi di come aveva avuto notizia dell’esperimento di Michelson-Morley, mi disse che lo aveva conosciuto attraverso gli scritti di H.A. Lorentz, ma che solo dopo il 1905 gli aveva prestato attenzione !, altrimenti disse  lo avrei menzionato nel mio articolo. Continuò dicendo che i risultati sperimentali che maggiore influenza avevano avuto su di lui erano le osservazioni dell’aberrazione stellare e le misure di Fizeau della velocità della luce nell’acqua in movimento. Questo fu sufficiente mi disse.”

Ad una analoga domanda, posta da Shankland nella seconda intervista, Einstein rispose:

Non  è così semplice  dirlo,   non  sono  sicuro  di   quando  venni  a  conoscenza  per la prima volta dell’esperimento di Michelson. Non ero cosciente del fatto che   avesse avuto influenza su di me in modo diretto durante i sette anni in cui la relatività era tutta la mia vita. Credo che semplicemente lo accettai come veritiero

e quindi aggiunse che di quell’esperienza aveva avuto notizia dai lavori di Lorentz. Infine, nello scritto del 1952, Einstein dice:

“L’influenza del famoso esperimento di Michelson-Morley nei miei lavori è stata abbastanza indiretta. Ebbi notizia di esso dalle decisive investigazioni di Lorentz sull’elettrodinamica dei corpi in movimento (1895), che conoscevo bene prima di sviluppare la Teoria Speciale della Relatività.”

In definitiva, va ribadita la non conoscenza da parte di Einstein dell’esperienza di Michelson-Morley. Capiremo più avanti che agli occhi di Einstein, che non si poneva sulla strada di teorie costruttive ma su quelle di teorie dei principi, (785) era in definitiva inessenziale la conoscenza di quella esperienza.

        E veniamo ora ai lavori di Einstein anteriori il 1905.  

        Il primo lavoro  è del 1901, un anno dopo la sua laurea ed in una situazione di grossa incertezza economica (non aveva più il modesto assegno mensile che gli forniva il padre, non era riuscito ad avere il posto di assistente al Politecnico,  (786) stava studiando per ottenere un qualche titolo accademico come il dottorato di ricerca). Questo suo primo lavoro venne pubblicato sulla più prestigiosa rivista tedesca, gli Annalen der Physik;  ed Einstein lo utilizzò come referenza per farsi assumere come assistente presso i laboratori di Ostwald a Lipsia e quindi presso quelli del fisico H. Kamerlingh Onnes (l853-1926) a Leida. Questi tentativi non ebbero successo come del resto altri   che seguirono (suoi articoli successivi venivano respinti come tesi per ottenere il dottorato ma venivano accettati dagli Annalen). (787)

        In precarie condizioni economiche, Einstein dovette occuparsi (mediante una raccomandazione!) all’Ufficio Brevetti di Berna (giugno 1902). (788)  E, non ostante questo impegno a tempo pieno, riuscì a portare a compimento l’intera sua produzione scientifica fino al 1909.

        Ma veniamo al contenuto dei primi lavori di Einstein.

        Quello del 1901, il suo primo cui ci siamo già riferiti, ha per titolo Considerazioni sui fenomeni di capillarità.  (789) In esso Einstein tenta di dare alla chimica delle basi meccaniche a partire dall’idea che le forze chimiche, quelle che legano le molecole tra loro sono di tipo meccanico ed in particolare di tipo gravitazionale (forze centrali e azioni a distanza). C’è da notare che la particolare trattazione portata avanti dal nostro coinvolge i principi della termodinamica. Sulla stessa strada si muoverà Einstein nel suo secondo lavoro. Sulla teoria termodinamica della differenza di potenziale tra metalli … (1902).  (790)   Egli tenta qui di estendere la sua teoria delle forze chimiche dai liquidi ai gas e, durante questo tentativo, ebbe modo di familiarizzarsi con i metodi statistici di Boltzmann.

        Dall’insieme di questi due lavori si può ricavare un primo tentativo di Einstein di fornire una teoria unificata delle forze. Questa prima bozza di programma sarà ancora portata avanti dal successivo lavoro, Sulla teoria cinetica dell’equilibrio termico e del secondo principio della termodinamica (1902).  (791) In questo terzo articolo Einstein estende quanto discusso nei primi due alle molecole di un gas utilizzando la teoria cinetica del calore con i metodi di Boltzmann di meccanica statistica. Ma l’interessante è che in questo lavoro egli, indipendentemente, ritrova tutti i risultati che contemporaneamente avevano trovato sia Boltzmann che Gibbs come, ad esempio, il teorema di equipartizione dell’energia e le interpretazioni microscopiche di entropia e temperatura, risultati che, è bene sottolineare, non erano ancora a conoscenza di  Einstein. Per rendere però conto su quale strada si muoveva ancora il nostro,  basti dire che egli si proponeva l’operazione che, a suo giudizio, non era riuscita del tutto a Maxwell e a Boltzmann: la fondazione completa del secondo principio della termodinamica sulla meccanica. La tesi principale dell’articolo è infatti che la seconda legge si prospettacome una conseguenza necessaria della concezione meccanica della natura.” (7 92 ) Si può certamente osservare che a questo punto in Einstein ancora erano molto forti gli influssi diretti della concezione meccanicistica che era di molti suoi insegnanti al Politecnico. Ma ancora nei suoi ulteriori lavori del 1903, Sulla teoria dei fondamenti della termodinamica,  (793)  e 1904, Sulla teoria molecolare generale del calore, (794) Einstein prosegue nel suo tentativo di portare a termine la fondazione della termodinamica sulla meccanica. Àncora si sviluppa la meccanica statistica (e poiché temperatura ed entropia sono definite per un dato insieme, prima di passare a considerazioni probabilistiche, è più corretto parlare di termodinamica statistica, e questo sia per Einstein che per Gibbs), questa volta su strade non toccate da Gibbs (l’insieme temporale, ad esempio, è utilizzato da Einstein per definire in un nuovo modo lo stato di equilibrio, quello più probabile, di m sistema termodinamico: lo stato macroscopico del dato sistema è quello che esso occupa durante la maggior parte della sua evoluzione temporale), e sistematicamente si inizia lo studio delle fluttuazioni di energia (795) che assume ranno un ruolo fisico centrale nella sua teoria. In particolare Einstein mostrò (1904) che la fluttuazione quadratica media dell’energia dipende dalla costante k di Boltzmann la quale determina quindi la stabilità di un sistema. A questo punto c’è il passo importante di Einstein, soprattutto per gli sviluppi dei due articoli dell’anno seguente sul moto browniano e sui quanti di luce.

Dice Einstein: (796)

L’equazione che abbiamo ricavato permetterebbe una determinazione esatta della costante universale k se fosse possibile determinare la fluttuazione di energia di un sistema; ma, dato il presente stato della nostra conoscenza, non ci troviamo di fronte a questa eventualità. Per di più esiste solo una classe di sistemi fisici nei quali possiamo presumere, per esperienza, che si abbia una fluttuazione di energia. Questo sistema è quello dello spazio vuoto, pieno di radiazione termica.

Einstein inizia così a mettere in relazione la costante k con l’altra costante (λmax .T) della  legge  dello  spostamento,  trovata  da  W.  Wien nel  1894  (si  veda il mio articolo La nascita della teoria dei quanti pubblicato nel sito e si ricordi che λ max è la lunghezza d’onda cui compete il massimo d’energia irradiata da un corpo nero che si trovi ad una temperatura assoluta T). In questo modo si inizia lo studio del corpo nero mediante le fluttuazioni ed Einstein trova che λ max deve risultare:

 λmax  = 0,42/T

  valore in ottimo accordo con i risultati sperimentali che davano:

λ max = 0,293/T

E’ un risultato di grande rilievo che convince Einstein a proseguire sulla strada dell’applicazione dei principi generali della termodinamica alla pura radiazione elettromagnetica ma lo farà, come vedremo più oltre, cambiando approccio al problema. Per ora basti osservare che certamente Einstein conosce i lavori di Planck sulla quantizzazione dell’energia, tant’è vero che utilizza, la definizione di entropia che Planck fornisce in questi lavori; mentre ancora non ha nulla da aggiungere alla parte propriamente quantistica, tant’è vero che non utilizza, e non dice nulla sulla relazione di Planck per l’emissione e l’assorbimento di radiazione da parte di un corpo nero.

         In definitiva l’elaborazione teorica, la meccanica statistica (legge di Boltzmann che lega entropia a probabilità e teoria delle fluttuazioni), utilizzata indipendentemente da ipotesi riduzioniste ma come un insieme di principi generali, mostrava un’unità tra i fenomeni che si verificavano tra molecole nell’ipotesi meccanica ed i fenomeni elettromagnetici.

         Il percorso seguito da Einstein per arrivare a questo risultato è così descritto da Battimelli: (797)

E’ un modo di affrontare il problema che mostra in modo spiccato le caratteristiche di quelle che Einstein chiama teorie dei principi senza partire da elementi ipotetici si considerano proprietà generali dei fenomeni osservate empiricamente (per esempio la tendenza di un qualsiasi sistema isolato a portarsi verso uno stato finale di equilibrio) e se ne deducono formule matematiche di tipo tale da valere in ogni caso particolare che si presenti. Il comportamento del sistema non viene più dedotto dalle proprietà dinamiche del modello meccanico che lo rappresenta, ma da una struttura formale, la meccanica statistica, autonomamente fondata e svincolata da ogni riferimento ad un modello particolare. Non è quindi più necessario dare il modello meccanico del sistema: i risultati ottenuti sono applicabili in tutta generalità a qualunque caso si presenti, per quanti siano i gradi di libertà del sistema e qualunque sia la sua struttura.”  (798) 

        Occorre osservare a questo punto che negli anni che vanno dal 1902 al 1904 Einstein ebbe un intenso rapporto intellettuale con alcuni suoi amici,

particolarmente M. Grossmann (fisico), K. Habicht (matematico), M. Solovine (filosofo), P. Adler (fisico) e M. Besso (ingegnere) . Con essi ebbe modo di discutere dei fondamenti della fisica, della matematica e della filosofia in quegli anni cruciali che segnarono il cambiamento di posizione epistemologica di Einstein (avvicinamento alle posizioni di Mach).                                                            

         Proprio sul finire del 1904 Einstein si rivolgerà sconfortato al caro amico Besso (l’unico che ringrazierà per l’aiuto fornitogli in occasione del suo lavoro di relatività del 1905) confidandogli le difficoltà che non riusciva a superare in certi suoi lavori (quelli del 1905). Diceva: (799)

E’ inutile che continui. Rinuncerò … Quando si arriva a disperare nulla può servire, né le ore di lavoro, né i successi precedenti, niente. Sparisce ogni senso di sicurezza. E’ finita … tutto è inutile. Non ho ottenuto nessun risultato …

        Soltanto qualche mese dopo (primavera 1905) Einstein scriveva euforico al suo amico Habicht dicendogli che gli avrebbe mandato quattro suoi saggi, aggiungendo “il primo dei quali … è molto rivoluzionario”  (Einstein fa riferimento al suo articolo sui quanti di luce). Le difficoltà erano dunque superate; il risultato erano quattro articoli per gli Annalen der Physik, che vennero pubblicati nel 1905. Ci occuperemo qui dei primi due, Sul moto di piccole particelle sospese in un liquido stazionario, richiesto dalla teoria cinetico-molecolare del calore  (800) e Sull’emissione e trasformazione della luce da un punto di vista euristico  (801) , per gli altri due rimandiamo al prossimo paragrafo.

        Questi due articoli, come del resto gli altri due che discuteremo nel prossimo paragrafo, hanno in comune una definitiva maturazione metodologica ed epistemologica del pensiero di Einstein. Essi rappresentano una vera e propria svolta nel modo di fare scienza, proprio perché vengono ribaltate le antiche premesse metodologiche e si afferma con chiarezza l’esigenza di non andare più ad inseguire spiegazioni di fenomeni particolari ma di fornire la fisica di basi più generali e più produttive, da cui ricavare, come casi di semplice applicazione, i singoli fenomeni. Il brano di Einstein tratto dal suo Tempo, spazio e gravitazione (1948), che abbiamo citato in nota 785, descrive molto lucidamente i caratteri interni della svolta. Ma su questo argomento già Einstein aveva detto qualcosa nelle sue Note autobiografiche (1946). Ricordando le difficoltà che via via incontrava nel portare avanti il suo lavoro scientifico prima del 1905, Einstein dice:  (802)

A poco a poco incominciai a disperare della possibilità di scoprire le vere leggi attraverso tentativi basati su fatti noti. Quanto più a lungo e disperatamente provavo, tanto più mi convincevo che solo la scoperta di un principio formale universale avrebbe potuto portarci a risultati sicuri.”

Quanto qui detto lo si può subito confrontare con quanto Einstein sostiene in apertura del suo articolo sul moto browniano (il primo dei due in oggetto – nota 800). Egli non cerca di spiegare il fenomeno scoperto da Brown, che tra l’altro non conosceva nei dettagli, ma, come lo stesso titolo del lavoro suggerisce, egli tenta di costruire una teoria nella quale sia compresa la descrizione di quelli che sono i possibili movimenti di particelle in sospensione in un liquido, in accordo con la teoria cinetico-molecolare del calore, i quali movimenti   

se   potessero   essere   osservati   (assieme   alle   leggi  che  ci   si   aspetterebbe  di trovare), allora la termodinamica classica non potrebbe più essere considerata applicabile con precisione anche a corpi di dimensioni distinguibili al microscopio: ma determinazione esatta delle effettive dimensioni atomiche sarebbe allora possibile. D’altra parte, se la predizione di questi movimenti risultasse scorretta, si avrebbe una pesante obiezione alla concezione cinetico-molecolare del calore.”   (803)

I principi fondamentali su cui basa il suo lavoro sono quelli che egli ha affinato nei lavori precedenti ed in particolare in quello del 1904: la legge di Boltzmann che lega l’entropia alla probabilità e, soprattutto, le fluttuazioni. Ed in questo lavoro l’idea guida di Einstein è proprio, come sostiene D’Agostino, “la ricerca di fluttuazioni osservabili che potessero essere adoperate per fissare con precisione la scala delle grandezze molecolari.” (804)

        Il ragionamento di Einstein è press’a poco il seguente.

Poiché è impossibile seguire nel tempo i movimenti di una singola particella,   ci si può rifare al suo spostamento quadratico medio 

in un tempo t. Ebbene Einstein dimostra che queste due grandezze sono tra loro, a meno di una costante, in un rapporto costante chiamato coefficiente di diffusione D. (805)  In particolare trova:

                                                     

Per altra via poi egli ricava che questo coefficiente di diffusione è dato anche dalla relazione:

dove R è la costante universale dei gas; T è la temperatura assoluta; h il coefficiente di viscosità del liquido in cui le particelle si trovano in sospensione; r è il raggio delle particelle; N è il numero di Avogadro. Mettendo insieme le due relazioni e tenendo conto che tutte le altre quantità sono misurabili, si può risalire al valore del numero N di Avogadro. (806)

        Partendo quindi da principi generali, Einstein riesce a ricavare una relazione la quale può permettere, su scala macroscopica, una verifica sperimentale della costituzione atomica delle sostanze. E lo stesso Einstein nelle sue Note autobiografiche, riferendosi a questo lavoro, dice:  (807)

Il mio scopo precipuo era di trovare fatti che confermassero, per quanto era possibile, l’esistenza di atomi di determinate dimensioni finite … Il fatto che queste considerazioni concordassero con l’esperienza, unitamente alla determinazione delle vere dimensioni molecolari compiuta da Planck con la legge della radiazione (per alte temperature), convinse gli scettici, a quel tempo molto numerosi (Ostwald, Mach), della realtà degli atomi.”

E’ interessante notare, in queste parole di Einstein, che i fatti sono il trattamento teorico generale da cui discende una particolare deduzione che poi si va a controllare essere o meno d’accordo con l’esperienza, che è un semplice caso particolare che il trattamento teorico generale è in grado di spiegare.                                                                              

         Come già accennato, lo stesso procedimento, dai principi agli effetti particolari, è seguito da Einstein anche nel secondo dei lavori che stiamo discutendo, quello sui quanti di luce (nota 801) . Questo articolo è comunemente indicato come quello dell’effetto fotoelettrico (808)  ma questa denominazione non è propriamente corretta. Anche qui lo scopo di Einstein non è quello di discutere l’effetto fotoelettrico, ma di trovare dei principi generali dai quali, tra l’altro, discenda la spiegazione di questo effetto. C’è comunque un altro elemento, di tipo euristico, che emerge in questo lavoro. Si tratta di sistemare una asimmetria che Einstein individua: identico procedimento a quello che sarà seguito nella memoria sulla relatività che discuteremo nel prossimo paragrafo. L’asimmetria in questione consiste nel fatto che nelle elaborazioni  dei  fisici si assegna una natura discontinua alla materia ponderabile ed una natura continua alla radiazione elettromagnetica del vuoto. Dice Einstein in apertura del suo lavoro:

Esiste una differenza formale di grande importanza fra le concezioni che sostengono i fisici nei confronti dei gas e degli altri corpi ponderabili e la teoria di Maxwell riguardante i processi elettromagnetici nel cosiddetto vuoto … Secondo la teoria di Maxwell l’energia presente in tutti i fenomeni di carattere esclusivamente elettromagnetico (e quindi anche la luce) è da considerarsi una funzione spaziale continua, mentre i fisici moderni concepiscono l’energia di un corpo ponderabile come risultato di una somma sugli atomi ed elettroni.”

Questa introduzione, che sembra così inoffensiva,  pone tutta una serie di problemi. Innanzitutto Einstein non fa riferimento a nessun etere e parla esplicitamente di vuoto. Quindi egli sottolinea la natura elettromagnetica della luce che gli servirà tra un momento per estendere la quantizzazione di Planck ai fenomeni luminosi (e per togliere ad essa il carattere che Planck gli aveva assegnato di mero artificio matematico). Inoltre si fa presente l’insoddisfazione per quel dualismo (continuità dei campi, discontinuità delle particelle), soprattutto presente, anche se non la si cita, nella teoria degli elettroni di Lorentz.  Infine, con Holton, sembra quanto meno strano che, con tutti i problemi che aveva l’elettrodinamica, la critica andasse ad appuntarsi ad una questione di differenza formale. (810)

         Comunque, nella sua introduzione, Einstein dà atto alla teoria ondulatoria della luce di rendere conto di svariati fenomeni ma solo su scala macroscopica, tant’è vero che aggiunge: (811)

Tuttavia, bisogna tener presente che le osservazioni ottiche si riferiscono a valori medi nel tempo e non a valori istantanei.

L’esigenza di fare questa precisazione nasceva in Eistein per il fatto che le equazioni di Maxwell si dimostravano non corrette se applicate a fenomeni microscopici. Era il campo in discussione: la teoria di Maxwell sembra valida solo per fenomeni macroscopici; i fenomeni microscopici debbono trovare la loro spiegazione in un altro principio, i quanti; una trattazione di tipo statistico di questi ultimi deve ridare i fenomeni macroscopici. Quindi, sebbene la teoria ondulatoria della luce spieghi una quantità di fenomeni, è pensabile che essa,

“fondata su funzioni spaziali continue, possa entrare in conflitto con l’esperienza, qualora venga applicata ai fenomeni di emissione e trasformazione della luce. (811)

A quali fenomeni fa riferimento Einstein ?

Mi sembra che le osservazioni compiutesi sulla radiazione di corpo nero, la fotoluminescenza, (812)  l’emissione di raggi catodici tramite luce ultravioletta (813)   ed altri gruppi di fenomeni relativi all’emissione ovvero alla trasformazione della luce, risultino molto più comprensibili se vengono considerate in base all’ipotesi che l’energia sia distribuita nello spazio in modo discontinuo.” (814)

Ed ecco il modo utilizzato da Einstein per eliminare l’asimmetria: si tratta di considerare come discontinua l’energia associata alla radiazione elettromagnetica (e questo per rendere conto di fenomeni come quelli elencati che possono trovare solo una spiegazione microscopica) estendendo l’ipotesi di Planck alla luce mediante i quanti di luce o fotoni (quest’ultimo nome sarà introdotto dal fisico americano A.H. Compton nel 1923). Dice Einstein: (815)

Secondo l’ipotesi che voglio qui proporre, quando un raggio di luce si espande partendo da un punto, l’energia non si distribuisce su volumi sempre più grandi, bensì rimane costituita da un numero finito di quanti di energia localizzati nello spazio e che si muovono senza suddividersi, e che non possono essere assorbiti o emessi parzialmente.

Con questa ipotesi Einstein fa un notevole passo avanti rispetto alla prima quantizzazione di Planck: allora si trattava di un artificio matematico per far concordare l’elaborazione teorica con i dati sperimentali ed inoltre la quantizzazione, ammessa per l’energia degli oscillatori che producevano la radiazione, veniva negata per le onde elettromagnetiche (ammessa in emissione e negata in assorbimento); ora la quantizzazione viene assunta a principio generale, con un preciso significato fisico legato al modo con cui la materia emette od assorbe energia. C’è da aggiungere che si ribadisce ancora, di più l’insoddisfazione nei riguardi della massima elaborazione dell’elettrodinamica, la teoria di Lorentz, la quale non riesce a rendere conto dei fenomeni che Einstein cita. Inoltre alcune difficoltà che egli riscontra nella teoria del corpo nero elaborata da Planck (aumentando il campo di frequenze ammesso per gli oscillatori, l’energia che essi dovrebbero fornire sarebbe, al limite, infinita), vengono da Einstein attribuite ancora ad insufficienze della teoria di Maxwell-Lorentz.

        Nel seguito del lavoro Einstein elabora il problema in  accordo con il suo programma precedente (soprattutto l’articolo del 1904). Rifiuta ipotesi riduzioniste affidandosi solo ai principi generali che gli sono forniti dalla termodinamica.  (816) Egli va quindi a calcolarsi l’entropia di un gas in funzione del volume da esso occupato e l’entropia della radiazione sempre in funzione del volume (quest’ultima la trova a partire dalla legge di distribuzione di Wien, e non di Planck, ben sapendo che i suoi limiti di validità impongono delle restrizioni). I risultati che trova mostrano che

l’entropia di una radiazione monocromatica di densità abbastanza ridotta varia in funzione del volume, seguendo la stessa legge che vale per l’entropia di un gas ideale o di una soluzione diluita.” (817)

In particolare, confrontando le due relazioni, si trova: (818)

 E/βν  = n.(R/N)

dove: E è l’energia della radiazione; ν è la sua frequenza; β  è una delle due costanti della formula di Planck-Wien (si veda la sezione Spettroscopia al paragrafo 2 del precedente capitolo, alla data l896) per la quale Einstein fornisce il valore β = 4,866.10-11 °K.sec; (819) n è il numero delle molecole del gas; R è la costante universale dei gas ed N il numero di Avogadro. Da questa relazione si può facilmente ricavare (ponendo R/N = k = costante di Boltzmann):

                                                  E = nkβν

  mentre per una sola molecola si ha: (820)

ε = kβν                   

Dato che questo risultato lo si è ottenuto uguagliando le due relazioni che forniscono l’entropia per un dato volume, rispettivamente per un gas e per la radiazione, Einstein ne deduce che: (821)

Una radiazione monocromatica di densità ridotta (nei limiti di validità della legge di Wien) si comporta, nell’ambito della termodinamica, come se fosse composta di quanti di energia di grandezza kbn, indipendenti tra loro.”

Il grande passo è fatto: dalle entropie che hanno la stessa forma per gas e radiazione, il nostro conclude che anche la struttura corpuscolare, per gas e radiazione, deve essere la stessa; egli dice infatti: (822)

Se una radiazione monocromatica (di densità sufficientemente ridotta) si comporta, rispetto alla relazione entropia-volume, cosse un mezzo discontinuo, costituito da quanti di energia kbn, dovremo esaminare l’ipotesi che le leggi di emissione e di trasformazione della luce siano costituite anche loro, come se la luce fosse formata da simili quanti di energia.”

E a questo punto, dopo aver stabilito i principi generali, Einstein passa a ricavarne alcune conseguenze ed in particolare fa vedere come sia i fenomeni di fotoluminescenza (regola di Stokes), sia l’emissione di raggi catodici tramite esposizione di corpi solidi, sia infine l’effetto fotoelettrico, possano essere interpretati mediante la sua teoria dei quanti di luce. (823)                                     :

        Vedremo nel prossimo paragrafo che, pur trattando argomenti completamente  diversi, il metodo seguito è lo stesso. E’ la ricerca di principi generali, che  siano semplici ed unificanti, che muove l’intero lavoro di Einstein. (824)     Ma c’è di più. Rispetto al passato, “non è solo una questione di cambiamento di metodo; si tratta di una revisione e, per certi versi, di una ridefinizione radicale di ciò che e’ lecito fare in fisica, di ciò che sia da considerare soddisfacente e cosa irrilevante, di dove vadano cercati i fondamenti dell’operare scientifico.” (825)  

        Per concludere, e per quanto vedremo nel prossimo paragrafo, è interessante notare che con questo articolo praticamente Einstein afferma la non necessità delle onde luminose e conseguentemente del loro sostegno, l’etere.

NOTE

(779) Einstein non ebbe una buona esperienza scolastica se si eccettua, l’anno in cui studiò alla Scuola di Aarau. Era tormentato dalla scuola nozionistica ed autoritaria. La parentesi nella scuola democratica di Aarau, i cui insegnamenti erano impartiti sulla base delle teorie del pedagogo svizzero J.H. Pestalozzi (1746-1827) sarà sempre ricordata da Einstein come estremamente positiva. Su questi aspetti si può vedere il saggio di G. Holton, Su un tentativo di comprensione del genio scientifico, The Anerican Scolar, Vol. 41, inverno 1971-1972 (si veda bibl. 127, pagg. 294-322). Su cosa pensava Einstein della scuola autoritaria e nozionistica si può vedere un discorso che tenne nel 1936 e riportato in bibl. 161, pagg. 78-84. Notizie biografiche su Einstein si possono trovare, ad esempio, su Hoffmann (bibl.162), su Bergia (bibl.163), su Bertin (bibl.164), su Cuny (bibl.165), su Levinger (bibl.166), su Michelmore (bibl.167), su Koutznetsov (bibl. 262), su Highfield e Carter (bibl. 263), su Pais (bibl. 264 e 265), su Pyenson (bibl. 266).Si possono poi vedere le sue importanti Note Autobiografiche nel lavoro, curato da Schlipp, Albert Einstein scienziato e filosofo (bibl. 168).

(780) Si veda il saggio di G. Holton: Mach, Einstein and the Search for Reality,   Daedalus, 97, 649; 1968 (bibl. 127, pagg. 164-203).

(780 bis) Di Hume, molto schematicamente,si può dire che non accettava il concetto di Sostanza che egli sostituiva con un insieme di idee; allo stesso modo, respingeva il concetto di causalità sostenendo che essa aveva il solo significato che un dato evento si era realizzato in connessione con un altro evento, senza che ciò implicasse una relazione né logica né necessaria. Riguardo allo spazio Hume sosteneva che esso non è altro che l’idea di punti visibili o tangibili distribuiti in un certo ordine ed inoltre che noi non possiamo avere idea di nessuna estensione reale senza riempirla con oggetti sensibili. Riguardo al tempo infine, esso è scoperto da noi mediante una qualche successione percepibile di oggetti che cambiano e quindi non avremmo idea del tempo senza un qualcosa che cambia.

(781) Si veda il saggio di G. Holton: Einstein, Michelson and the crucial experiment , Isis, 60, 155; 1969 (bibl. 127, pagg. 204-293).

(781 bis) La rivista olandese, i Proceedings of the Amsterdam Academy (edizione in lingua inglese), era molto difficile da trovarsi e non solo per Einstein che all’epoca era impiegato all’Ufficio Brevetti di Berna, ma anche per coloro che lavoravano in istituzioni scientifiche molto importanti. In particolare M. von Laue, allora assistente presso l’Istituto di Fisica Teorica della più grande e prestigiosa Università del mondo, quella di Berlino, dovette scrivere a Lorentz alla fine di novembre del 1905 per chiedergli una copia del lavoro in oggetto. Nella stessa lettera M. von Laue sosteneva che a Berlino vi era una sola copia di quel lavoro, nella Biblioteca Reale, che prestava riviste solo per un giorno.

(781 ter) J.W. Gibbs: Elementary Principles in Statistical Mechanics, New York and London, 1902.

(782) Bibl. 168, pag. 10.

(783) Ibidem, pag. 12. L’influenza di Mach su Einstein durò fino a circa il 1930. La prima prova scritta del distacco completo di Einstein da Mach e della sua adesione al realismo razionalista, portato avanti dal suo collega ed amico Planck, si ha in uno scritto (l931) inedito di Einstein, che doveva servire da introduzione all’articolo di Planck Positivismo e mondo esterno reale, 1930 (bibl. 153, pagg. 217-241). Si veda allo scopo il saggio di Holton ci tato in nota 760 e riportato in bibl. 127; si veda in particolare la pag.201.

(784) Questo ed i successivi due brani riportati sono tratti dal saggio di Holton citato in nota 781. Si veda bibl. 127, rispettivamente, alle pagg. 233-234; 234; 236.

 (785) Nel 1948, in un suo saggio dal titolo Tempo, spazio e gravitazione (bibl. 161 pagg. 212-216), Einstein scrisse:    

Vi sono due specie di teorie in fisica. La maggior parte di esse è di tipo costruttivo. Esse tentano di formare un quadro dei fenomeni complessi partendo da principi relativamente semplici. La teoria cinetica dei gas, per esempio, tenta di ricondurre al movimento molecolare le proprietà meccaniche, terrmiche e di diffusione dei gas. Quando affermiamo di comprendere un certo gruppo di fenomeni naturali, intendiamo dire che abbiamo trovato una teoria costruttiva che li abbraccia.

In aggiunta a questo gruppo molto vasto di teorie, ve n’è un altro costituito da quelle che io chiamo teorie dei principi. Esse fanno uso del metodo analitico, invece di quello sintetico. Il loro punto di partenza ed il loro fondamento non consistono di elementi ipotetici, ma di proprietà generali dei fenomeni osservate empiricamente, principi dai quali vengono dedotte formule matematiche di tipo tale da valere in ogni caso particolare che si presenti. La termodinamica, per esempio, partendo dal fatto che il moto perpetuo non si verifica mai nell’esperienza ordinaria, tenta di dedurne, mediante processi analitici, una teoria che sarà valida in ogni caso particolare. Il merito delle teorie costruttive sta nella loro generalità, nella loro adattabilità e nella loro chiarezza, il merito delle teorie dei principi sta nella loro perfezione logica e nella saldezza delle loro basi.”

Ovviamente, anche se Einstein non la cita, la teoria di Lorentz era di tipo costruttivo.

(786) A questo posto Einstein teneva molto ma, essendosi inimicato tutti i professori per le continue critiche (ed in particolare H. Weber), essendo poi ebreo e non di nazionalità svizzera (Einstein prenderà la nazionalità svizzera, che mantenne fino alla morte, nel 1901), gli unici due posti disponibili furono assegnati ad altri due studenti. Si noti, incidentalmente, che a quest’epoca risale l’amicizia di Einstein con Friedrich Mier, figlio di Victor, capo della socialdemocrazia austriaca. Da Friedrich, assistente di fisica, Einstein ebbe le prime lezioni sul socialismo rivoluzionario. Si ricordi che Friedrich sarà arrestato nel 1916 per aver ucciso in un attentato il primo ministro austriaco, che riteneva responsabile della politica militarista austriaca (siamo alla I guerra mondiale). Al processo Einstein interverrà testimoniando in favore di Friedrich e contribuendo a far sì che la sua condanna fosse di un solo anno di prigione (Adler sarà amnistiato alla cacciata della monarchia e diventerà deputato e segretario della II Internazionale).

(767) II dottorato presso l’Università di Zurigo sarà ottenuto da Einstein nel 1905.

(788) Quel posto lo ottenne grazie al suo amico e compagno di studi Marcel Grossman. All’Ufficio Brevetti Einstein rimarrà fino al 1909 quando ottenne la nomina a professore straordinario presso l’Università*’ di Zurigo.

(789) Annalen der Paysik, 4, 1902; pagg. 513-523. Se si pensa che questo era il lavoro inviato come referenza ad Ostwald, ci si può rendere conto del perché Einstein non ebbe neanche risposta.

(790) Annalen der Physik, 8; 1902; pagg.798-814. Nel 1907 Einstein, riferendosi ai suoi primi due lavori, li giudicherà  senza importanza.

(791) Annalen der Physik, 9; 1902; pagg.417-433.

(792) Citato da Mc Cormmach, bibl. 129, pag. 45.

(793) Annalen der Physik, 11; 1903; pagg.170-187.

(794) Annalen der Physic, 14; 1904; pagg. 354-362.

(795) Era un argomento delicato. Sia Boltzmann che Gibbs ritenevano che fosse molto difficile evidenziarle. Secondo Gibbs, infatti, “l’esperienza non sarebbe abbastanza estesa nel tempo da abbracciare le divergenze più considerevoli dei valori medi … e non abbastanza fine da distinguere le divergenze ordinarie … [Quindi] sembra futile sperare anche per un tempo piccolissimo in una deviazione osservabile da quei limiti a cui i fenomeni si adeguerebbero nel caso di un numero infinito di molecole” (citato da D’Agostino; bibl.l30, pag.46).

(796) Citato da Kuhn; bibl.l47, pag.210. Per seguire con dettagli gli sviluppi dei lavori di Einstein e di molti altri sul problema del corpo nero e della fisica dei quanti fino al 1912, questo testo lo consiglio vivamente. Si noti che anche l’articolo sul moto browniano dell’anno seguente, è il proseguimento di questo programma: dal calcolo del numero N di Avogadro si può risalire alla costante k di Botzmann.

(797) Bibl. 169, pag. 66.

(798) A questo proposito, afferma Tarsitani (bibl.l70, pag.302, che Einstein, “partendo da proprietà macroscopiche accertate sperimentalmente, tende a dedurne proprietà strutturali del sistema considerato. Questa inversione caratteristica di Einstein esprime probabilmente la maturazione del convincimento che le basi teoriche della fisica contemporanea hanno un carattere insufficiente e provvisorio“. In effetti i metodi della meccanica statistica, a partire dalla Teoria Cinetica, presuppongono la partenza da stati microscopici per arrivare alla comprensione di quelli macroscopici. Qui sta l’inversione di Einstein che rende ben conto del suo voler produrre una fisica dei principi.

(799) Citato in bibl. 164, pag. 40.

(800) Annalen der Physik, 17; 1905; pagg. 549-560.

(COI) Annalen der Physik, 17; 1905; pagg. 132-148. Una traduzione in italiano di questo articolo si trova in bibl. 171. Una traduzione in inglese si trova invece in bibl. 172.

(802) Bibl. 168, pag. 28. Si osservi incidentalmente che l’adesione di Einstein alle teorie di Mach è del tutto particolare. Come vedremo. Mach, nonostante le ripetute adesioni pubbliche di Einstein alla sua fenomenologia, coglierà il distacco completo di Einstein da essa e darà un duro giudizio sulla relatività (1913).

(803) Citato da Tarsitani; bibl.l70; pag.306. Notiamo incidentalmente, anche in relazione alla nota 785, che la termodinamica cui fa riferimento Einstein è la termodinamica fenomenologica di Clausius che, in qualche modo, assiomatizza i risultati precedenti e, dati i due principi, va a ricavarsi tutte le conseguenze particolari.

(804) Bibl. 130, pag. 48.

(805) Nel 1906, ed indipendentemente, una analoga dimostrazione sarà data anche dal fisico polacco M.. Smoluchowski (1872-1917).

(806) La cosa fu sperimentalmente realizzata dal fisico francese J. Perrin (1870-1942) negli anni 1908 e 1909.

(807) Bibl. 168, pagg.25-26. Anche il fisico tedesco M. Born (1882-1970) riconosce quanto qui è sostenuto (bibl. 168, pag. 112).

(808) Si veda in proposito il mio articolo pubblicato nel sito. Si noti che la motivazione ufficiale del Nobel che Einstein ricevette nel 1922 fa esplicito riferimento a questo lavoro. La relatività non è citata, probabilmente perché a quella data vi erano ancora molti scienziati che ne mettevano in dubbio uno dei postulati (quello della costanza di c per tutti gli osservatori in moto traslatorio uniforme).

(809) Si veda la nota 801. Noi ci riferiremo a bibl. 171. Si veda ibidem, pag. 45. Si noti che le questioni euristiche relative alle asimmetrie vengono dopo  che Einstein ha provato a rendere conto di vari fenomeni con tutta la fisica allora nota. Egli stesso, nelle sue Note autobiografiche, dice: “Ma tutti i miei tentativi di adattare le basi teoriche della fisica a queste nuove acquisizioni [effetto fotoelettrico, corpo nero, …] fallirono completamente” (bibl. 168, pag. 25).                           

(810) A meno che, e qui Holton non c’entra, non si parta dalla considerazione che qui si sta proprio cambiando punto di vista: si vanno a ricercare dei principi generali, per trovare i quali non bisogna entrare nel gioco delle ela borazioni fino all’ultima equazione, ma partire da presupposti differenti (anche se discutibili quanto si vuole).

(811) Ibidem, pagg. 45-46.

(812) Fluorescenza (proprietà di alcune sostanze di emettere luce di un colore diverso da quella incidente) o fosforescenza (quando la luce di fluorescenza dura qualche tempo).

(813) E’ l’effetto fotoelettrico.

(814) Ibidem, pag.46. Si noti che in questo modo, microscopicamente, svanisce il campo e conseguentemente il dualismo materia-campo.

(815) Ibidem.

(816) Dice Einstein,”Da qui in avanti considereremo la radiazione di corpo nero in base all’esperienza, senza stabilire nessuna ipotesi teorica nei confronti dell’emissione e della propagazione della radiazione.” (Ibidem, pag.52 )

(817) Ibidem, pag.57. Si veda quanto detto in proposito nella sezione Spettroscopia del paragrafo 2 del precedente capitolo, alla data 1905.

(818) Si noti che questo è un passaggio molto ardito. Si stanno confrontando caratteristiche corpuscolari con caratteristiche ondulatorie ! Si noti ancora che, come dice Einstein, per trovare questi risultati “non si è dovuta formulare alcuna ipotesi sulla legge che regola, il moto delle molecole“, ci si è solo serviti dei “metodi della termodinamica” [statistici]; (ibidem, pag. 61 ]

(819) Si noti che Einstein, dopo il valore numerico non pone unità di misura; queste ultime devono essere quelle date per ragioni dimensionali.

(820) L’identità di kb  con la costante h di Planck sarà riconosciuta da Einstein in un successivo lavoro del 1906.

(821) Ibidem, pag. 63. Si noti che là dove io ho scritto k Einstein continua a porre R/N.

(622)  Ibidem.

(823) Si noti che all’effetto fotoelettrico è dedicata una sola paginetta (su 16), l’ultima. Come osserva Hermann (introduzione a bibl.l71, pag.2l),”la validità della relazione di Einstein trovò assoluta conferma in epoca così tardiva che il fatto influì poco sulle discussioni riguardanti la fisica quantistica.” Le verifiche sperimentali si ebbero ad opera di: O.W. Richardson e C. T. Compton (1912); A.L. Hughes (1913); e soprattutto a R.A. Millikan (l9l6). Per chi volesse seguire lo studio dei lavori quantistici di Einstein ed in particolare i suoi lavori sui calori specifici, può leggere, oltre alla bibliografia già indicata (171, 172 e soprattutto 147), anche il testo 173 dove sono riportati gli articoli originali di Einstein, Debye, Born e Karman.

(824) Fatto degno di nota è che una delle poche citazioni che Einstein fa nel suo articolo è per il fisico tedesco P. Drude (1863-1906), il primo che applicò (1900) i concetti della meccanica statistica alla teoria degli elettroni di Lorentz per rendere conto dei fenomeni di conduzione nei metalli.

(825) Bibl. 169, pag. 66.   

2 – SULL’ELETTRODINAMICA DEI CORPI IN MOVIMENTO (1905)

        I due lavori di Einstein, sul moto browniano e sui quanti di luce, che abbiamo appena finito di discutere, furono presentati alla rivista Annalen der Physik tra il marzo ed il maggio 1905. Il 30 giugno dello stesso anno un nuovo lavoro doveva aggiungersi ai precedenti: Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento (826) E’ questo l’articolo nel quale Einstein introduce la  relatività. Ad esso se ne aggiungerà ancora un altro, “interessante conseguenza [dei] risultati della precedente ricerca“, nel settembre dello stesso anno: L’inerzia di un corpo è dipendente dal suo contenuto di energia? (827)   In questo lavoro, come elaborazione di quanto ottenuto nel precedente articolo, viene data una prima formulazione del principio di equivalenza tra massa ed energia. (828)

        Cominciamo con il discutere Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento.  

        La prima cosa che va ricordata è che Einstein non conosceva il lavoro di Lorentz del 1904 (si veda la nota 781 bis); occorre però aggiungere che se anche Einstein fosse stato a conoscenza di questo lavoro, nulla sarebbe cambiato nel giudizio di svolta radicale che il suo articolo ha rappresentato.

        Certamente poi non conosceva gli articoli di Poincaré sull’argomento , del 1905-1906 (essi erano stati inviati alle riviste contemporaneamente al suo).

         Infine egli non aveva che una conoscenza indiretta dell’esperienza di Michelson e Morley (attraverso i lavori di Lorentz del 1892 e 1895); ma anche qui vale il giudizio dato precedentemente per Lorentz: anche se avesse conosciuto questa esperienza nei dettagli non sarebbe cambiato nulla rispetto al suo approccio assolutamente originale e per la verità molto ardito.   (829)   

        Occorre poi sottolineare che l’articolo di cui si parla, e che comunemente va sotto il nome di articolo sulla relatività, è in realtà un articolo “sull’elettrodinamica dei corpi in movimento” nel quale si tenta un approccio radicalmente divergo ai problemi dell’elettrodinamica così come si ponevano nell’ultimo articolo di Lorentz sull’argomento (1895) conosciuto da Einstein. Come si ricorderà in quel lavoro ancora ci si muoveva al primo ordine di v/c e si cercava una soluzione del secondo ordine. La diversità radi cale della trattazione einsteniana sta nel tentativo (riuscito) di risolvere le questioni che si ponevano mediante la fisica dei principi. Egli infatti non entra in estenuanti e successive elaborazioni elettrodinamiche; non fa una fisica costruttiva tentando di “formare un quadro dei fenomeni complessi partendo da certi principi relativamente semplici“, da elementi ipotetici, in definitiva, di tipo riduzionista. Einstein cerca invece delle”proprietà generali dei fenomeni osservate empiricamente, principi dai quali vengono dedotte formule matematiche di tipo tale da valere in ogni caso particolare si presenti“. Come più volte ricordato, è lo stesso tipo di approccio che egli ha seguito nei suoi due lavori precedenti del 1905.

        Il problema principale per Einstein è la sua profonda insoddisfazione per le equazioni di Maxwell-Lorentz. (830)    Egli aveva provato più volte a correggerne gli errori mediante un approccio costruttivo, ma, come già detto, tutti i tentativi “fallirono completamente“. Nel caso particolare dell’elettrodinamica, quelle equazioni fornivano, come vedremo, risultati diversi se applicate a sistemi di riferimento diversi. (831) Inoltre, anche qui come nel caso dei quanti di luce, l’asimmetria esistente tra campi continui e cariche discrete è un prodotto della teoria degli elettroni che Einstein non si sente di accettare. Dice Einstein nelle Note autobiografiche:  (832)

Se si considera … la teoria, si resta colpiti dal dualismo insito nel fatto che il punto materiale in senso newtoniano ed il campo come continuo fisico stiano l’uno accanto all’altro come concetti elementari. L’energia cinetica e l’energia di campo appaiono sostanzialmente diverse. La cosa risulta tanto più insoddisfacente in quanto, secondo la teoria di Maxwell, il campo magnetico di una carica elettrica in movimento rappresenta l’inerzia. Ma allora, perché non tutta l’inerzia ? In questo caso rimarrebbe solo l’energia di campo, e la particella sarebbe semplicemente una zona di densità particolarmente elevata dell’energia di campo … ed il fastidioso dualismo sarebbe eliminato.”

          Infine non va dimenticato che le elaborazioni di Lorentz introducevano qua e là delle profonde modificazioni ai concetti fondamentali della meccanica. Ed allora, dato che si  procedeva  in silenzio ad una revisione della meccanica, perché non pagare questo prezzo ma al fine di ottenere dei principi più generali, magari andando ad una revisione più profonda della meccanica stessa ?    (833)

         Ma, a detta dello stesso Einstein, ciò che lo colpiva di più era proprio l’asimmetria che si presentava quando si applicavano le equazioni di Maxwell a differenti sistemi di riferimento. Abbiamo già detto che più volte  Einstein provò a modificare le equazioni di Maxwell-Lorentz. Egli tentava cioè di far rientrare la suddetta asimmetria cercando un apparato teorico, sia per i fenomeni ottici che per quelli elettromagnetici, nel quale solo avesse significato il moto relativo, un apparato teorico cioè che mantenesse immutate le equazioni nel passaggio da un riferimento ad un altro che fosse in moto traslatorio uniforme rispetto al primo. Nel portare avanti queste elaborazioni egli sempre più si era convinto che “né la meccanica, né la termodinamica potevano pretendere ad una validità assoluta“. Lo stesso Einstein ci dice che a poco a poco cominciò a “disperare della possibilità di scoprire le vere leggi attraverso tentativi basati su fatti noti“. Gli servivano dei principi -universali sull’esempio di quelli che governavano la termodinamica. Dove e come trovarli ? Dice Einstein nelle Note autobiografiche:  (834)

Dopo dieci anni di riflessione, un siffatto principio risultò da un paradosso nel quale mi ero imbattuto all’età di 16 anni; se io potessi seguire un raggio di luce a velocità c (la velocità della luce nel vuoto), il raggio di luce mi apparirebbe come un campo elettromagnetico oscillante nello spazio, in stato di quiete. Ma nulla del genere sembra sussistere sulla base dell’esperienza o delle equazioni di Maxwell. Fin dal principio mi sembrò intuitivamente chiaro che, dal punto di vista di un tale ipotetico osservatore, tutto debba accadere secondo le stesse leggi che valgono per un osservatore fermo rispetto alla Terra. Altrimenti, come farebbe il primo osservatore a sapere, cioè come potrebbe stabilire, di essere in uno stato di rapidissimo moto uniforme ?

Che significa il paradosso di Einstein ?

Se uno si muovesse alla velocità della luce, con un’ onda elettromagnetica, dovrebbe descrivere il mondo in un modo differente da chi è in riposo rispetto alla Terra, egli, vedendo solo l’oscillazione di un campo che non si propaga nel tempo, sarebbe in grado di decidere qual è il suo stato di moto rispetto all’etere (si sta muovendo con velocità c) violando in questo modo il principio classico di relatività; inoltre questo fatto non è previsto all’interno delle stesse equazioni di Maxwell. (835) E’ come se si avesse a che fare con la luce immobile e ciò è inammissibile poiché la stessa luce è definita proprio dalla sua frequenza di movimento. Insomma, come molto bene dicono Schwartz e Mc Guinnes, (836) se uno camminasse alla velocità della luce, non  vedendo la propria immagine riflessa in uno specchio (che la sua mano sostiene davanti al viso), sarebbe in grado di capire che cammina alla velocità della luce senza bisogno di guardar fuori; e ciò è negato dal principio classico di relatività di Galileo.

         A questo punto però conviene andare con ordine, prendendo l’articolo di Einstein e seguendolo passo passo.

         L’introduzione del lavoro contiene già tutti gli elementi che abbiamo discusso.

 – INTRODUZIONE

         L’articolo inizia così:   (837)

E’ noto che l’elettrodinamica di Maxwell – come essa attualmente viene d’ordinario concepita – conduce nelle sue applicazioni a corpi in movimento ad asimmetrie che paiono non essere aderenti ai fenomeni.

Ecco dunque che il primo motivo è l’insoddisfazione per la teoria di Maxwell, negli ultimi sviluppi di Lorentz, ed in particolare perché questa teoria origina delle asimmetrie. Di quali asimmetrie si tratta ?  

          Einstein non ricorre ad esemplificazioni sofisticate ma al più semplice dei fenomeni elettrodinamici, che risale a Faraday; il movimento relativo di un magnete e di un conduttore e le azioni elettrodinamiche che si producono tra questi due oggetti. Lo stesso Einstein dice:

Si pensi ad esempio alle interazioni elettrodinamiche tra un magnete ed un conduttore. Il fenomeno osservabile dipende qui solo dal moto relativo fra magnete e conduttore, mentre secondo il consueto modo di vedere sono da tener rigorosamente distinti i due casi che l’uno o l’altro di questi corpi sia quello mosso. Infatti, se si muove il magnete e rimane fisso il conduttore, si produce nell’intorno del magnete un campo elettrico di certi valori di energia il quale provoca una corrente nei luoghi ove si trovano parti del conduttore. Rimane invece fisso il magnete e si muove il conduttore, non si produce nell’intorno del magnete alcun campo elettrico, ma al contrario [si produce] nel conduttore una forza elettromotrice, alla quale non corrisponde per sé alcuna energia, ma che – supposta l’uguaglianza del moto relativo nei due casi considerati – dà occasione al prodursi di correnti elettriche della stessa grandezza e dello stesso percorso, come nel primo caso [avevano dato] le forze elettriche.”

Dicevamo che questa esemplificazione è semplice ma non altrettanto la sua interpretazione teorica, soprattutto in relazione all’asimmetria che essa comporta e di cui parla Einstein. Per cogliere il nocciolo del ragionamento, serviamoci della figura 41.   (838) Innanzitutto osserviamo che da sfondo alle due situazioni, nella teoria cui fa riferimento Einstein

     Figura 41

ed in particolare nella teoria di Lorentz, c’è un etere immobile che funge da sistema a cui riferire i singoli moti. Per cui nel primo caso preso in considerazione (figura 41a)  il conduttore risulta fermo rispetto all’etere mentre il magnete si muove con velocità v, sempre rispetto all’etere. Nel secondo caso (figura 41b) le situazioni, ancora rispetto all’etere, sono invertite. Facendo riferimento alle equazioni di Maxwell, nel primo caso, quando il magnete si sposta, origina una variazione dell’induzione magnetica B in tutto l’etere che circonda il magnete e  nel conduttore. Poiché varia B nell’etere, varia il flusso di B concatenato con il conduttore. Ricordando la terza delle equazioni di Maxwell (la 7 del  paragrafo 5 del capitolo 3) ad una variazione del flusso di B si accompagna un campo elettrico nell’etere che circonda il magnete. Le cariche (gli elettroni), in quiete nel conduttore, sono soggette alla forza originata dal campo elettrico (mentre non sentono alcuna forza magnetica poiché quest’ultima non si esercita su cariche in quiete) ed in definitiva tra i capi A e B del conduttore si  genera una differenza di potenziale. Sempre facendo riferimento alle equazioni di Maxwell, nel secondo caso, poiché il magnete è fisso ed è il conduttore che si sposta, la variazione dell’induzione magnetica B si avrà solo nel filo e non nell’etere circostante il magnete (caso del flusso tagliato). Quindi nell’etere non c’è una variazione del flusso di B e conseguentemente (per la stessa equazione di Maxwell precedentemente citata) non si originerà un campo elettrico nell’etere che circonda il magnete. Anche in questo caso però ai capi AB del conduttore si originerà una differenza di potenziale, ma questa volta di origine magnetica (forza di Lorentz). Questa differenza di potenziale, a parità di altri fattori, ha esattamente lo stesso valore che nel primo caso.  (839)

        Dall’esame di questa situazione,  risultano dei fatti che sono certamente previsti dalla teoria di Maxwell-Lorentz, ma che, altrettanto certamente, sono tali da creare, per Einstein, una inaccettabile asimmetria; anche se gli effetti sono gli stessi (si producono nei due casi differenze di potenziale uguali, a parità di altre condizioni) i fenomeni hanno una spiegazione fisica differente: in un caso la differenza di potenziale è dovuta ad una forza elettrica, nell’altro ad una forza magnetica.

        Poiché ciò che stiamo discutendo rivestiva grande importanza nel pensiero di Einstein  (840) è utile fare un’altra esemplificazione, del tutto simile a quella ora discussa ma più facilmente comprensibile.

        Supponiamo di avere due cariche elettriche q uguali poste ad una distanza r l’una dall’altra (per semplicità supponiamo che una di esse sia vincolata in modo tale che non possa muoversi). Un osservatore T, immobile rispetto al sistema costituito dalle due cariche, calcolerà, secondo le usuali leggi dell’elettrostatica, una forza F che agirà sulla carica mobile e diretta come in figura 42a (cariche dello stesso segno si respingono). Supponiamo ora che l’osservatore

T si sposti, con velocità u, nella direzione mostrata in figura 42b. Secondo il principio galileiano di relatività, tutto va come se T fosse immobile e fossero invece le cariche che si muovono alla stessa velocità di T ma in verso opposto (figura 42c). In questo caso, quindi, T osserverà due correnti parallele (una carica in moto costituisce una corrente elementare). Ora, secondo la legge di Ampère sulle azioni elettrodinamiche tra correnti, alla forza repulsiva F, che si aveva nel caso di azione elettrostatica (figura 42a), si deve sottrarre una forza attrattiva f (dovuta al fatto che correnti concordi si attraggono). In definitiva, un osservatore in moto dovrebbe calcolare (e calcola) una forza repulsiva F – f, minore della forza repulsiva F che lo stesso osservatore calcolerebbe (e calcola) quando è in riposo. E ciò vuol dire che le leggi dell’elettrodinamica danno risultati diversi per osservatori in moto relativo a velocità costante. Questo fatto può essere detto anche così: le leggi dell’elettrodinamica non sono invarianti per una trasformazione di Galileo. (841)

        Come rendere conto di tutto ciò ?

        Oltre a questo tipo di asimmetrie Einstein fa anche un vago riferimento ad altri fenomeni che probabilmente sono: l’aberrazione stellare, l’esperienza di Fizeau relativa alla misura della velocità della luce in due colonne di acqua fluente in versi opposti, (842) l’esperienza di Michelson-Morley, quella di Trouton-Noble. Bice Einstein:

Esempi analoghi, come pure i falliti tentativi di constatare un moto della Terra relativamente al mezzo luminoso, conducono alla presunzione che al concetto di quiete assoluta, non solo nella meccanica, ma anche nell’elettrodinamica, non corrisponda alcuna delle proprietà di ciò che si manifesta, ma che piuttosto, per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica, (843) debbano anche valere le stesse leggi elettrodinamiche ed ottiche, come appunto è stato dimostrato per le grandezze del primo ordine.

         Einstein inizia a costruire la sua fisica dei principi con l’affermazione che il concetto di riferimento assoluto non ha alcun significato né nella meccanica  né nell’elettrodinamica né nell’ottica. Piuttosto bisogna ammettere che tutte le leggi fisiche abbiano la stessa forma in tutti i sistemi inerziali. Non vi è quindi nessun sistema privilegiato in cui le cose debbano andare in un dato modo; al contrario tutti i sistemi inerziali, tutti quelli in moto relativo uniforme gli uni rispetto agli altri, sono equivalenti; in essi tutte le leggi fisiche devono essere le stesse. A questo punto Einstein dice:

noi vogliamo elevare questa presunzione … a presupposto fondamentale

ed in questo modo introduce il primo dei due principi che sono il fondamento della relatività, quello che va sotto il nome di Principio della relatività di Einstein. (844)   Come si vede, si tratta di una generalizzazione del Principio di relatività di Galileo a tutte le leggi della fisica.

        Subito dopo, a questo principio, Einstein ne aggiunge un altro:

[noi vogliamo] inoltre introdurre il presupposto, solo apparentemente inconciliabile con il precedente, che la luce nello spazio vuoto si propaghi sempre con una velocità determinata e indipendente dalla velocità del corpo emittente.” (845)

Si tratta del principio che va sotto il nome di Principio della costanza della velocità della luce, quello che più ha fatto discutere (si veda, ad esempio, quanto sostiene M. La Rosa – 1923 – in bibl. 186, pagg. 293-306).

        Da dove tira fuori questo principio Einstein ?

        Esso era comunemente accettato in tutte le teorie ondulatorie della luce (Fresnel, Stokes, Maxwell, Lorentz) ma, sempre, come principio applicabile ad un sistema che si trovasse in riposo rispetto all’etere. Probabilmente il fatto che un valore costante di c venisse fuori dalle più disparate misure fatte sulla Terra, non importa in quale direzione rispetto al presunto etere, unitamente al fatto che questo valore si ricavasse da elaborazioni teoriche sulle equazioni che regolano i campi elettromagnetici (si ricordi il lavoro di Weber e Kohlraush), convinsero Einstein ad assumere la costanza di c come principio generale. Inoltre, forse, influì su Einstein proprio la formulazione del primo dei due principi, quello di relatività; se, infatti, la Terra si considera come un sistema inerziale e su di essa le misure di c danno sempre lo stesso valore, e deve avere lo stesso valore per tutti gli altri sistemi inerziali (indipendentemente dallo stato di moto della sorgente per il fatto che anche dalle misure fatte sulla Terra risulta questa indipendenza, infatti c ha lo stesso valore sia quando è misurata da fenomeni astronomici, sia quando è misurata su sorgenti poste sulla Terra, e lo stato di moto di una sorgente sulla Terra è certamente differente dallo stato di moto, ad esempio, di un satellite di Giove).  (846)   Infine, e questo è il fatto più importante, Einstein, nei suoi tentativi di modificare le equazioni di Maxwell-Lorentz perché risultassero invarianti per sistemi di riferimento in moto traslatorio uniforme gli uni rispetto agli altri, deve essersi convinto che la condizione che si richiedeva era la costanza di c.

          Certo che questo principio, così formulato, doveva suonare male e, con Straneo, “forse sarebbe stato meglio porre in rilievo che la teoria dei gruppi imponeva l’adozione di una costante fondamentale e che questa per ragioni fisiche non poteva che essere la velocità della luce.” (847)

        Comunque stiano le cose, Einstein dice che questo secondo Principio appare inconciliabile con il primo. Perché ?  

        Perché, ammesso il Principio di relatività, sembrerebbe che debbano valere le trasformazioni di Galileo e, in particolare, la composizione delle velocità. Supponiamo allora ai accettare contemporaneamente il Principio dell”indipendenza di c dal moto della sorgente e la composizione classica delle velocità: se una sorgente si muove verso un osservatore con velocità v, il tutto equivale a sorgente immobile ed osservatore che si sposta verso di essa con velocità – v; l’osservatore misurerebbe allora una, velocità u = c + v e dalla conoscenza di c egli sarebbe in grado di ricavare v e cioè una velocità assoluta; questo fatto entrerebbe in contraddizione con il supposto Principio di relatività. E l’apparente inconciliabilità sta proprio qui: il Principio di relatività di Einstein non prevede le trasformazioni di Galileo e quindi non prevede quella composizione delle velocità. Assumendo nuove trasformazioni l’inconciliabilità sparisce e la c, oltre ad assumere un valore costante in tutti i sistemi inerziali, diventa una velocità limite, una velocità che non può essere superata in alcun modo. (848) Ciò che si vuol dire è che l’apparente inconciliabilità nasce dalle ordinarie definizioni di spazio e di tempo. Ammessi i due Principi di Einstein, occorre cambiare queste definizioni e conseguentemente le loro equazioni di trasformazione (quelle di Galileo) nel passaggio da un sistema inerziale ad un altro.

               Riassumendo, i due principi che Einstein pone a fondamento della sua elettrodinamica sono:

       1) Principio di Relatività: Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi inerziali animati di un moto rettilineo uniforme gli uni rispetto agli altri. Nessuno di questi sistemi inerziali è privilegiato.

       2) Principio di costanza della velocità della luce: La velocità della luce nel vuoto ha sempre lo stesso valore c in tutti i sistemi inerziali. Essa è indipendente dalla velocità della sorgente o dell’osservatore.

Egli dice?

Questi due presupposti bastano per giungere ad una elettrodinamica dei corpi in movimento semplice e libera da contraddizioni …

      E dell’etere, cosa ne è di questa misteriosa sostanza ?

L’introduzione di un etere luminoso si manifesterà superflua …

      Così, con un solo colpo di penna, Einstein si sbarazza di ciò che da più parti veniva indicato come il tormento della fisica. L’etere se ne va, sparisce il riferimento assoluto e lo spazio assoluto (cosa che d’altra parte era implicita nel primo principio assunto da Einstein).

              A questo punto sono dati i principi generali. Come intende proseguire Einstein ?

              Proprio come indicavamo qualche riga più su a proposito dell’inconciliabilità: a partire da una revisione dei concetti fondamentali della meccanica e, in particolare, della cinematica (si noti: revisione della meccanica e non dell’elettrodinamica). Egli dice:

La teoria da sviluppare si appoggia – come ogni altra elettrodinamica – sulla cinematica del corpo rigido, poiché le affermazioni di ogni teoria del genere riguardano rapporti tra corpi rigidi (sistemi di coordinate), orologi e processi elettromagnetici. Le non sufficienti considerazioni di questa circostanza sono la radice delle difficoltà con le quali l’elettrodinamica dei corpi in moto ha presentemente da lottare.”  

Per costruire una elettrodinamica consistente con i suoi due principi, Einstein parte quindi da una ridefinizione di lunghezze e tempi che sono alla base di qualunque processo di misura, anche di fenomeni elettromagnetici, e che nel passato sono stati dati troppo facilmente per scontati.

           Con ciò termina l’introduzione al suo articolo e passa a discutere, appunto, questioni di cinematica.                                                                        

NOTE

(826) Annalen der Physik, 17; 1905; pagg. 891-921. Una traduzione in italiano di questo lavoro si trova in bibl.174, pagg.479-504. A questa mi riferirò.

(827) Annalen der Physik,18; 1905; pagg. 639-641. Una traduzione in italiano di questo lavoro si trova in bibl. l74 pagg. 505-50 7. A questa mi riferirò.

(828) La famosa relazione E = mc2  sarà ricavata da Einstein in un lavoro del 1907 pubblicato nel Jahrbuch der Radioaktivität.

(829) Una breve considerazione la merita questo aggettivo. Einste in era quel che si dice un. outsider. Egli correva al di fuori degli ippodromi universitari e non doveva rendere conto al suo cattedratico. La parte predominante della sua formazione si era costruita al di fuori dell’Università. Era un autodidatta. Spesso non andava a lezione e si presentava a far esami con i preziosi appunti che gli passava il suo amico Grossmann. Il suo professore H. Weber una volta ebbe a dirgli “Lei è un giovane intelligente, ma ha un difetto. Non consente a nessuno di insegnarle qualcosa“.

      Per altri versi lo stesso Einstein riconobbe l’importanza di non stare dentro l’ambiente accademico; più volte egli sosterrà che la fisica, teorica la può far meglio un fontaniere o un ciabattino che possono dedicarsi a pensare ai problemi importanti senza l’ossessione di dover rendere conto della propria vita attraverso il susseguirsi di tante inutili pubblicazioni (e l’impiego all’Ufficio Brevetti era considerato da Einstein il suo essere ciabattino).

      Allo stesso modo dell’altro outsider, Faraday, Einstein può permettersi di rimettere in discussione i concetti più consolidati nel campo della fisica, e soprattutto gli stessi metodi che presiedono la ricerca. Così come sui quanti di luce, Planck non aveva avuto il coraggio di fare il passo decisivo, allo stesso modo né Lorentz né soprattutto Poincaré l’avevano fatto sul problema relatività. Questi due passi li fece Einstein.

      Si noti a parte che Planck per molto tempo avverserà la soluzione dei quanti di luce di Einstein. Al contrario Planck fu il primo fisico di fama che accettò e lavorò sulla relatività con importanti contributi (già nel 1906 e 1907 usciranno suoi articoli in proposito); tra l’altro, molto probabilmente, si deve a Planck, che stava nella redazione degli Annalen, se il lavoro di Einstein sulla relatività fu pubblicato.

(830) Dice Einstein nelle Note autobiografiche (bibl. l68, pag. 33): “ La teoria della relatività particolare deve la sua origine alle equazioni di Maxwell del campo elettromagnetico.” Ricordiamo che Einstein aveva trovato difettose le equazioni di Maxwell nella spiegazione del problema del corpo nero e dell’effetto fotoelettrico. Inoltre queste equazioni fornivano previsioni non corrette sulla pressione di radiazione.

(83l) Lo psicologo M. Wertheimer, amico di Einstein, scrive (citato da Hirosige; bibl. 124, pag.54): “ Se le equazioni di Maxwell sono valide rispetto ad un sistema, esse non sono valide in un altro. Esse dovrebbero essere cambiate … Per anni Einstein tentò di chiarire il problema studiando e cercando di modificare le equazioni di Maxwell. Non ebbe successo …

(832) Bibl. 168, pag. 20.

(833) Dice Tarsitani (bibl. 170, pag.304) che la situazione nella quale si trovava ad operare Einstein era la seguente: “Elettrodinamica e termodinamica entrano in contraddizione quando si tratta di affrontare il problema della radiazione termica, meccanica e termodinamica, entrano in contraddizione nell’interpretazione statistica della seconda legge …, meccanica ed elettrodinamica si scontrano sul piano del principio di relatività e della dinamica dell’elettrone.

(834) Bibl.168, pag. 28. Nella stessa pagina si trovano anche le citazioni precedenti senza indicazione bibliografica.

(835) Per due obiezioni a questo paradosso si veda bibl. 111,  pag. 350 (nota 8) e bibl.128, pagg. 300-301. Questo paradosso, a ben guardarlo, è un gatto che si morde la coda poiché dà già per scontata una delle affermazioni fondamentali della relatività, la costanza della velocità della luce per tutti gli osservatori.

(836) Si tratta di un bel lavoro a fumetti. Bibl. 175, pag. 191.

(837) Bibl. 174, pag. 479. Tutte le citazioni che seguiranno senza riferimento bibliografico sono tratte, salvo avviso contrario, da questo testo di bibliografia, da pag. 479 a pag. 504.

(838) Una discussione dettagliata dei due casi d’induzione si può trovare su La Fisica di Berkeley (bibl. 176, Vol II, pagg. 265-280).  Si noti però che questa trattazione dà già per scontata la non esistenza dell’etere.

(839) In questo caso la differenza di potenziale tra A e B nasce a seguito della forza di Lorentz (che abbiamo incontrato all’inizio del paragrafo 5 del capitolo 4). Si hanno infatti delle cariche (quelle che sono all’interno del conduttore) che si muovono all’interno di un campo magnetico. Queste cariche saranno soggette alla forza di Lorentz che risulta perpendicolare al piano formato dalla direziono del campo e da quella del suo spostamento. In particolare gli elettroni tenderanno ad accumularsi ad un estremo del circuito (finché non si raggiunga l’equilibrio con il campo elettrostatico che così si genera) dando così origine alla differenza di potenziale in oggetto.  

(840) Sul fatto che l’asimmetria in oggetto rivestisse per lui grande importanza è dimostrato anche da uno scritto inedito di Einstein (datato circa 1919) nel quale, tra l’altro, egli afferma che un’asimmetria dello stesso genere lo condusse alla Relatività Generale. Allo scopo si può vedere G. Holton, The American Scholar, Vol. 41, inverno1971-1972, pagg.  95-100 (bibl. 127, pagg. 306-307) .

(841) Se si osserva che tutto ciò che ci circonda è costituito da particelle cariche ci si rende conto che è impossibile distinguere la dinamica, dall’elettrodinamica. Ed allora, o si mette a posto l’elettrodinaniica, o si rinuncia al principio classico di relatività, o si costruisce una nuova meccanica. La strada che seguirà Einstein sarà, come vedremo, l’ultima.

(642) Nell’intervista scritta di Shankland ad Einstein, già citata, Einstein, oltre all’esperienza di Michelson-Morley di cui aveva una conoscenza indiretta, fa riferimento proprio all’aberrazione ed all’esperienza di Fizeau (bibl.120, pag.35). Si noti che, nella stessa intervista, Einstein sostiene: “Ciò che mi ha condotto più o meno indirettamente alla teoria della relatività era la convinzione che la forza elettromotrice che agisce su un corpo in moto in un campo magnetico non è altro che un campo elettrico.”  In questo modo, l’asimmetria, di cui abbiamo parlato prima, sparisce. Ma per ottenere questo occorreva, appunto, la teoria della relatività.

(843) Si sta parlando di sistema inerziali. E’ interessante osservare che questo concetto, oggi così diffuso e quasi indispensabile, fu introdotto solo nel 1885 dal fisico tedesco L. Lange (l863- ? ) nel suo lavoro Sulla formulazione scientifica della legge d’inerzia di Galileo. Egli propose di riferire la legge d’inerzia non più ad uno spirituale spazio assoluto ma, appunto, ad un sistema inerziale, ad un sistema di riferimento cioè rispetto al quale quella legge rimane valida (bibl .10, pag. 123).

(844) Si noti che il riferimento che Einstein fa (“… come è stato dimostrato per le grandezze del primo ordine“) mostra la sua conoscenza del lavoro di Lorentz del 1895 senza la parte – l’Appendice – in cui, con l’introduzione dell’ipotesi della contrazione, il fisico olandese mostrava di poter rendere conto dei fenomeni anche al secondo ordine. Si noti ancora che il cosmologo H. Bondi osserva: ” Sarebbe intollerabile che tutti i sistemi inerziali fossero equivalenti da un punto di vista dinamico, ma distinguibili mediante misure ottiche.” Si noti infine che un altro modo di enunciare il principio di relatività di Einstein è il seguente: ” Un osservatore che sia dotato di un moto traslatorio uniforme, non può decidere né con esperienze meccaniche, né con esperienze elettrodinamiche, né con esperienze ottiche, se egli si trovi in stato di quiete o di moto.

(855) Einstein, per la velocità della luce usa il simbolo V. Ho creduto opportuno sostituire questa notazione con quella, c, a noi più famigliare. Allo stesso modo ho operato per altre notazioni da noi oggi poco usate. In particolare, alla traduzione di Straneo di contemporaneità ho sostituito simultaneità. Si noti che, nelle ipotesi di Einstein, la velocità della luce deve essere indipendente sia dalla velocità del corpo emittente sia dalla velocità dell’osservatore, e ciò risulta chiaramente da un altro enunciato che Einstein fornisce per questo Principio nella stessa memoria (bibl  174, pag.482 ; è il punto 2 del secondo paragrafo della memoria in oggetto).

(846) Berkson fa rilevare che forse Einstein si costruì un’immagine dell’etere “come un lago e del sistema in moto come una barca a vela che si sposta in esso. Se ci sporgiamo e colpiamo l’acqua con un remo (sorgente luminosa), si emetteranno delle onde (luce) dal luogo dove abbiamo agitato l’acqua. La velocità delle onde cosi prodotte dipenderà dalla natura e dalla profondità dell’acqua (etere), ma non dalla velocità della barca attraverso l’acqua (velocità della sorgente).

 (847) Bibl. 174, pag.99. Su questo argomento torneremo più oltre, per ora si osservi che nel 1908 il fisico svizzero W. Ritz (1876-1909) elaborò una elettrodinamica fondata sul solo principio einsteniano di relatività, respingendo quindi la costanza di c in tutti i sistemi inerziali. Nella sua teoria (Annalen de Chimie et de Physique, 8; 1908) la luce era costituita da minuscole particelle (i quanti di luce introdotti da Einstein nel 1905) scagliate dalla sorgente in tutte le direzioni (l’analogo della teoria corpuscolare di Newton). Ebbene queste particelle hanno una velocità costante solo rispetto al corpo che emette la luce (e non, come in Einstein, in tutti i riferimenti inerziali). La teoria di Ritz, senza introdurre né tempo locale, né contrazioni, rendeva conto di tutti i fenomeni noti (compresa l’esperienza di Michelson). Solo nel 1939 fu scoperto da H.E. Ives, l’effetto relativistico Doppler trasversale che non si concilia con questa teoria mentre è in accordo con quella di Einstein. Ritz comunque non poté portare a termine il suo programma perché morì prematuramente nel 1909. Una discussione ad alto livello della teoria di Ritz è fatta da Pauli ( bibl, 179, pagg. 10-15 ).

(848) Avremo modo di soffermarci più oltre delle verifiche sperimentali della Relatività; per ora basti dire che la costanza di c e la sua indipendenza dalla velocità della sorgente o dell’osservatore, risulta con chiarezza da due fenomeni esemplari: la sua misura utilizzando come sorgente le stelle doppie e la sua misura dal decadimento della particella p° (pai zero).

3 – LA CINEMATICA E LA DINAMICA RELATIVISTICHE  (918)

 – INTRODUZIONE

         In tutto ciò che seguirà considereremo soltanto sistemi inerziali, sistemi sui quali è valida la meccanica di Newton.

         Scelto un sistema inerziale (con buona approssimazione e per un tempo breve la Terra può essere considerata un tale sistema), tutti quei sistemi in moto rettilineo uniforme rispetto ad esso, saranno anch’essi sistemi  inerziali.

         Il principio galileiano di relatività ci dice che nessuno degli infiniti sistemi inerziali è privilegiato, pertanto nessuno di essi potrà essere considerato come assolutamente in quiete. Al contrario, per semplicità, noi possiamo collocarci su uno qualunque di questi sistemi inerziali e considerarlo come se fosse in quiete relativamente a tutti gli altri che saranno animati di moto rettilineo uniforme rispetto ad esso. Chiameremo con S il sistema (di coordinate Oxyz) considerato in quiete rispetto a noi e con S’ (di coordinate O’x’y’z’) un altro qualunque dei sistemi in moto con velocità v rispetto ad S. Indicheremo poi con T un osservatore che si trovi sul sistema S e con T’ un osservatore che si trovi sul sistema S’. Più in generale, ogni grandezza senza apice sarà relativa a misure effettuate da S, mentre ogni grandezza con apice sarà relativa a misure effettuate da S’.

           I postulati fondamentali che saranno alla base di quanto diremo sono:

          1) PRINCIPIO DI RELATIVITA’: tutte le leggi fisiche hanno la stessa forma in tutti i sistemi inerziali.

2) PRINCIPIO DI COSTANZA DELLA VELOCITA’ c DELLA LUCE: la velocità della luce nello spazio vuoto ha lo stesso valore in tutti i sistemi di riferimento risultando indipendente dalla velocità del corpo emittente (per essa daremo il valore approssimato: c  =  300.000 Km/sec   =   3.108 m/sec   =  300 m/msec).

          Per il resto non daremo nulla per scontato: dovremo andare a vedere quali sono le conseguenze che questi due postulati comportano con l’osservazione che a tutt’oggi (1983) non sono mai stati smentiti dall’esperienza. Dovremo quindi ricostruire una fisica che discenda dall’ammissione dei due postulati precedenti, a partire dai concetti base posti tradizionalmente a fondamento della fisica.

         I problemi che in generale dovremo risolvere sono del tipo:

         – Siano dati i due riferimenti inerziali:

                 S in quiete,

                 S’ in moto rettilineo uniforme rispetto ad S.

           Supponiamo di conoscere la posizione (e cioè le coordinate) e la velocità di un oggetto in S, come si può calcolare la posizione (e cioè le coordinate) e la velocità di un oggetto in S’ ?

           Cerchiamo allora delle equazioni che trasformino le grandezze conosciute nelle grandezze cercate.

           Per semplicità ci riferiremo sempre ai due sistemi S ed S’ che si muovono uno relativamente all’altro mantenendo i loro assi rispettivamente paralleli in modo che l’asse O’x’ del sistema S’ scivoli lungo l’asse Ox del sistema S, nel suo verso positivo e con velocità v (problema unidimensionale). Secondo il principio di relatività tutto va come se l’asse Ox del sistema S scivolasse lungo l’asse O’x’ del sistema S’, nel suo verso negativo e con velocità -v.

        L’aver scelto spostamenti del tipo annunciato ci permetterà di porre y = y’ e z = z’.

– COME MISURARE IL TEMPO

        Abbiamo già detto che non dobbiamo dare niente per scontato, almeno per quel che riguarda la definizione dei concetti che sono alla base della fisica.Occorre dunque accordarci su di un metodo che ci permetta di misurare il tempo sia nei sistemi S ed S’, sia dal sistema S al sistema S’, sia dal sistema S’ al sistema S.

        Innanzitutto occorrerà disporre di orologi di assoluta precisione ed assolutamente identici. (919) La lettura diretta dell’orologio permetterà di dare il tempo di un dato luogo in un fissato sistema di riferimento: l’osservatore T di S leggerà direttamente il tempo sull’orologio che ha con sé e questo sarà il tempo del luogo di S in cui si trova T; analogamente per l’osservatore T’, esso opererà allo stesso modo per dare il tempo del luogo di S’ in cui egli si trova.

        E fin qui tutto è addirittura ovvio. L’unica cosa che può disturbare è forse la pignoleria delle specificazioni, lo scopo delle quali, d’altra parte, sarà chiaro più avanti.

        Supponiamo ora di trovarci su un dato riferimento S e di considerare in esso due luoghi A e B, distanti tanto da rendere impossibile il confronto diretto dei due orologi che ivi si trovano. Come si fa a sapere se i due orologi segnano lo stesso tempo? Possiamo pensare di disporre di un sistema televisivo a circuito chiuso: un dato orologio è inquadrato da una telecamera che invia le sue immagini ad un televisore che si trova vicino all’altro orologio; un’altra telecamera inquadrerà quest’ultimo orologio ed invierà le sue immagini ad un televisore posto vicino al primo orologio; già che ci siamo allarghiamo l’inquadratura di questa seconda telecamera in modo che essa riprenda, oltre all’orologio,   anche il televisore posto vicino ad essa (figura 44).

figura 44

         Se l’immagine ripresa dalla telecamera viaggiasse ad una velocità infinita non vi sarebbero problemi per stabilire l’accordo tra i due orologi. Basterebbe confrontare direttamente l’immagine televisiva con  l’orologio per sapere se i due orologi segnano lo stesso tempo. L’immagine viaggia però con una velocità grandissima ma finita, quella delle onde elettromagnetiche e quindi della luce. Ciò comporta che, riferendosi alla figura 44, un osservatore T che si trovi nel luogo A osserverà che i tre orologi che egli vede segnano tempi differenti: l’orologio 1 che egli ha di fronte segnerà un dato tempo; l’immagine 2 dell’orologio che si trova in B segnerà un tempo inferiore; l’immagine 3 dell’orologio che si trova in A, ripresa dalla telecamera B e quindi rinviata in A, segnerà un tempo ancora inferiore. Infatti: il tempo t1  segnato dall’orologio 1 è quello letto all’istante dell’osservazione; il tempo t2  segnato dall’immagine 2 è quello che segnava l’orologio di B quando, alcuni istanti prima (il tempo necessario alla luce per percorrere la distanza esistente tra B ed A), veniva ripresa la sua immagine dalla telecamera B; il tempo t3 segnato dall’immagine 3 è quello che segnava l’orologio in A quando, ancora alcuni istanti prima (il tempo necessario alla luce per percorrere la distanza esistente tra A e B due volte, andata e ritorno), veniva ripresa la sua immagine dalla telecamera A.

        Cosa potrà sostenere, riguardo al tempo, l’osservatore T ?

Che non c’è nessuna regola che permetta di sincronizzare i due orologi A e B, a meno di ammettere che la velocità di propagazione dell’immagine sia la stessa sia nel verso AB che nel verso opposto M, in accordo con il principio di costanza della velocità della luce.

        Ammesso ciò i due orologi A e B segneranno lo stesso tempo quando:

t2 – t1 = t3 – t2

quando cioè l’intervallo t2 – t1 di tempo necessario all’immagine per propagarsi da A a B è uguale all’intervallo t3 – t2 di tempo necessario alla immagine per tornare da B ad A.

        Ciò vuol dire che i due orologi A e B saranno sincronizzati quando:

   t2 = ½ (t1 + t3)

e cioè quando il tempo t2 che l’osservatore T legge sull’immagine 2 è la media aritmetica dei tempi letti sull’orologio 1 e sulla immagine 3.

        Questo metodo di sincronizzazione può essere assunto come generale per qualunque luogo di S distinto da A e B.

        Si può aggiungere che:

1) se l’orologio A è sincrono con l’orologio B, anche l’orologio B sarà sincrono con l’orologio A;

2) se l’orologio A e’ sincrono con l’orologio B e con l’orologio C, anche gli orologi B e C saranno sincroni tra loro;

3) quanto detto equivale ad aver ammesso che il rapporto esistente tra l’intero tragitto percorso dall’immagine della telecamera per andare da A a B e tornare da B ad A ed il tempo complessivo t3 – t1 necessario a coprire questo tragitto ci fornisce la velocità c della luce:

c = 2.AB/(t3 – t1)

        E’ evidente che, per il principio di relatività, le cose che abbiamo detto si applicano esattamente allo stesso modo per la sincronizzazione di due orologi che si trovano in due luoghi A’ e B’ di un sistema S’ in moto relativo uniforme rispetto ad S.

         Ritorniamo al sistema S. Il fatto che in esso si possano sincronizzare due orologi ci permette di dire che è possibile parlare di eventi simultanei in S. Se cioè nei luoghi A e B di S si producono due eventi, essi saranno simultanei, per un osservatore situato nel luogo C (che si trova a metà strada tra A e B), quando egli vede sui suoi televisori l’immagine dell’orologio A e quella dell’orologio B segnare lo stesso tempo.  

         Stiamo parlando di eventi simultanei. La cosiddetta simultaneità sembra un concetto non solo innocuo ma anche ovvio. Eppure si faccia molta attenzione ad esso. Fino ad ora abbiano visto che per un osservatore su S si può parlare di eventi simultanei su S a patto di disporre di orologi sincronizzati.

         Dato il principio di relatività, un osservatore che si trovi in un luogo C’, a metà strada tra due luoghi A’ e B’ di un sistema S’, potrà allo stesso modo parlare di eventi simultanei su S’ (a patto, anche qui, che si disponga di orologi sincronizzati).

         Si osservi che l’analisi che siamo andati sviluppando è quanto si poteva ricavare da semplici conoscenze di meccanica classica: il principio di relatività cinematico e dinamico lo si conosceva dai tempi di Galileo; il fatto che la luce viaggi a velocità finita lo si sapeva dai tempi di Roemer; la costanza di c in tragitti di andata e ritorno era comune alle varie teorie elettromagnetiche nell’ipotesi di trovarsi in sistemi di riferimento in riposo rispetto all’etere. La novità è nello sviluppare concetti che nell’ambito della meccanica non erano mai stati portati a compimento ed in particolare nell’introduzione degli osservatori dentro i fenomeni fisici (prima di Einstein, infatti, per parlare di eventi simultanei in due luoghi distanti A e B si sarebbe semplicemente detto di eventi che hanno luogo quando le lancette degli orologi che si trovano nei due luoghi segnano la stessa ora, senza che qualcuno pensasse di rilevare direttamente questo sincronismo).

– LA RELATIVITA’ DELLA SIMULTANEITA’

        Consideriamo i due riferimenti S ed S’ in moto relativo (rettilineo ed uniforme) l’uno rispetto all’altro. Ammettiamo, al solito, che S sia in quiete rispetto a noi e che S’ si muova con velocità v rispetto ad S. Per fissare le idee, supponiamo che S’ sia un vagone di un treno al cui centro si trovi un osservatore T’, ed S il marciapiede di una stazione su cui si trovi un osservatore T (figura 45). Sia poi: L una lampada che si trovi esattamente al centro del vagone; A’ e B’ le due pareti contrapposte, nel senso della lunghezza del vagone; A e B due lampade poste sul marciapiede della stazione ed equidistanti da T. All’istante t = t’ = 0, in cui iniziamo a considerare la situazione, le

  Figura 45

origini O ed O’ dei due sistemi coincidono come mostra la figura e, appunto in questo istante, si accenda la lampada L e le lampade A e B (queste ultime mediante un interruttore azionato da T).

        Per quanto abbiamo detto a proposito di eventi simultanei, l’osservatore T, che si trova in S, dirà che l’accensione delle lampade A e B è simultanea (la luce emessa da A gli arriverà simultaneamente alla luce emessa da B); l’osservatore T’, che si trova in S’ dirà che la luce proveniente dalla lampada L ha illuminato simultaneamente le pareti A’ e B’ del vagone.

        Fermiamoci a quest’ultimo fenomeno, osservato come simultaneo da T’, e cerchiamo di descrivere come lo stesso fenomeno è osservato da T.

         Per fare ciò occorre introdurre nella sua interezza il principio di costanza della velocità della luce, ricordando che questa, velocità è anche indipendente dalla velocità del corpo emittente (nel nostro caso la lampada L).

        Riferiamoci alla figura 46 che descrive la situazione ad un tempo t ≠ 0 e t’ ≠ 0.   (920).

 Figura 46

        Per T la luce della lampada L è stata emessa quando occupava la posizione L1 . Data la costanza di c questa luce si propagherà in tutte le direzioni con la stessa velocità indipendentemente dalla velocità della lampada (corpo emittente). Allora T non potrà far altro che osservare l’arrivo di questa luce prima sulla parete A’ del vagone e quindi sulla parete B’.  E questo perché, mentre la parete A’ va incontro alla luce emessa dalla lampada, la parete B’ si fa rincorrere dalla luce emessa dalla stessa lampada.  

        In definitiva, uno stesso fenomeno, percepito come simultaneo dall’osservatore T’, non risulta più simultaneo per un osservatore T. Prima però di trarre una conclusione più generale descriviamo come T’ osserva il fenomeno che T percepiva come simultaneo (l’accensione delle lampade A e B). Per fare ciò applichiamo il principio di relatività considerando il sistema S’ come se fosse in quiete ed il sistema S come se fosse in moto con velocità -v rispetto ad S’.  Riferiamoci alla figura 47 che descrive la situazione ad un tempo  t ≠ 0 e t’ ≠ 0.

     Figura 47

Per T’ le luci delle lampade A e B sono state emesse quando esse occupavano rispettivamente le posizioni A1 e B1. Anche qui, per il principio di costanza di c,  la luce emessa da A e B sarà  indipendente dalle velocità di A e B (corpi emittenti). Allora T’ non potrà far altro che osservare l’arrivo su T della luce emessa da A prima dell’arrivo della luce emessa da B e dovrà quindi concludere che la lampada A si è accesa prima della lampada B. Anche qui, mentre T si avvicina alla luce emessa da A, si va allontanando dalla luce emessa da B.

        Si può allora ancora dire che uno stesso fenomeno percepito come simultaneo dall’osservatore T,  non risulta più  simultaneo per un osservatore T’.

        Più in generale: eventi che risultano simultanei in un dato riferimento, non lo sono più quando sono osservati da un altro riferimento in moto relativo rispetto al primo.

          Ed,  in accordo con il principio di relatività, c’è perfetta reciprocità (se quest’ultima non ci fosse si sarebbe in grado di riconoscere lo stato di moto o di quiete di un dato sistema).

        Quali conseguenze immediate si possono trarre dall’importantissimo risultato della relatività della simultaneità ?

        Quando, ad esempio, vogliamo misurare la lunghezza di un’asta confrontandola con un regolo graduato noi facciamo l’ipotesi implicita ma necessaria che gli estremi del regolo debbano coincidere simultaneamente con gli estremi dell’asta da misurare. Ebbene questa operazione di misura per confronto è possibile eseguirla sempre su un dato riferimento nel quale, come abbiamo visto, ha senso parlare di simultaneità. Quando invece dobbiamo operare una tale misura da un sistema di riferimento S ad un sistema di riferimento S’, poiché ciò che era simultaneo in S non lo è più in S’, le misure dell’asta differiranno da quelle effettuate sull’asta a riposo in un dato riferimento.

        Analoghe considerazioni possono essere fatte per misure di tempo.

        Ma andiamo a vedere tutto ciò con maggiore dettaglio.

– LA RELATIVITA’ DEL TEMPO 

         Cerchiamo di ricavare alcuni risultati come conseguenza diretta di quanto fino ad ora discusso. Più avanti ritorneremo su di essi in un  modo più formale.

         Riferiamoci ancora all’esempio del vagone e del marciapiede e cerchiamo di seguire uno stesso fenomeno (l’emissione della luce da parte di una lampada) sia dal vagone che dal marciapiede. Per comodità grafica ci sarà utile un disegno nel quale le dimensioni del vagone sono modificate rispetto ai disegni precedenti (figura 48).

         Supponiamo che all’istante t =t’ = 0 le origini O ed O’ dei due riferimenti S ed S’ coincidano e che, in questo istante, la lampada L venga accesa. Il fenomeno da misurare è il tempo impiegato dalla luce per andare dalla lampada L all’osservatore T’ che si trova sul treno. Lo stesso fenomeno sarà  misurato e dall’osservatore T’ e dall’osservatore T che si trova sul marciapiede. Vediamo come opera l’osservatore T’ . Egli sa che il tragitto che deve percorrere la luce è d’

                                                Figura 48

 e sa inoltre che la luce viaggia con velocità c. L’osservatore T’ si fa un rapido conto con le leggi della meccanica che conosce e, molto facilmente, trova:

  Δt’  = d’/c             ->             d’  =  c.  Δt’

Cosa osserverà T ? Per comprenderlo occorre riferirsi alla figura 49.

Figura 49

Quando la lampada viene accesa essa occupa la posizione L1 . Nel tempo Δt che la luce impiega ad andare da L a T’, il vagone si sarà mosso con velocità v avendo percorso il tratto v Δt. In definitiva, per T, è come se la luce avesse percorso il tragitto obliquo d. L’osservatore T sa inoltre che la velocità della luce è c. Egli quindi per Δt troverà:

  Δt  = d/c         ->                    d  =c.Δt

In che relazione stanno Δ t’ e Δ t ? Basta considerare il triangolo rettangolo di vertici L1, L, T’, per trovare successivamente (teorema di Pitagora):

                              (LT’)2 = (L1T’)2 – (L1L)2         

                                   d’2  =  d– (v Δt)2                

                            (c Δt’)=  (c Δt)2  –  (v Δt)2         

                                            Δt’2    =   Δt2 (1 – v2/c2)                     

       (1)                          Δt =  Δt’ (1 – v2/c2)

Per capire cosa ciò significa occorre discutere il fattore (1 – v2/c2) . La quantità che sta sotto radice è nulla quando v=c . In questo caso, qualunque sia il tempo Δ t’ che misura T’, l’osservatore  misurerebbe un tempo Dt infinito. La quantità che sta sotto radice sarà negativa quando v>c. In questo caso avremmo un numero negativo sotto radice quadrata e quindi un numero immaginario (il tempo Δt sarebbe un tempo matematicamente immaginario e fisicamente privo di significato). Si può senz’altro concludere che, stando alle conoscenze attuali, è impossibile avere velocità v che superino quella c della luce. La radice dà per risultato il numero 1 quando v = 0, quando cioè si ha a che fare con due riferimenti in quiete l’uno relativamente all’altro. In questo caso la (1) diventerebbe Δt =  Δt’ e torneremmo al caso delle equazioni di trasformazione di Galileo. Più in generale risulta:

0  <   (1 – v2/c2)    1

e tanto più è alta v, quanto più dal valore 1 ci si avvicina al valore 0. Allora, cosa significa la (1) ?

Il tempo  Δt  misurato da T risulta maggiore del tempo Δt’ misurato da T’ e ciò vuol dire che il tempo, per l’osservatore T, trascorre più velocemente e, conseguentemente, per l’osservatore T’ più lentamente (dilatazione del tempo).

Di quanto Δt’ è minore di Δt ?

Dipende dalla velocità v con cui S’ si sposta rispetto ad S.

Facciamo un esempio numerico per capire l’ordine di grandezza di questa dilatazione del tempo. Consideriamo varie v:

v1 = 360 Km/h  =  0,1 Km/sec  ->    velocità di un’auto di formula 1

v2 = 3.600 Km/h   =  1 Km/sec  ->     velocità di un aereo supersonico

v3 = 36.000 Km/h  =  10 Km/sec  ->      velocità di una astronave

v4 = 650.000.000 Km/h ≈ 1 80.000 Km/sec ->   velocità dell’ordine di grandezza di quella della luce.

Risulta:

(1 – v12/c2)  ≈ 0,99999999999996   -> Δ t’ = 0,99999999999996  Δ t

(1 – v22/c2)0, 999999999996   ->  Δ t’ =  0,999999999996 Δ t

(1 – v32/c2)-½  ≈  0,9999999996   ->  Δ t’ =  0,9999999996 Δt

(1 – v42/c2)≈  0,8    ->    Δ t’  =  0,8   Δ t         

Si vede subito che nei primi tr casi considerati la dilatazione, che pure esiste, è cosi piccola da risultare praticamente non rilevabile mediante gli strumenti di cui disponiamo. Viaggiando invece ad una velocità dell’ordine di grandezza di quella della luce, quando T misura 10 sec, T’ misurerà 8 sec.

        E’ importante allora osservare che gli effetti di dilatazione del tempo hanno sensibilmente luogo solo per riferimenti in moto relativo con velocità dell’ordine di grandezza di quella della luce.

        E’ anche importante sottolineare che, per il principio di relatività, vale la reciprocità del fenomeno di dilatazione; poiché l’esempio del vagone e del marciapiede può essere inteso, cose già sappiamo, come vagone in quiete e marciapiede in moto con velocità – v, anche l’osservatore sul vagone vedrà il tempo dilatarsi nel riferimento del marciapiede.

        Avremo modo di tornare a discutere di ciò quando andremo a ritrovare la (1) mediante le trasformazioni di Lorentz e quando ci soffermeremo sul cosiddetto paradosso dei gemelli.

– LA RELATIVITÀ DELLE LUNGHEZZE

        Supponiamo che i nostri due osservatori T e T’ vogliano misurare la lunghezza del vagone su cui si trova T’.

        L’osservatore T’ opererà nel modo seguente:

– si sceglie come riferimento esterno un palo di sostegno dei cavi elettrici;

– misura quanto tempo Δ t’ è necessario affinché le due estremità del vagone passino attraverso il palo-traguardo di  riferimento;

– conoscendo la velocità v del vagone, calcola

  l’  =  v. Δt’

        L’osservatore T opererà nello stesso modo:

– si sceglie anche lui un palo di riferimento;

– misura il tempo Δ t necessario affinché le due estremità del vagone passino attraverso il palo-traguardo di riferimento;

– conoscendo la velocità v del vagone, calcola:

                     l  = v. Δt                        

        Ricordando la (1) e sostituendo il suo valore nella relazione precedente si trova:

 t  = v . Δt’ . (1 – v2/c2)

  e ricordando che   t’  =  v. Δ t’, la lunghezza l del vagone misurata da T sarà:

 (2)                                                  l  =  l’ . (1 – v2/c2)

E ciò vuol dire che misure di lunghezze effettuate da osservatori in moto o in quiete rispetto ad esse forniscono valori differenti. In  particolare un’asta rigida, che abbia una data misura di lunghezza quando è misurata in quiete, risulta contratta quando viene misurata in moto da un osservatore in quiete (la contrazione è nel verso del moto, le altre dimensioni non risultando modificate).

        Anche qui il principio di relatività assicura la perfetta reciprocità della contrazione per misure effettuate da riferimenti in moto relativo.

– LE TRASFORMAZIONI DI LORENTZ

        Consideriamo, al solito, due riferimenti S ed S’. Questa volta tratteremo il problema in modo unidimensionale, cosi come annunciato nell’introduzione, di modo che senz’altro potremo porre y = y’ e z = z’.

        Riferiamoci alla figura 50.

                                                       Figura 50

All’istante t = t’ = 0 le origini dei due riferimenti coincidano (O ≡ O’) come mostrato in figura 50. A questo istante dall’origine O di S venga emesso un fotone nel verso positivo dell’asse x. Dopo un tempo t ≠ 0 questo fotone si troverà in un punto P di ascissa x  = ct.

        Anche nel sistema S’ il fotone risulta emesso al tempo t = 0 e anche in questo sistema, dopo un tempo t’ ≠ 0, esso si troverà in m punto P’ di ascissa x’ = ct’.

        Poiché la velocità della luce è indipendente dalla velocità del corpo emittente (P ≡ P’) possiamo considerare la situazione in figura 51.

                                                Figura 51

        Come descrivono ciò le trasformazioni di Galileo ?

         Quali sono le formule che ci permettono di passare dalle coordinate di un riferimento alle coordinate di un altro riferimento ?

        Osservando S’ da S e ricordando che nelle trasformazioni di Galileo risulta t = t’, si ha (figura 51 ):

                                                  x’  =  x  –  vt

        Osservando S da S’ si ha (figura 51 ):

                                                    x  =  x’  + vt’

         Le trasformazioni di Galileo non tengono però conto della costanza di c. Dovremo allora considerare delle trasformazioni dello stesso tipo, nelle quali bisognerà  introdurre un fattore k da determinarsi.Si dovrà cioè avere:

                                                  x’  =  k(x – vt)  

(3)

                                                    x  =  k(x’ + vt’)

          I motivi per cui si sono scelte queste particolari relazioni sono due:

        1) la relazione lineare tra x ed x’, essendo la più semplice, è la più spontanea;

        2) quando k = 1 si riottengono immediatamente le trasformazioni di Galileo»

         A ben guardare questo secondo motivo implica che k deve dipendere dalla velocità in modo tale che, per piccole velocità (v << c), k risulti uguale ad 1. Inoltre, per il principio di relatività, dovrà risultare

                                                    k (v)  =  k (-v)

che vuol dire reciprocità nell’osservazione da un riferimento all’altro, reciprocità che era garantita dalle trasformazioni di Galileo (scambiando in ciascuna delle due trasformazioni x, x’, t, t’, v rispettivamente con x’, x, t’, t, -v, si ottiene ogni volta l’altra equazione).

        Per determinare il valore di k, ferma restando la verifica che dovremo fare sulla garanzia di reciprocità k(v) = k(-v) e sul fatto che si deve avere k = 1 per v << c, sviluppiamo le (3) cominciando con l’introdurre in esse i valori già trovati per x ed x’ (x = ct; x’ = ct’). Si ha:

                                                 ct’  =  k(ct – vt)

                                                  ct  =  k(ct’+ vt’)

e cioè:

                                                  ct’ =  k(c – v)t

                                                    ct  = k(c + v)t’

Moltiplicando membro a membro, si ottiene successivamente:

                                            (ct’)(ct)  =  [k(c – v)t][k(c + v)t’]      

                                             

c2t’t = k2t’t(c2 – v2)       

                                    1 = k2(1 – v2/c2)    

(4)                                        k = (1 – v2/c2)-½              (921)

Si può subito vedere che questo valore di k verifica le due condizioni richieste. E’ quindi questo il fattore correttivo da introdurre nelle trasformazioni delle coordinate di Galileo per ottenere le trasformazioni di Lorentz per le coordinate.

        Sostituendo la (4) nelle (3) si trova:

                             x’ = (x – vt).(1 – v2/c2)-½                                 

 (5)

                             x = (x’ + vt’).(1 – v2/c2)-½  

Ritorniamo ora alle (3) e proponiamoci di vedere cosa diventano le trasformazioni di Galileo per il tempo (t = t’ e t’=t). Iniziamo con il sostituire alla x’ che compare nella seconda delle (3) il valore di x’ fornito dalla prima delle (3). Si ha:  

x = k [k(x – vt) + vt’]    ->    

t’ = (x – k2v + k2vt)/kv    ->   

 t’ = k [t – (x/v)(1 – 1/k2)    ->

(osservando che 1 – 1/k2  = 1 – (1 – v2/c2) = v2/c2 , si ha):

  t’ = k [t – (v2/c2)x]               ->

[Si osservi che alla (6) si può arrivare anche risolvendo il sistema (5) rispetto alla variabile  t’]. 

        Con lo stesso procedimento ora visto (ma anche risolvendo il sistema (5) rispetto alla variabile t), sostituendo questa volta alla x che compare nella prima delle (3) il valore fornito dalla seconda delle (3), si trova   

E  questa  è  solo  un’ulteriore  verifica  del  principio  di  relatività.  Per ottenere la (7) bastava infatti sostituire nella (6) ai valori t’, t, x, v, rispettivamente i valori t, t’, x’, -v.

        Si può subito, anche qui, osservare che per piccole v (v << c) si ottiene subito la trasformazione di Galileo per il tempo (t = t’).

        Riassumendo, le trasformazioni di Lorentz possono essere cosi scritte:

            y’ = y

            z’ = z

                                                                    (8)

y’ = y

z’ = z

        Il primo gruppo delle (8) si riferisce a misure effettuate da S’, il secondo gruppo a misure effettuate da S.

        Useremo ora queste equazioni di trasformazione per ricavare alcuni risultati, a partire da quelli, come la dilatazione dei tempi e la contrazione delle lunghezze, già trovati per altra via.

NOTE

(918) Per quel che riguarda questo paragrafo non darò espliciti riferimenti bibliografici di volta in volta. C’è una letteratura cosi vasta che è praticamente impossibile riportarla tutta. Cercherò, soltanto di dire le cose nel migliore modo  possibile dei modi che sono stati ideati da altri ed in particolare tra i testi di bibliografia che vanno dal 187 al 227 (oltre, naturalmente, quelli già citati e cioè bibl. 91, 92, 94, 178, 180). A livello superiore sono i testi di bibl. dal 228 al 234 (oltre ai già citati 176 e 179). I testi 235 e 236, soprattutto il secondo, sono una utile rassegna dei vari esperimenti a sostegno della relatività, anche se non ne condivido l’impostazione didattica. I testi 239 e 240 si occupano di questioni filosofiche connesse con la relatività, mentre i testi 237 e 238 trattano di svariate verifiche sperimentali della teoria. Infine i testi dal 241 al 250 si occupano di questioni diverse attinenti la relatività.

(919) I migliori orologi attualmente a nostra disposizione sono i cosiddetti orologi atomici il cui principio di funzionamento si basa sull’oscillazione di determinati atomi (cesio) indotta per mezzo di onde elettromagnetiche di frequenza opportunamente scelta (in fase con una delle frequenze proprie dell’atomo stesso in modo da essere in condizione di risonanza). Per una trattazione semplice ed esauriente dell’argomento si veda bibl. 193 e 243. Si noti che disponendo di svariati orologi atomici solo dopo 150.000 anni essi daranno letture differenti in media di un secondo. Questa precisione può essere ulteriormente aumentata costruendo orologi atomici molto più costosi. Si noti infine che quando si parla di orologi identici si sottintende l’espressione quando sono confrontati in quiete.

(920) Quanto scritto non è casuale. Non possiamo infatti dire t =t’ ≠ 0 poiché non sappiamo nulla sui tempi t e t’ ed in particolare nulla sappiamo sul loro essere o meno uguali. Si ricordi che il criterio di sincronizzazione valeva per un dato riferimento e non per il passaggio da un riferimento ad un altro.

(921) Per la radice abbiamo considerato la sua determinazione positiva perché il segno negativo lascerebbe inalterati i risultati comportando solo una riflessione delle coordinate (un andamento, cioè, simmetrico rispetto all’asse delle velocità v).

NECESSITA’ DI UNA NUOVA DINAMICA

        Abbiamo visto che i postulati di Einstein modificano radicalmente  l’ordinaria cinematica. E’ evidente che anche la dinamica dovrà essere riformulata in conseguenza delle modificazioni cinematiche.

         Per capire questa affermazione possiamo fare una esemplificazione qualitativa.

        La seconda legge di Newton, come comunemente la si conosce, è nella forma seguente

                                                F  =  m.a.

        Proviamo ad utilizzarla così come è in questioni che invece necessiterebbero di una trattazione relativistica.

        Supponiamo di applicare una forza F costante ad un dato oggetto di data massa m. Questa massa acquisterà, una accelerazione costante a. La forza continui ad essere costante: l’accelerazione seguirà ad essere costante ed accelerazione costante vuol dire variazione costante di velocità nel tempo. In pratica il nostro oggetto aumenterà con continuità la sua velocità. Dopo un certo tempo, più o meno lungo a seconda dell’intensità di F, l’oggetto arriverà a possedere la velocità della luce; qualche istante dopo questa velocità verrà superata (se la forza imprime alla nostra massa un’accelerazione dell’ordine di quella di gravità, e cioè circa 10 m/s2, occorrerà circa un anno perché essa raggiunga la velocità della luce).

        Da questo banale ragionamento risulta evidente che la seconda legge di Newton, almeno in questa formulazione, non  è in accordo con il secondo postulato di Einstein (la velocità della luce non risulterebbe più una velocità limite).

        Proviamo ad usare un’altra definizione per la forza: la variazione della quantità di moto (p) nell’unità di tempo. Vediamo a cosa ci porta questa definizione in una visione non relativistica:

(15)                 F =  Δp/Δt  =  Δ(mv)/Δt  =  d(mv)/dt = dp/dt

[si tenga conto che negli ultimi due membri abbiamo eseguito un passaggio al limite].

        Nei passaggi intermedi della (l5) abbiamo il prodotto di una massa per una velocità (quantità di moto) sotto il segno D che indica variazione della quantità che segue. La velocità è una grandezza che può variare, la massa è rigorosamente costante (principio di conservazione della massa di Lavoisier): di conseguenza possiamo portare la costante fuori dal segno di variazione ottenendo:

  F = m (Δv/Δt) = ma

 ed in questo modo abbiamo ritrovato la seconda legge di Newton.  

         Ma questa era la relazione che non frizionava e, se ben si osserva, essa è ottenuta dalla precedente (variazione della quantità di moto nell’unità di tempo) per quel passaggio nel quale, ammettendo la sua costanza, portavamo la massa fuori dal segno di variazione. Già altre volte abbiamo avvertito che non bisogna dare nulla per scontato; facciamo così anche questa volta. Riprendiamo quindi la formulazione (15) e vediamo se essa funziona in una discussione qualitativa del primo esempio che abbiamo discusso (una massa sottoposta ad una forza costante). Ora anche la massa compare sotto il segno D di variazione; quindi, applicando una forza costante al nostro  oggetto, esso non dovrà necessariamente arrivare alla velocità della luce poiché ora c’è anche la massa che può variare in modo tale da compensare la mancata acquisizione, da parte dell’oggetto, di un aumento di velocità.

         Le cose potrebbero sembrar sistemate (a patto di rinunciare al principio di conservazione della massa): partiamo dalla (15) e tutto torna.

        Attenzione però ad una nuova difficoltà che si presenta. Fino ad ora abbiamo discusso la nostra esemplificazione nell’ipotesi implicita che l’oggetto sia in moto rispetto ad un riferimento in quiete (quello di noi che l’osserviamo). E se l’oggetto fosse in moto rispetto ad un riferimento S’ in moto con velocità v rispetto a noi (sistema S) che l’osserviamo ?

        In questo caso bisognerebbe tener conto anche della composizione delle velocità ed ancora ci troveremmo nella condizione di dover modificare la (15). Si può allora dire che se da una parte è vero che bisogna partire dalla (15) per una definizione della forza, dall’altra sarà necessario modificarla per far si che le leggi della meccanica, in accordo con il principio di relatività, siano le stesse in tutti i sistemi inerziali.

        Non e’ però agevole partire da una ridefinizione della quantità di moto tale che la nuova formulazione risulti invariante per una trasformazione di Lorentz (è chiaro che qualunque sia la nuova forma che daremo alla quantità di moto essa dovrà soddisfare il principio di relatività). Allo stesso modo non è possibile, ad esempio, partire dal principio di azione e reazione poiché in generale (a parte cioè le forze di contatto) questo principio implica forze agenti a distanza  e quindi la simultaneità tra due eventi che, come sappiamo, è relativa per eventi che si svolgono su riferimenti in moto l’uno relativamente all’altro. Dovremo quindi prendere in considerazione solo azioni istantanee a contatto (le azioni di campo ad esempio). Nel cercare le equazioni del moto dovremo sempre tener conto che per v << c si dovranno riottenere le leggi della meccanica classica confermate dall’esperienza (per v << c). Infine possiamo decidere a priori sulla validità o meno di alcuni principi fondamentali nella fisica classica (conservazione della quantità di moto, conservazione dell’energia, …), fermo restando che ogni risultato che troveremo dovrà essere controllato con l’esperienza, e cercare nuovi principi di conservazione (almeno: nuovi nella forma).  

        II fenomeno che si presta meglio a ricavare una nuova dinamica è quello dell’urto tra due masse.

        Classicamente sappiamo che in un sistema isolato i processi d’urto portano ad affermare la conservazione della quantità di moto (o terzo principio della dinamica). Questa conservazione, come abbiamo visto all’inizio di questo lavoro, è invariante per una trasformazione di Galileo. Inoltre un urto è un processo che, con ottima approssimazione, può essere considerato come istantaneo e non pone quindi problemi di simultaneità. Nell’urto poi la forza risultante è nulla e quindi non ci troviamo nella difficoltà annunciata di dover trovare direttamente equazioni di trasformazione per le forze.

        Inizieremo quindi a studiare dei processi d’urto nell’ipotesi che la conservazione della quantità di moto sia valida anche in una trattazione relativistica. Occorrerà trovare una formulazione per la legge di conservazione che sia invariante per una trasformazione di Lorentz (in accordo con il principio di relatività). Nel far ciò seguiremo, in parte, il procedimento sviluppato da Lewis e Tolman nel 1909 (Phil.  Mag, 18, 510).

IL PROSEGUIMENTO DEL PROGRAMMA RELATIVISTICO DI EINSTEIN

        Quanto abbiamo visto in quest’ultimo capitolo deve averci convinto che se da una parte Einstein prende le mosse dalle asimmetrie elettromagnetiche, dall’altra egli si pone sulla strada della formulazione di una nuova meccanica. Non sembra possa esserci dubbio che egli si muove sulla strada dei Kirchhoff, degli Hertz e dei Mach, più che su quella dagli Abraham e dei Kaufmann con i loro programmi elettromagnetici.

        E certo che, nel momento in cui il programma elettromagnetico sembrava essere il punto di rottura con la tradizione meccanicista, il tornare a riprendere la meccanica per modificarla ed aggiornarla doveva sembrare un’operazione alquanto reazionaria.

        In ogni caso i lavori di Einstein non caddero nel vuoto: da una parte si tentò con ogni mezzo di confutarli, dall’altra si iniziò a svilupparli e ad ampliarli con il contributo di un numero sempre maggiore di sostenitori.

        Qualche mese dopo la pubblicazione del secondo lavoro di Einstein del 1905 sulla relatività, W. Kaufmann pubblicò sugli Annalen i risultati di sue esperienze. (926)  Egli, all’inizio della sua memoria, affermava  (927):

 “Avanzo qui necessariamente il risultato generale delle misure che si descrivono nel seguito: i risultati delle misure non sono compatibili con l’ipotesi fondamentale di Lorentz ed Einstein”.

Secondo Kaufmann i valori che sia Lorentz sia Einstein assegnavano alle masse longitudinale e trasversale degli elettroni erano errati; le sue esperienze mostravano un notevole accordo con i valori calcolati da Abraham nell’ipotesi di pura massa elettromagnetica.

Fu Planck il primo ad intervenire a sostegno dei lavori relativistici di Einstein. Nel 1906 egli pubblicò due lavori. In uno di essi  (928)   mise in discussione la correttezza delle conclusioni, di Kaufmann a seguito dell’inattendibilità della precisione delle sue misure; nell’altro lavoro (929), come abbiamo già detto nel paragrafo 3 del capitolo precedente (vedi nota 884), corresse l’errore nel quale era incorso Einstein nel suo primo lavoro del 1905 e relativo al modo di ricavarsi le equazioni di trasformazione per la seconda legge [in breve: Einstein lavorava su F = m.(dv/dt) mentre Planck lavorò su  F = d(mv)/dt].

           Lo stesso Einstein intervenne nel 1907  (930) sulla stroncatura sperimentale del.suo lavoro ad opera di Kaufmann. Dice Einstein: (931)

si potrà affermare con certezza se esiste un errore sistematico insospettato o se i fondamenti della teoria della relatività non si accordano con l’esperienza, soltanto quando si disponga di un gran numero di osservazioni…”

e, con una affermazione che ha una valenza epistemologica più generale, aggiunge che le teorie di Abraham e Kaufmann hanno una piccola probabilità di essere corrette,

perché le loro ipotesi fondamentali rispetto alla massa degli elettroni in moto sono inspiegabili in termini di sistemi teorici che inglobino un insieme più ampio di fenomeni.”

Mentre Einstein si difendeva in questo modo, continuava a portar avanti il suo programma.

          Nel 1907 tornò ancora sull’equivalenza massa-energia (932). Egli prende in esame un sistema in cui abbiano luogo processi meccanici ed elettromagnetici e dimostra che la condizione per cui la sua relazione abbia validità è la conservazione del moto del baricentro del sistema. Nel 1907 affermò  (933)  che una dimostrazione generale della validità del suo principio ancora non si era potuta trovare perché i fisici erano ancora distanti dall’intendere il mondo in base al principio di relatività.

 Intanto in Gran Bretagna ci si cominciò ad occupare di relatività. Nel 1908 O.N. Lewis (1875-1946), utilizzando la teoria della pressione di radiazione, provò che un corpo, il quale assorda energia da radiazione, aumenta la sua massa in accordo con la relazione di Einstein.  (934) Nel 1909 G. N. Lewis e R.C. Tolman (1881-1948) ritornarono ulteriormente sul modo di ricavare la seconda legge della dinamica (935)  ad opera di Einstein. Infatti, nonostante il lavoro di Planck del 1906, era ancora necessario scrollarsi di dosso molte incrostazioni classiche. Il lavoro dei due fisici britannici fu molto importante poiché andò a ricavare l’intera dinamica sulla base del principio di conservazione della quantità di moto, a partire dalla cinematica delle trasformazioni di Lorentz. Non si usa più quindi la seconda legge ma la conservazione della quantità di moto. Essa viene assunta ad invariante relativistica e da essa si procede appunto a ricavare l’intera dinamica, compresa l’equazione del moto. Un criterio di controllo che viene introdotto dai nostri è la validità delle leggi classiche nel limite v << c.

        Sempre nel 1908 ancora Planck tornò sull’equivalenza massa-energia. (936)   

        Ed ancora in quell’anno, esperienze alla Kaufmann, realizzate con maggior cura dal fisico tedesco A. H. Bucherer, sembrarono confermare i lavori di Einstein e Lorentz.  (937)

        Nel frattempo nascevano i primi paradossi legati alla nuova meccanica relativistica. Furono proprio Lewis e Tolman a metterli in evidenza nel loro lavoro del 1909. Nel 1911 questi primi paradossi trovarono una spiegazione in un lavoro di A. Sommerfeld (1868-1951) e M. Von Laue (1879-1960). (938)

        In mezzo a tutte queste polemiche cresceva e si affermava la teoria della relatività. Essa era ormai entrata in tutti gli istituti di ricerca con piena autorità.

        Ma non si possono concludere queste pagine senza accennare ad uno dei contributi più importanti per gli sviluppi futuri, quello di H, Minkowskij (1864-1909) del 1908.  (939)

        Da quanto visto a proposito delle trasformazioni di Lorentz, dovrebbe risultar chiaro che i concetti di spazio (distanze, coordinate,…) non sono scindibili da quelli di tempo [si rivedano le stesse trasformazioni (8) e si noti come per trasformare la coordinata spaziale x’ occorre introdurre il tempo t e come per trasformare il tempo t’ occorre introdurre la coordinata spaziale x]. Che spazio e tempo siano legati insieme per definire un dato evento è poi ben noto anche nell’ambito della fisica classica, dove, per definire univocamente un dato evento, oltre alle coordinate spaziali x, y, z, del luogo in cui si verifica, occorre dare anche la coordinata temporale t dell’istante in cui ha luogo l’evento. Una particolare quaterna, ad esempio x1, y1, z1, t1 , denoterà un dato evento P1  ed un’altra quaterna, ad esempio x2, y2 , z2, t2, ne denoterà un altro P2.

         In uno spazio ordinario (euclideo) a tre dimensioni (x, y, z) la distanza al quadrato s2 tra due punti P1 = (x1 ; y1 ; z1 ) e P2 = (x2; y2; z2 ) è data da:  

(55 bis)                                s2 = (x2 – x1)2 + (y2 – y1)2 + (z– z1)2   

e se poniamo:

x2  – x1 = x  ;   y2 – y1 = y   ;    z2 – z1 = z

la precedente relazione si può scrivere:

(55)                                          s2 =  x2 + y2 + z2

che equivale ad aver considerato la distanza di un punto P = (x, y, z) dall’origine degli assi.

         Se ora vogliamo dare la lunghezza s2  per un altro qualsiasi riferimento (euclideo) con gli assi comunque orientati, le componenti x, y, z varieranno a seconda del riferimento rispetto al quale vogliamo dare s2 , ma sresterà invariante nel suo valore e nella sua orientazione.

           Quanto detto non è altro che l’affermazione dell’invarianza della lunghezza dei segmenti in uno spazio euclideo (che definisce la metrica di quello spazio) e, per altri versi, l’invarianza della lunghezza ed orientazione di un segmento per una trasformazione di Galileo. (940)

          Se invece di avere punti in uno spazio euclideo, abbiamo degli eventi, è possibile costruirsi una geometria rappresentativa, ad esempio, della distanza tra due eventi ? E’ possibile, in questa nuova geometria, trovare un elemento invariante che definisca una nuova metrica ? In parole molto povere è questo il problema che si è posto ed ha risolto Minkowkij  (941) costruendo una geometria in uno spazio a quattro dimensioni, espressione della teoria einsteniana della relatività.

          In analogia con quanto la (55) dice a proposito della distanza tra due punti, se dobbiamo calcolare la distanza tra due eventi P1 = (x1 , y1, z1, t1) e P2 = (x2 , y2 , z2 , t2) si può procedere nel modo indicato di seguito.

          Supponiamo che in un riferimento S, ad un dato istante t  =  t1 = 0, venga emessa dall’origine O un’onda luminosa (quest’onda venga emessa nell’istante in cui l’origine  O’ di un altro riferimento S’, in moto con velocità v rispetto ad S, coincide con l’origine O di S). Dopo un tempo t  ≠ 0 il segnale luminoso si troverà, in un punto P di S le cui coordinate soddisfano l’equazione:

(x2 + y2 + z2)1/2 = ct  ->

(56)                                           x2 + y2 + z2 – c2t2 = 0

la quale, più in generale, quando non si consideri più l’onda luminosa come partita dall’origine O degli assi ed al tempo t = 0, si può scrivere

(56 bis)                   (x2 – x1)2 + (y2 – y1)2 + (z– z1)2 –c2(t2 – t1)2 = 0      

Ebbene, data la costanza di c, si può facilmente vedere che la (56) è invariante rispetto ad una trasformazione di Lorentz mentre non lo è per una di Galileo. In S’ si ha allora:

            x’2 + y’2 + z’2 – c2t’2 = 0

e, anche qui, più in generale:

  (x’2 – x’1)2 + (y’2 – y’1)2 + (z’– z’1)2 –c2(t’2 – t’1)2 = 0

Si può allora assumere la (56) come elemento invariante che definisce la nuova metrica, di modo che la distanza tra due eventi P  e P  sarà ora data dalla quantità:

(57)                                   s2 =  x2 + y2 + z2 – c2t2

Si può anche andare oltre (ma noi non ci addentreremo su questa strada) ed introdurre la grandezza immaginaria u = i c t; con questa posizione la (57) diventa:

(57 bis)                               s2 =  x2 + y2 + z2 + u2   

e le cose vanno come se avessimo,a che fare con uno spazio a 3 + 1 dimensioni in cui, in luogo di considerare gli ordinari vettori a tre dimensioni, dovremo ora considerare dei vettori a quattro dimensioni o quadrivettori.

        Sembrerebbe tutto a posto e la possibilità di poter trattare la nuova geometria in perfetta analogia con quella euclidea sembrerebbe ovvia. Il fatto però che una delle coordinate (u) sia una grandezza immaginaria comporta delle grandi differenze. Vediamone qualcuna.

        Confrontando la (57) con la (56) si trova subito che, quando s = 0, risulta:

x2 + y2 + z2 = c2t2

relazione che, per come l’abbiamo introdotta, rappresenta il tragitto percorso da un’onda luminosa. Ciò vuol dire che ad una distanza s nulla tra due eventi non corrisponde necessariamente il fatto che i due eventi coincidano. Diamo allora ad s il nome di geodetica (per distinguere la distanza s ora introdotta dalla distanza s che in geometria euclidea era sempre rappresentata da un segmento di retta). Si può con ciò dire che la propagazione della luce avviene secondo una geodetica di lunghezza nulla e che la propagazione della luce è l’unico fenomeno caratterizzato da s = 0. Tenendo presente la (57 bis) si può affermare che tutti gli altri moti sono caratterizzati da s2 > 0 (nel caso, infatti, in cui risultasse s2 < 0 si avrebbe un risultato immaginario,  a conferma del fatto che non sono ammesse velocità superiori a quella della luce). Se si pensa poi al cammino che la luce segue nel passaggio da un mezzo ad un altro con indici di rifrazione differenti, si trova che la linea più breve unente due punti nei due mezzi non è la retta ma la geodetica. Ciò vuol dire che mentre nella geometria euclidea la retta era il cammino più breve tra due punti, nella nuova geometria è la geodetica che gode di questa proprietà.

         Dicevamo che abbiamo ora a che fare con uno spazio a 3+1 dimensioni, e diciamo 3+1 e non 4 per dare il senso della distinzione esistente tra spazio e tempo contemporaneamente a quello della loro interdipendenza. Questo continuo spazio-temporale a 3+1 dimensioni fu chiamato da Minkowski, universo.  (942) Un evento in questo spazio prende il nome di punto d’universo. La linea che segue l’evoluzione temporale di un dato punto in questo spazio si chiama linea d’universo. Un piccolo tratto s di una linea d’universo è la già nota geodetica.

        II principio di relatività di Einstein può allora essere enunciato nel modo seguente: una geodetica, data da un elemento di traiettoria e dal tempo impiegato a percorrerla, è invariante qualunque sia il riferimento rispetto al quale la si consideri.

        Come esemplificazione si può ricavare la contrazione delle lunghezze utilizzando i diagrammi di Minkowskij nell’ipotesi di y = z = 0 (fatto che non modificherà la sostanza delle nostre conclusioni perché le trasformazioni di Lorentz, cosi come le abbiamo ricavate, ci dicono che y = y’ e z = z’ e ciò vuol dire che non si hanno modificazioni sugli assi y e z perpendicolari alla direzione del moto traslatorio preso in considerazione). Con questa posizione dovremo considerare uno spazio a due dimensioni x, ct (riferimento S) ed x’, ct’ (riferimento S’) cosi facendo il nostro spazio sarà rappresentato dall’asse x (ed x’) mentre l’universo sarà costituito dal piano x, ct (ed x’, ct’). Un moto uniforme a velocità v nell’universo x, ct sarà rappresentato da una retta non passante per l’origine degli assi, se al tempo t = 0 l’oggetto in moto occupava l’ascissa x = x 0; sarà invece rappresentato da una retta passante per l’origine, se al tempo t = 0  si aveva x  = 0 (figura 77).  (943)

Figura 77

Si noti che sull’asse delle ascisse dovrebbe figurare la quantità ct; per semplicità abbiamo utilizzato per x una unità di misura che rende uguale ad 1 la velocità della luce c; misurando infatti la x in secondi luce, c risulterà uguale ad un secondo-luce al secondo. Con questa posizione la bisettrice del 1° e 3° quadrante, rappresentata dall’equazione x = t, sarà la retta che ci fornisce la propagazione della luce (figura 78).

Figura 78

Poiché c è la massima velocità raggiungibile, questa retta sarà quella che avrà la massima pendenza tra tutte le possibili rette che si possono tracciare nel nostro piano.

Un altro sistema di riferimento S’ si muova rispetto al nostro sistema S (il sistema S è solo l’asse x !) con velocità costante v e a t  =  t’  = 0 risulti anche che le origini dei due riferimenti coincidano. Nel nostro universo (x, t) il moto del riferimento S’ sarà rappresentato da una retta passante per l’origine e con una pendenza tanto maggiore quanto più è grande la velocità di S’ rispetto ad S (ben inteso questa pendenza non potrà mai superare i 45°). Questa retta è la linea d’universo x = vt e può essere considerata come l’asse t’ dell’universo (x’, t’). Se vogliamo completare il nuovo universo delibiamo disporre di un asse x’. La condizione per costruire quest’asse è la costanza della velocità della luce che comporta che la retta che descrive la propagazione della luce (asse della luce) sia ancora bisettrice del nuovo universo. La costruzione cosi fatta è mostrata in figura 79. Chiediamoci ora:

Figura 79

Com’è possibile passare da un universo ad un altro? Quale fattore di proporzionalità lega i due universi? Riferiamoci alla figura 80.

Figura 80

        Consideriamo un’asta rigida di lunghezza OA situata immobile sull’asse delle x dell’universo (x, t). Le linee d’universo degli estremi O ed A di quest’asta saranno delle rette parallele (nell’universo in cui l’asta risulta in quiete la sua lunghezza non varia nel tempo). In particolare la linea d’universo di O sarà lo stesso asse t, mentre la linea d’universo di A sarà la retta x = a, parallela all’asse t, (più in generale, la linea d’universo di qualunque punto in quiete sull’asse x sarà una retta parallela all’asse t). Stando così le cose, su S’ l’asta avrà le sue estremità in O’ ed A’ (a t’ = 0). La linea d’universo di A’ sarà la retta x’ = a’, parallela all’asse t’; questa retta intersecherà l’asse t in A”, fatto che equivale a dire che A’ è osservato in A” dal sistema S (a t = 0). Se la lunghezza OA’ per l’osservatore su S vale:

OA’ = k.OA

la lunghezza OA”  varrà, per l’osservatore su S’:

OA” = k.OA’

Per il principio di relatività queste due lunghezze dovranno fornire una stessa misura. Si dovrà cioè avere:

(58)                                     OA” = k.OA’ = k.(k.OA) = k2.OA

Dal triangolo rettangolo OAA’ si può ricavare:

AA’ = OA.tgα

mentre dal triangolo rettangolo A’AA” si trova:

AA” = AA’.tgα

di modo che:

(59)                                            AA” = OA.tg2α

Dalla figura 80 e ricordando la (58) si trova poi:

(60)                              AA” = OA – OA” = OA – k2.OA = OA.(1-k2)

Confrontando la (60) con la (59) si ricava:

(61)                             tg2α = 1 – k2      ->         k2 = 1 – tg2α

Riferendoci ora alla figura 77 (quando ancora non avevamo posto c = 1 secondo-luce al secondo) la pendenza di una retta era data da v = tg α; con la posizione fatta a proposito dell’unità di misura di c, e quindi di x, si ha che (c numericamente vale 1):

v/c = tgα

Con questo risultato la (61 ) diventa:

 k2 = 1 – v2/c2    ->     k = (1 – v2/c2)1/2

In questo modo, se si indica con d la lunghezza, dell’asta nel riferimento in cui è in quiete (d = OA), la lunghezza dell’asta in moto, osservata da un sistema in quiete, risulterà (OA’ = k.OA -> d’  =  k.d):

d’ = d.(1- v2/c2)1/2

ed allo stesso modo si può procedere per trovare tutti gli altri risultati della relatività.  (944)

        Ma ora non ci interessa tanto soffermarci su questo punto guanto sottolineare la grande potenza che fornisce al calcolo la rappresentazione geometrica di Minkowskij, la completa portata non tanto della quale quanto del metodo geometrico indotto balzerà agli occhi nell’ambito degli sviluppi dell’altra relatività di Einstein, quella generale. (945)

        Dopo i lavori di Minkowskij il calcolo si protese sempre più a risolvere i problemi della nuova fisica. Vennero ripresi alcuni lavori del passato (1901) sul calcolo tensoriale e sulle trasformazioni affini di G. Ricci Curbastro (1853-1925) e T. Levi Civita (1873-1941); altri se ne realizzarono ad opera di A. Sommerfeld nel 1910, di G. Hessenberg (1917), di T. Levi Civita (1917) e B. Weyl (1918) soprattutto nel campo dei metodi geometrici.

        II lavoro di Einstein stava dando vita ad una messe di risultati inattesi. Si pensi ad esempio alla spiegazione che Sommerfeld riuscì a fornire della struttura fine degli spettri atomici (1916) mediante l’introduzione dei metodi relativistici nella trattazione del moto dell’elettrone intorno al nucleo (prendendo le mosse dal modello atomico di Bohr).

        Ma Einstein stava preparando una relatività che non fosse più limitata a sistemi di riferimento in moto rettilineo uniforme gli uni rispetto agli altri; una relatività, per questo chiamata generale, estesa a sistemi di riferimento dotati di un moto qualsiasi gli uni rispetto agli altri (introduzione delle accelerazioni). La relatività generale è insieme una teoria della relatività ed una della gravitazione. Essa fu costruita con contributi successivi di Einstein ma il suo corpo principale è in un lavoro del 1916. (946)

        Noi non ci occuperemo di quest’altro affascinante capitolo della fisica non ancora completamente scritto (a tutt’oggi si è all’affannosa ricerca delle onde gravitazionali). Semplicemente riporteremo alcuni brani dell’introduzione che Einstein appose al suo lavoro del 1916. Meglio di ogni altro discorso descrive i limiti della relatività ristretta e la necessità di una relatività generale.

        Nella prima parie del suo lavoro,  “Osservazioni sulla teoria della relatività ristretta“, Einstein dice:

 “La modificazione alla quale la teoria della relatività ristretta ha assoggettato la concezione dello spazio e del tempo è invero di vasta portata, ma un punto importante non è stato ancora sviscerato. Infatti le leggi della geometria, anche secondo la teoria della relatività ristretta, debbono venir interpretate direttamente come leggi che si riferiscono alle possibili posizioni relative dei corpi rigidi a riposo, e, più in generale, le leggi della cinematica debbono venir interpretate come leggi che descrivono le relazioni tra i campioni di lunghezza e gli orologi. A due prefissati punti materiali di un corpo rigido fisso corrisponde sempre una distanza che ha un valore ben definito, valore che non dipende dal luogo in cui si trova il corpo né dall’orientamento e che non dipende nemmeno dal tempo.

         Vedremo tra poco che la teoria della relatività generale non può rimanere fedele a questa semplice interpretazione fisica dello spazio e del tempo.”

        Fatte queste premesse, Einstein passa alle “Ragioni che esigono un’estensione del postulato della relatività.” Egli dice:

Nella meccanica classica vi è un innato difetto epistemologico, che fu chiaramente precisato (forse per la prima volta) da E. Mach, e che si ripercuote anche nella teoria della relatività ristretta.”

Quando ci troviamo in un riferimento S1  in rapida rotazione (sia questo riferimento una sfera) e ne osserviamo un altro S2 , anch’esso in rapida rotazione, esso ci apparirà in forma di un ellissoide di rivoluzione.

Qual è la ragione di tale diversità tra i due corpi ?

Se andiamo ad indagare ci accorgiamo che:

la sola risposta soddisfacente alla domanda formulata sopra non può avere che la forma seguente: il sistema fisico costituito da S1 ed S2 non rivela in se stesso nessuna causa immaginabile, alla quale possa farsi risalire il diverso comportamento di S1  ed S2 . La causa deve quindi risiedere al di fuori di questo sistema.

Si potrebbe pensare all’esistenza di altre masse, masse distanti (947), che modificano le forme di S1 ed S2  e che potrebbero essere assunte come causa principale o fittizia dei diversi comportamenti di S1 ed S2. Ora, poiché

di tutti gli spazi immaginabili R1, R2, … comunque in moto relativo gli uni rispetto agli altri, non ve ne è nessuno che possa essere considerato come privilegiato a priori, senza far risorgere l’obiezione epistemologica sopra citata, [e’ necessario ammettere che]:

Le leggi della fisica debbono essere di natura tale che esse si possano applicare a sistemi di riferimento comunque in moto.

Seguendo questa via giungiamo ad una generalizzazione della teoria della relatività”.

Supponiamo infine di avere un riferimento K rispetto al quale una data massa si muova di moto rettilineo uniforme. Supponiamo poi di avere un riferimento K’ in moto uniformemente accelerato rispetto a K.

Allora, relativamente a K’, una massa sufficientemente distante dalle altre masse avrà un moto accelerato tale che la sua accelerazione e la direzione di questa siano indipendenti dalla natura materiale e dallo  stato fisico della massa. Un osservatore in riposo rispetto a K’, può concludere che egli si trova su un sistema di riferimento realmente accelerato ? La risposta è negativa; infatti la relazione sopra citata delle masse liberamente mobili rispetto a K’ può essere interpretata ugualmente bene nel seguente modo. Il sistema di riferimento K’ non è accelerato, ma la regione spazio-temporale in questione subisce l’influenza di un campo gravitazionale, il quale genera il moto accelerato dei corpi rispetto a K’.

         Questo punto di vista ci è reso possibile in quanto l’esperienza ci insegna che esiste un campo di forza, il campo gravitazionale, il quale gode della notevole proprietà di imprimere la medesima accelerazione a tutti i corpi. Il comportamento meccanico dei corpi rispetto a K’  è lo stesso di quello che si osserva in presenza di sistemi che siamo soliti considerare a riposo oppure privilegiati. Quindi dal punto di vista fisico, l’ipotesi suggerisce essa stessa prontamente che i sistemi K e K’ possono entrambi con egual diritto essere considerati a riposo, vale a dire che essi hanno egual diritto di venir scelti quali sistemi di riferimento per la descrizione dei fenomeni fisici.

         Si vede da queste considerazioni che nell’istituire la teoria della relatività generale saremo condotti ad una teoria della gravitazione, in quanto siamo capaci di produrre un campo gravitazionale semplicemente cambiando il sistema delle coordinate. Si vede altresì che il principio di costanza della velocità della luce nel vuoto deve venir modificato , in quanto si constata facilmente che la traiettoria di un raggio di luce rispetto a K’ deve essere in generale curvilinea, se rispetto a K la luce si propaga lungo una linea retta con determinata velocità costante.”

Fatte queste premesse, Einstein avverte che sarà necessario abbandonare l’ordinaria geometria euclidea ed anche quella dello spazio-tempo di Minkowskij

per sostituirla con una concezione più generale, onde enunciare chiaramente il postulato della relatività generale, supponendo che la teoria della relatività ristretta si applichi al caso limite in cui sia assente il campo gravitazionale. “

Inoltre

nella teoria della relatività generale, lo spazio ed il tempo non possono venir definiti in modo tale che le differenze tra le coordinate spaziali possano venir direttamente misurate mediante il campione di lunghezza scelto come unità di misura, e la differenze tra le coordinate temporali possano venir direttamente misurate da un orologio campione.”

Quanto detto porta ad esigere il postulato di relatività generale:

Le leggi generali della misura debbono potersi esprimere mediante equazioni che valgano per tutti i sistemi di coordinate, cioè che siano covarianti a qualunque sostituzione (covarianti in modo generale).”

E da questo punto inizia l’elaborazione della nuova teoria che, praticamente, impegnerà Einstein fino alla morte (1955).

        Egli, prima di tutti e quando tutti entusiasticamente avevano accettato la sua teoria della relatività ristretta, si rese conto di alcuni difetti di essa (già dal 1908). La stessa definizione di sistema inerziale lo

lasciava scettico; questi sistemi, di difficile definizione e che comunque restano privilegiati, erano un qualcosa che non tornava all’esigenza, oltreché di simmetria, di equivalenza che aveva Einstein. Inoltre la gravitazione, sulla quale pure molti studiosi avevano lavorato e lavoravano da anni (si ricordi ad esempio Poincaré), non riusciva a trovar posto nella relatività ristretta. Infine l’identità, riconosciuta sperimentalmente, tra massa inerziale e gravitazionale (la cui distinzione fece per primo Galileo), non era in alcun modo prevista dalla teoria.

        Questi fattori contribuirono a spingerlo sulla strada della relatività generale. Per rendere conto dell’enorme portata di questo passo è interessante ricordare un aneddoto citato da Infeld. Il collaboratore di Einstein (Infeld, appunto) gli disse: (948)

Ritengo che la teoria della relatività speciale sarebbe stata enunciata con pochissimo ritardo, anche se non l’aveste enunciata voi

A questa affermazione Einstein rispose?

Si, è vero, ma non così per la teoria della relatività generale. Io dubito che sarebbe stata nota ancora oggi.

E ritengo credibile Einstein in questa osservazione.

        E’ interessante infine notare che anche nella formulazione della relatività generale Einstein utilizza il suo consueto metodo di ricerca di principi generali (in questo caso è inevitabile il bisticcio di parole).

Per sua stessa affermazione fu proprio l’equivalenza tra massa inerziale e gravitazionale, insieme alle insoddisfazioni che gli nascevano dalla relatività ristretta e che abbiamo appena ricordato, che lo condussero alla nuova elaborazione.  (949)

        Appena tre anni dopo la pubblicazione del suo articolo venne la prima prova sperimentale di quanto ivi sostenuto. L’astrofisico britannico A. Eddington (1882-1944), che seguì l’eclisse totale di Sole del 1919 all’isola di  Principe  (Africa Occidentale),  misurò uno  spostamento apparente delle stelle situate, al momento, dietro il Sole, a seguito del campo gravitazionale del Sole medesimo.  (950)  Un raggio di luce (quello proveniente da una stella) risultava incurvato quando passava vicino al campo gravitazionale del Sole.

        Altre verifiche vennero successivamente: spostamento del perielio di Mercurio, spostamento delle linee spettrali verso il rosso, rallentamento degli orologi ad alta quota rispetto agli orologi al livello del mare,… Ma, appunto, noi non ci occuperemo di tutto ciò  avvertendo soltanto che, a fronte dei molti successi, molti problemi si aprirono  con la relatività generale, soprattutto d’ordine cosmologico. Lo stesso Einstein lavorò, come già detto, fino agli ultimi anni della sua vita in un tentativo che aveva rappresentato il sogno della sua vita: il tentativo di costruire una “teoria del campo unificato“. Non vi riuscì e, a quanto sembra, ancora oggi siamo lontani dal possedere una teoria che riesca ad unificare, a comprendere in una teoria unitaria, le varie forze che conosciamo in natura (ed è ancora quella gravitazionale la più sfuggente).

        Per concludere il paragrafo e con esso il lavoro, non voglio ricordare la pur importante esperienza di vita di Einstein ma, mi si permetta, solo il suo costante impegno umano e civile che, se da una parte lo vide schierato in una strenua difesa del suo amato popolo ebraico (ma mai del Sionismo), dall’altra lo portò a concludere la sua vita, con un saggio dal titolo “Perché il socialismo“. (951)

NOTE

(926) W. Kaufmann – Sulla costituzione degli elettroni – Annalen der Physik, 19, 1906; pagg. 487-553.

(927) Citato da Holton (bibl. 127, pag. 187).

(928) M. Planck – Riguardo alle misure di Kaufmann sulla deviazione dei raggi  β… – Physikalische Zeitschrift, 7, 1906; pagg. 753-761.

(929) M. Planck – Il principio di relatività e la legge fondamentale della meccanica – Berichte der Deutschen Physilcalischen Gesellschaft 1906; pagg. 136 -141.

(930) A. Einstein – Sul principio di relatività e sulle conseguenze che da esso discendono – Jahrbuch der Radioaktivität und Elektronik, 4. 1907; pagg. 411-462

(931) Citato da Holton (bibl. 127, pag. 188).

(932) A. Einstein – II principio di conservazione del centro di massa e l’inerzia dell’energia – Annalen der Physik, 20, 1906; pagg. 627 – 633.

(933) A. Einstein – Il passaggio dal principio  di relatività all’inerzia dell’energia – Annalen der Physik, 23, 1907; pagg. 371-372. 

(934) G. N. Lewis, su Philosophical Magazine, 16, 1908 ; pag. 705.

(935) G. N. Lewis,  R. C. Tolman – Il principio di relatività e la meccanica non-newtoniana – Philosophical Magazine, 18, 1909; pagg. 510-523.

(936) M. Planck, su Berichte der Deutschen Physikalischen Gesellschaft, 10, 1908; pag. 728.

(937) A. H. Bucherer – Misure sui raggi di Becquerel. Conferma sperimentale della teoria di Lorentz e di Einstein -. Physikalischen Zeitschrift, 9, 1908; pagg. 755-762. Altre esperienze che confermarono ulteriormente i risultati precedenti furono realizzate da Bucherer nel 1909. Anche altri sperimentatori giunsero, negli stessi anni, alle stesse conclusioni.

(938) M. Von Laue, su Berichte der Deutschen Physikalischen Gesellschaft, 1911; pag. 513.

(939) H. Minkowskij – Spazio e tempo – Discorso pronunciato all’ ottantesima assemblea degli scienziati e dei medici tedeschi a Colonia (21 settembre 1908). Traduzione inglese in bibl. 131 pagg. 73-91. Un precedente cenno a quanto Minkowskij sostenne a Colonia era stato fatto dallo stesso autore in una comunicazione del 5 novembre 1907 all’Accademia di Gottinga.

(940) Ricordando le trasformazioni di Galileo (x’ = x – vt; y’ = y; z’ = z; t’ = t)  trasformando la (55 bis) per un riferimento S’, in moto con velocità v rispetto al riferimento S nel quale è data la (55 bis), si trova che s’2 =  x’2 + y’2 + z’2 ,  avendo posto  x’2 – x’1 = x’ ;   y’2 – y’1 = y’z’– z’1 = z’. Si può facilmente vedere che la (55) è invariante per una trasformazione di Galileo. Analogamente, se alla (55 bis) si applicano le trasformazioni di Lorentz (8), si trova che la (55) non è invariante per una tale trasformazione (si ricordi la contrazione delle lunghezze).

(941) Sviluppi importanti sulla strada aperta da Minkowski.j furono realizzati da Born con tre articoli del 1909 da P. Frank (1909); da A. Sommerfeld che ne fece una trattazione sistematica. (1910)

(942) L’universo è stato chiamato anche  “cronotopo” utilizzando una parola coniata da V. Gioberti nel 1857; la parola è stata ripresa da E. Troilo nel 1920 ed applicata alla relatività.

(943) Per quel che segue mi sono rifatto a bibl. 212.

(944) Per la dilatazione dei tempi e la composizione delle velocità vedi bibl. 212. Si tenga poi conto che il testo 196 di bibl. tratta tutta la cinematica in modo semplice con i diagrammi di Minkowskij. Molti altri testi dedicano poi svariate pagine all’argomento. Si può in  particolare vedere bibl. 94, pagg. 189-201 e bibl. 190 (articolo di O. Frisch).

(945) Anche se Einstein dovrà sostituire la geometria pseudoeuclidea (o iperbolica) di Minkowskij con quella sferica di Riemann.

(946) A. Einstein – I fondamenti della teoria della relatività generale – Annalen der Physik, 4, 49, 1916; pagg. 769-822. Traduzione italiana in bibl. 174, pagg. 509-559 (tutte le citazioni che seguiranno saranno tratte da questa traduzione). Lavori precedenti di Einstein che trattano in modo più o meno esteso delle questioni che saranno poi argomento del lavoro del 1916 sono del 1911 (Annalen der Physik, 4, 35, 1911; pag. 898), del 1914, insieme con M. Grossmann che si occupò della parte strettamente matematica (Zeitsch. Math. Phys., 63, 1914; pag. 215), del 1915 (Stzgsb. Ak. Berlin, 41, 1915; pagg. 778 ed 844).

Altri lavori seguirono poi quello del 1916; tra di essi ricordiamo:

Einstein – Il principio di Hamilton e la teoria della relatività generale – Sitz. Preuss. Akad. Wissenschaften, 1916; pagg. 1111-1116.

Einstein – Considerazioni cosmologiche sulla teoria della relatività generale – Sitz. Preuss. Akad. Wiss., 1917; pagg. 142-152.

A. Einstein – Generalizzazione della teoria della gravitazione – Appendice II  al volume di Einstein II significato della Relatività, Princeton, 1953 (quarta edizione). Questi ultimi tre lavori sono tradotti in italiano in bibliografia 174.

(947) Si noti che qui c’è un evidente riferimento alle masse nascoste introdotte da Hertz.

(948) Vedi bibl. 199, pag. 58. Si noti che l’oggi cui si riferisce Einstein è situabile intorno agli anni ’40.

(949) Quanto qui riportato è sostenuto da Einstein in una lettera al suo amico Besso del 28 agosto 1918 (citata da Holton in bibl. 127, pag. 179).  In conclusione del lavoro non si possono non ricordare anche gli enormi contributi dati da Einstein alla teoria dei calori specifici dei solidi ed alla formulazione delle statistiche quantistiche  (statistica di Bose-Einstein).

(950) II fenomeno è osservabile solo durante una eclisse totale di Sole, poiché allora risultano visibili le stelle che si trovano dietro il Sole. Si noti che la deflessione del raggio di luce risulta dal confronto con la posizione delle stelle, ad esempio di notte, quando il Sole non si trova più lungo la congiungente la stella con la Terra.

(951) II saggio fu scritto nel 1944 per la rivista Monthly Review (New York). Esso è riportato nella sua traduzione in italiano in bibl. 161, pagg. 225-233.



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