LA RELATIVITA’ DA NEWTON AD EINSTEIN 8. TENTATIVI DI ACCORDARE TEORIA E FATTI SPERIMENTALI (senza rinunciare all’etere). LORENTZ, POINCARE’, HERTZ.

Nel lasso di tempo che va, da 1880 al 1890, l’ottica e l’elettrodinamica dei corpi in movimento acquistano rilevanza nell’ambito della ricerca fisica.

        Le esperienze di Hertz fornivano una base sperimentale alla teoria di Maxwell, al campo elettromagnetico, alla teoria elettromagnetica della luce, all’azione a contatto propagantesi con velocità finita. Le stesso Hertz aveva mostrato che, nel suo modo di derivare le equazioni di Maxwell, queste ultime risultavano invarianti rispetto ad una trasformazione di Galileo.

        Per altri versi la teoria del trascinamento parziale dell’etere elaborata da Fresnel sembrava rendere conto dei vari fatti sperimentali, pur ponendosi in contrasto con l’ipotesi del trascinamento totale riproposta da Hertz sulle orme di Stokes.  Ma la teoria di Fresnel era in grado di rendere ragione solo di effetti al primo ordine del rapporto v/c (altrimenti detto costante di aberrazione).

        Gli esperimenti di Michelson, al secondo ordine del rapporto v/c, sembravano contraddire l’ipotesi di un trascinamento parziale ed affermare l’ipotesi del trascinamento totale che a sua volta si trovava in gravi difficoltà nella spiegazione del fenomeno dell’aberrazione. Oltre a ciò il trascinamento totale di Stokes risultava inconsistente ad una attenta analisi fattane da Lorentz.

        In definitiva, da una parte la teoria elettromagnetica aveva mostrato la sua capacità di spiegare e predire vari fatti sperimentali, dall’altra proprio l’elaborazione della teoria in connessione con nuovi fatti sperimentali faceva sorgere il problema di un inquadramento in una teoria più generale che rendesse conto di quanto di nuovo emergeva e di quanto era solo postulato nelle teorie precedenti. Era ancora l’indeterminatezza logica della teoria di Maxwell che apriva ampi spazi all’elaborazione teorica.

        In questo contesto e nell’ambito della scuola continentale iniziò a lavorare il fisico olandese H.A. Lorentz.

         Già nella sua tesi di dottorato, Riflessione e rifrazione della luce nella teoria elettromagnetica (1875), il cui argomento gli era stato suggerito da Helmholtz, egli mostrò uno spiccato interesse per la teoria di Maxwell che, allo stesso modo di Hertz, egli aveva appreso dai lavori di Helmholtz. Il problema che Lorentz affrontava non era privo di difficoltà; si trattava di ricavare le leggi della riflessione e rifrazione non più dalle teorie elastiche dell’ottica (Cauchy, Poisson, …), teorie che si presentavano come elaborazioni nell’ambito della meccanica, ma dalla teoria di Maxwell-Helmholtz. Le teorie elastiche, per rendere conto dei fenomeni di riflessione e rifrazione della luce, dovevano ricorrere a 6 condizioni le quali potevano essere soddisfatte solo ammettendo che, a lato delle vibrazioni trasversali, vi fossero anche vibrazioni longitudinali. Lorentz dimostrò che, ricavando quelle leggi dalla teoria elettromagnetica (con la sola ipotesi che la costante di polarizzazione del dielettrico fosse un numero molto grande), occorre tener conto solo di 4 condizioni i due per il campo elettrico e due per il campo magnetico. Queste condizioni possono essere soddisfatte con la sola ammissione di onde trasversali. In fin dei conti Lorentz mostrò che è più agevole ricavare le leggi dell’ottica dalla teoria elettromagnetica che non dalla meccanica (egli diceva che la teoria di Maxwell deve essere preferita alla vecchia teoria ondulatoria) riuscendo in questo modo a ridurre l’ottica, anche in modo analitico, ad un capitolo dell’elettromagnetismo.

        In questa fase Lorentz era ancora un sostenitore dell’azione a distanza (il Trattato di Maxwell era stato pubblicato da poco ed ancora mancavano più di 10 anni alle esperienze di Hertz). In ogni caso, per sua stessa ammissione, la sua adesione all’azione a distanza non era un dogma intoccabile. Egli affermava che la teoria discende dalle equazioni e non dall’azione a distanza: si trattava di scrivere queste equazioni cosicché esse descrivessero nel modo migliore la realtà e quindi arrivare a dedurle direttamente dalla considerazione di forze molecolari.

        Lorentz quindi già annunciava un ben chiaro programma: ricavare le equazioni di Maxwell in forma microscopica annettendo inoltre alle stesse equazioni un dato che trascendeva le modalità del loro conseguimento.

        In conclusione del suo lavoro del 1875 egli affermava (565) che “lo studio di altri fenomeni attraverso questa teoria si prospetta ugualmente fecondo per l’allargamento delle nostre conoscenze” e, passando ad esemplificare, Lorentz faceva riferimento: ai fenomeni della dispersione e della rotazione del piano di polarizzazione (effetto Faraday), al probabile rapporto tra forze meccaniche e fenomeni luminosi, all’influenza esercitata sulla luce dalle forze esterne e dal movimento del mezzo, ai fenomeni di emissione e di assorbimento, al calore raggiante.

             Come si vede si trattava di un ben vasto programma, ma quello che è più interessante per gli sviluppi futuri è che Lorentz si proponeva qui di stabilire “il modo in cui questi fenomeni sono connessi alla struttura molecolare” ed in particolare di ricercare un probabile legame tra emissione di luce e vibrazione di molecole, sede di oscillazioni elettriche. (566) E così Lorentz concludeva:

Lungi dall’avere acquisito una forma definitiva, la teoria di Maxwell indica piuttosto la necessità di giungere al chiarimento dei numerosi punti oscuri dei quali oggi non si può fornire che una spiegazione inadeguata.”

Rimane ancora da segnalare il ruolo giocato dall’etere in questo primo lavoro di Lorentz: esso comincia a venir separato dalla materia mediante l’ammissione che i corpi ponderabili non lo perturbano e che solo i corpi elettrizzati modificano le forze elettromotrici in esso presenti.

        Si comincia cosi ad intravedere la futura teoria di Lorentzt particellare da una parte e di campo dall’altra. Occorrerà però fare ancora molta strada, continuando a ricavare dalla teoria di Maxwell le leggi che regolavano altri, diversi fenomeni.

        Nella sua memoria Sulle relazioni tra la velocità di propagazione della luce e la densità e composizione dei mezzi (1878), egli tornò ad occuparsi ancora della riduzione dell’ottica all’elettromagnetismo, con il tentativo di elaborare una teoria delle proprietà ottiche della materia come conseguenza della teoria elettromagnetica. Egli trovà oosì la prima giustificazione teorica alla formula della dispersione della luce (che era fino ad allora completamente non spiegata dalla teoria di Maxwell) e poiché allo stesso risultato era pervenuto (l869) anche il fisico danese L.Lorenz (del quale ci siamo occupati nel paragrafo 3 del capitolo III) la formula della dispersione in oggetto fu chiamata di Lorenz-Lorentz.   (567)

         Ma, al di là di questo successo, che pur sempre più lo sosteneva a proseguire sulla strada dell’interpretazione dei vari fenomeni fisici mediante la teoria di Maxwell-Helmholtz, occorre sottolineare il modo con cui Lorentz riuscì a conseguirlo. Egli non considerava più allo stesso modo il comportamento dielettrico dell’etere e della materia ponderabile, così come faceva Maxwell. Ora il solo vero dielettrico era l’etere. E, poiché “lo spazio fra le molecole deve essere considerato pieno di etere“, di cui le stesse molecole sono imbevute, allora il comportamento dielettrico dei corpi ponderabili diventava una conseguenza dell’interazione tra i campi nell’etere e le particelle materiali cariche che facevano parte del corpo ponderabile in considerazione. Quando un’onda luminosa entra in un corpo ponderabile essa pone in oscillazione le particelle cariche ivi presenti. Queste particelle vibreranno con una frequenza propria originando, ciascuna, una piccola onda. L’interferenza di tutte queste onde elementari tra di loro e con l’onda incidente origina una onda risultante che risulta modificata rispetto a quella incidente. In modo ancora più preciso, si può dire che Lorentz supponeva la materia come costituita da molecole e che cambiamenti sullo stato elettrico di queste molecole influivano sulla polarizzazione dell’etere. Se ora una molecola è dotata di un momento elettrico di dipolo, essa indurrà una polarizzazione in ciascun punto dell’etere che a sua volta indurrà una forza elettromotrice. A questo punto Lorentz supponeva che all’interno di ogni molecola vi fosse una particella carica dotata di massa. La luce che interagisce con la materia genera un momento elettrico di dipolo nelle molecole, mettendo in moto le masse delle particelle. Una forza elastica di richiamo tende poi a riportare le particelle cariche nelle loro posizioni di equilibrio. E così il processo continua fin quando la luce interagisce con la materia. Ed ecco, in conclusione,che le particelle cariche che si trovano sulla materia hanno influito sulla propagazione della luce ma solo mediante un meccanismo che vede la materia oggetto di azioni che si svolgono principalmente nell’etere. In questo modo i ruoli delle particelle materiali cariche e dell’etere venivano ad essere separati con un procedimento del tutto nuovo rispetto alle teorie precedentemente sviluppate. Oltre a ciò, si iniziava a parlare di campi microscopici, in qualche modo originati dalle vibrazioni di minuscole particelle cariche (quindi da particelle cariche accelerate). (568)    Infine l’etere, continuando a rimanere sede dei fenomeni elettromagnetici, iniziava a perdere le sue caratteristiche materiali poiché Lorentz faceva l’ipotesi che  “le proprietà dell’etere, ad eccezione che nelle immediate vicinanze delle particelle, sono le stesse del vuoto.” (569)

        A questo punto e per circa dieci anni, gli interessi di Lorentz si indirizzarono verso altri campi e principalmente verso problemi di teoria cinetica dei gas e termodinamica che, proprio in quegli anni, erano arrivate ad un elevatissimo grado di maturazione e completezza (si veda il paragrafo 7 del capitolo III). (570)  Si può avanzare l’ipotesi che proprio i successi che l’interpretazione microscopica in termini di corpuscoli aveva permesso di conseguire indussero Lorentz a sempre più convincersi, se non altro, dell’utilità della rappresentazione di altri fenomeni fisici in termini di particelle. D’altra parte, anche un suo illustre collega, Maxwell, pur avendo sostenuto nella sua opera principale, il Trattato, la teoria di campo con l’annessa azione a contatto, aveva poi lavorato con notevole successo in questioni di teoria cinetica. Oltre a ciò, certamente, un grosso influsso su Lorentz lo ebbe quella scuola continentale, che faceva capo ad Ampère, dei Weber,  Riemann, Clausius, L. Lorenz ed Helmholtz, e che sostituì ai fluidi elettrici le particelle cariche di elettricità positiva e negativa, fluenti in versi opposti con uguali densità e velocità. Già abbiamo visto infatti come fin dal suo primo lavoro Lorentz insisteva su particelle cariche presenti nella materia ponderabile, e questo fatto si andrà sempre più precisando negli anni successivi, soprattutto a partire dalla sua importante memoria del l892. (571)

        In questo lavoro, che segna la definitiva conversione di Lorentz all’azione a contatto e quindi più pienamente alla teoria del campo elettromagneti co di Maxwell ed Hertz, (572) comparve la prima elaborazione di Lorentz di quella teoria che più tardi sarà chiamata “teoria degli elettroni“. (573) Varie erano le motivazioni che il fisico olandese portava a sostegno del suo cambiamelo di punto di vista, ma i fatti che più influirono su di lui erano state certamente le esperienze di Hertz del 1888 (con le quali non solo si dimostrava l’esistenza delle onde elettromagnetiche ma anche che esse si comportavano esattamente come la luce dalla quale differivano solo per la frequenza) che, tra l’altro, gli confermavano l’idea, già precedentemente elaborata in embrione nel suo lavoro del 1886, di onde elettromagnetiche generate da cariche elettriche oscillanti (e quindi accelerate) e da Lorentz applicata nell’ambito microscopico.

         Ma Lorentz aveva anche ben presente l’elaborazione teorica di Hertz  e non ne era soddisfatto poiché in essa

Hertz non si preoccupa di stabilire una analogia tra le leggi elettomagnetiche e le leggi della dinamica … [mentre] si è sempre tentati di ritornare alle spiegazioni meccaniche

(si ricordi che in Hertz le cariche elettriche erano quasi sparite per lasciar posto al solo campo). Oltre a ciò egli trovava insufficienti le teorie di Hertz poiché si fondavano su quel trascinamento totale dell’etere, alla Stokes, da lui stesso dimostrato inconsistente.

        Per altri versi molte lacune si presentavano nella stessa teoria di Maxwell. Ad esempio, in essa, senza alcuna spiegazione di carattere teorico, venivano introdotte delle costanti (costante dielettrica, permeabilità magnetica, conducibilità elettrica) che non si capiva bene da dove nascessero e che ruolo fisico o teorico giocassero (oltre al fatto che, alla fine, avevano la loro corretta sistemazione nelle equazioni).

         Secondo Lorentz, quindi, certamente “le concezioni di Maxwell possono servire di fondamento per la teoria cercata“, ma sarebbe stato necessario fare qualche cambiamento. Leggiamo direttamente il brano originale in quei passi in  cui viene stabilita la teoria degli elettroni nelle sue ipotesi fondamentali: (574 )

Mi è sembrato utile sviluppare una teoria elettromagnetica fondata sull’idea che la materia ponderabile fosse perfettamente permeabile all’etere e potesse spostarsi senza comunicare a quest’ultimo il minimo movimento … Purtroppo una difficoltà si presenta fin dall’inizio. Come farsi un’idea precisa di un corpo che, spostandosi in seno all’etere ed essendo conseguentemente attraversato da questo mezzo, è allo stesso tempo la sede  di una corrente elettrica o di un fenomeno dielettrico ?

La risposta a questo quesito seguiva immediatamente:

Per superare la difficoltà ho cercato, per quanto possibile, di ricondurre tutti i fenomeni ad uno solo, il più semplice di tutti, e cioè al movimento di un corpo elettrizzato … Sarà sufficiente ammettere che tutti i corpi ponderabili contengano un gran numero di particelle di carica positiva e negativa e che i fenomeni elettrici siano prodotti dallo spostamento di queste particelle.

Seguendo questo punto di vista una carica elettrica è dovuta ad un eccesso di particelle di un dato segno, una corrente elettrica è un reale flusso di questi corpuscoli e negli isolanti ponderabili ci sarà ‘spostamento elettrico’ quando le particelle elettrizzate che essi contengono sono allontanate dalla loro posizione di equilibrio.”

E’ tutto così chiaro da risultare superflua ogni ulteriore spiegazione. E’ invece interessante notare che per la prima volta veniva fornito un quadro esplicativo ed unitario dei diversi fenomeni elettrici. Certo che, come anche lo stesso Lorentz riconosceva subito dopo, varie volte ed isolatamente erano state avanzate delle ipotesi simili alle sue; per questo motivo egli sosteneva che:

” nella nuova forma che sto per darle, la teoria di Maxwell si avvicina alle vecchie idee [di Weber e Clausius].”

Subito dopo Lorentz affermava che però si poteva anche prescindere dal modo con cui le equazioni erano state ottenute: l’importante era il risultato e cioè le equazioni stesse. Passando poi ad un confronto della sua con le teorie di Weber e Clausius, egli scriveva:

Weber e Clausius consideravano le forze di interazione tra due atomi come dipendenti dalla posizione relativa, dalle velocità e dalle accelerazioni che questi atomi possedevano nel momento in cui si considerava la loro azione reciproca. Al contrario le formule a cui perverremo esprimono da una parte i cambiamenti di stato determinati nell’etere dalla presenza e dal movimento delle particelle elettrizzate; dall’altra esse indicano la forza con cui l’etere agisce su una qualsiasi particella.”

Il capolavoro di Lorentz si andava realizzando: egli riuscì a sintetizzare in un modo mirabile e semplice (almeno nella formulazione modellistica) le due principali teorie dell’elettromagnetismo, quella particellare della scuola continentale e quella di campo della scuola britannica; alle cariche elettriche veniva assegnato il ruolo di sorgenti del campo, la sede di quest’ultimo era l’etere (anzi l’etere sembra essere esso stesso campo), il campo così creato agiva a sua volta proprio sulle cariche che lo avevano generato, l’etere, pur rimanendo come indispensabile riferimento, scompariva come entità materiale: erano le grandezze elettromagnetiche del campo ad acquistare una realtà fisica.

        Ma come avveniva l’interazione tra etere (campo) e materia (cariche elettriche) ?

        Scriveva Lorentz:

” Se la forza [con cui l’etere agisce su una qualsiasi particella] dipende dal movimento delle altre particelle è perchè tale movimento ha modificato lo stato dell’etere; in questo modo, il valore della forza, in un dato istante, non è determinato dalla velocità ed accelerazione che i corpuscoli posseggono in quello stesso istante; essa dipende piuttosto dai movimenti che hanno già avuto luogo. In termini generali si può affermare che le perturbazioni eccitate nell’etere dal movimento di una particella elettrizzata, si propagano con una velocità uguale a quella della luce,

e quindi con una velocità finita, conseguenza dell’accettazione dell’azione a contatto.

          Tra le ipotesi fondamentali alla base della sua teoria Lorentz poneva:

Le particelle cariche saranno considerate come appartenenti alla ‘materia ponderabile’ che può subire l’azione di forze; tuttavia supporrò che in tutto lo spazio occupato da una particella ci sia anche l’etere, ed inoltre che uno spostamento dielettrico ed una forza magnetica, prodotti da una causa esterna, possano esistere come se la ‘materia ponderabile’ non ci fosse affatto. Quest’ultima è dunque considerata come perfettamente permeabile all’etere.

          II fatto poi che lo spostamento di particelle materiali cariche costituisce una corrente elettrica era ritenuto ragionevole dal nostro a seguito dell’esperienza di Rowland che aveva appunto dimostrato che il trasporto meccanico di una carica elettrica equivale ad una corrente.

         Con tutto questo apparato concettuale, Lorentz iniziò a lavorare applicando le equazioni di Maxwell (si badi bene: nella forma semplificata che gli aveva dato Heaviside, con alcune notazioni introdotte da Fitzgerald, con l’introduzione dei potenziali ritardati ed usando di alcuni risultati nel calcolo integrale ottenuti l’anno prima da Poincaré) alle supposte particelle cariche.

         Alle equazioni di Maxwell, ora ridotte a quattro, che descrivevano la situazione del campo e quindi dell’etere, Lorentz dovette aggiungerne una quinta che rendesse conto di un fenomeno impensabile nella teoria di Maxwell, dell’interazione elementare tra campo elettromagnetico e carica elettrica. Questa equazione, risultato di grande importanza e ancora oggi nota come forza di Lorentz (575) con simbolismo moderno si scrive:

dove F  rappresenta la forza che si esercita su una carica q in moto con velocità  v  all’interno di un campo elettromagnetico E e B con una direzione formante un angolo α con quella del campo magnetico B [nel caso in cui α risulti uguale a 90°, cioè la direzione del moto di q risulti perpendicolare a quella del campo B allora la formula diventa F = q(E + vB)]. Ed in pratica ciò vuol dire che le cariche q in moto sono sorgenti di forze dipendenti dalla velocità.

         L’applicazione di queste cinque equazioni alle particelle cariche in moto permise a Lorentz di conseguire risultati di notevole importanza tra i quali emerge in modo particolare la deduzione teorica del coefficiente di trascinamento di Fresnel proprio come conseguenza delle equazioni del campo elettromagnetico. Cerchiamo di capire la strada seguita da Lorentz per arrivare a questo risultato.

        Innanzitutto consideriamo un mezzo trasparente investito da una radiazione luminosa. Queste mezzo sarà costituito da tante particelle cariche di segno opposto in modo che una data molecola sarà formata, nell’ipotesi più semplice, da una carica positiva ed una negativa (un dipolo) legate insieme da una forza elastica. Con un meccanismo già descritto qualche riga più su, quando un’onda luminosa interagisce con la nostra molecola-dipolo la mette in vibrazione: le due cariche si allontaneranno e riavvicineranno alternativamente. Conseguenza di ciò è che la forza elettrica cambierà alternativamente di direziono. Il nostro dipolo emetterà allora onde elettromagnetiche elementari che andranno ad interferire e con le altre onde elettromagnetiche elementari generate dalle altre molecole-dipolo e con l’onda primaria incidente. Questa interferenza che si produce all’interno del mezzo trasparente provoca un rallentamento nella velocità dell’onda incidente (in accordo con quanto sappiamo sulla rifrazione nel passaggio da un mezzo meno ad uno più denso). Bisogna ora osservare che il grado di vibrazione del dipolo dipenderà dal valore della forza elastica di richiamo, dipenderà cioè dall’intensità del legame tra cariche positive e negative nella molecola. Ora, la forza di legame tra le molecole è strettamente connessa al grado di polarizzazione che, a sua volta, è relazionato all’indice di rifrazione del mezzo trasparente in considerazione.

        In definitiva la velocità dell’onda risultante w sarà minore di quella dell’onda incidente c di una quantità dipendente dall’indice di rifrazione del nostro mezzo trasparente:   w = c/n. E tutto ciò nell’ipotesi che il nostro mezzo trasparente dielettrico sia immobile rispetto all’etere.

        Supponiamo ora di mettere in moto il nostro mezzo con una velocità v (è quello che accade per ogni oggetto che, trovandosi sulla Terra, è in moto rispetto all’etere considerato immobile). Le onde luminose che lo attraversano mettono in vibrazione i dipoli ivi presenti. Mentre questi dipoli vibrano, emettendo onde elettromagnetiche, sono soggetti ad un moto d’insieme rispetto all’etere con la velocità v, la stessa, del mezzo trasparente che li contiene. Poiché i dipoli sono delle cariche elettriche e poiché si muovono ciascuno rispetto all’etere con velocità v debbono originare un campo magnetico, un qualcosa di più rispetto alle onde elettromagnetiche che, nel frattempo, vanno emettendo. Questo campo magnetico così originato va ad interagire con i dipoli che stanno vibrando (si tratta di un campo magnetico che agisce su delle cariche elettriche) alterando la loro vibrazione e, conseguentemente, le onde elementari da essi emesse. In questo modo l’onda risultante, dovuta all’interferenza delle onde elementari tra loro e con l’onda primaria, ne risulterà modificata di una quantità che dipende, come Lorentz dimostrò, dalla velocità v di traslazione dei dipoli stessi e ancora dall’indice di rifrazione del mezzo trasparente. E così se indichiamo con c/n la velocità  dell’onda luminosa primaria nel mezzo trasparente, con w la velocità dell’onda risultante, con v la velocità di traslazione dei dipoli rispetto all’etere e con n l’indice di rifrazione del mezzo trasparente, si ha che la velocità w di propagazione della nostra onda risultante rispetto alla materia ponderabile è data da:

    w = c/n – v/n2

In questa relazione v/n2  rappresenta il rallentamento dell’onda risultante a causa dei meccanismi d’interazione tra la vibrazione dei dipoli, il campo magnetico generato dalla loro traslazione e l’interferenza tra onde elementari ed onda primaria (si tenga conto che la relazione in oggetto era stata ricavata da Lorentz trascurando termini del secondo ordine in v/c).

        Se la velocità w, anziché riferirla alla materia ponderabile (che è in moto con velocità v), la riferiamo all’etere immobile, alla relazione precedentemente vista dobbiamo aggiungere la velocità v di traslazione della materia ponderabile rispetto all’etere (composizione galileiana delle velocità), cioè:

w = c/n – v/n2          =>   w = c/n + v (1  – 1/n2 )

che è la ben nota relazione ricavata per altra via da Fresnel e dimostrata sperimentalmente da Fizeau.

         Era questo un grande successo della teoria di Lorentz che, per via elettromagnetica, dimostrava che tutto andava come se vi fosse un trascinamento parziale, ma che in realtà si trattava di una interazione tra campo nell’etere immobile e cariche in moto.

         Siamo nell’anno 1892. Lorentz aveva elaborato una brillante teoria che si accordava e spiegava numerosi fatti sperimentali. L’unico neo era la non spiegazione dell’esperienza di Michelson-Morley del 1887 che, ormai, non poteva più essere messa in dubbio. D’altra parte tutto funzionava poiché l’intera teoria era stata ricavata al primo ordine di v/c fatto, a questo punto, non più sostenibile.

         Lorentz era ben cosciente di tutto ciò, anzi ne sembrava angosciato.

         Il 18 agosto del 1892 scrisse a Rayleigh per chiedergli chiarimenti sull’esperienza di Michelson-Morley. Dopo aver ricordato che il coefficiente di trascinamento di Fresnel rendeva conto di tutti i fatti sperimentali ad eccezione dell’esperimento di Miohelson-Morley, Lorentz scriveva: (576)

Sono talmente incapace di rimuovere questa contraddizione e malgrado ciò ritengo che se dovessimo abbandonare la teoria di Fresnel, non avremmo nessuna teoria adeguata, poiché le condizioni imposte dal Sig. Stokes sul moto dell’etere sono inconciliabili tra loro.

Potrebbe esserci qualche aspetto nella teoria dell’esperimento del Sig. Michelson che sia stato fino ad ora trascurato ?

        Nel frattempo, il 16 giugno del 1892, veniva pubblicato su Nature un articolo del fisico britannico O.J. Lodge (1851-1940). (577) Lodge, dopo un’am pia rassegna dello stato delle problematiche dei rapporti tra etere e materia, sosteneva che l’esperimento di Michelson non riusciva ad essere spiegato in alcun modo a meno di ammettere un trascinamento totale dell’etere; inoltre egli faceva riferimento ad una sua recente esperienza dalla quale sembrava risultare “che l’etere non risente del moto della materia contigua almeno per una quantità pari ad 1/200 della velocità della materia“; ebbene, qualora si fosse accettata la spiegazione del trascinamento totale per rendere conto dell’esperienza di Michelson, quest’ultimo fatto sarebbe restato del tutto inspiegato.

         L’esperienza a cui Lodge faceva riferimento consisteva nel far passare un raggio di luce nello spazio interposto tra due dischi d’acciaio affacciati e ruotanti ad alta velocità. Nel caso in cui la materia in moto avesse trascinato con sé l’etere, la velocità della luce misurata sarebbe dovuta risultare modificata. Lodge non osservò nessun effetto.

         Insomma, le due esperienze, quella di Lodge e quella di Michelson, erano,  allo stato delle conoscenze, in conflitto.

        Subito dopo questo resoconto Lodge portava una testimonianza molto importante: egli affermava che per rendere conto dei fenomeni in oggetto ” il prof. Fitzgerald ha suggerito un modo per uscire dalla difficoltà supponendo che le dimensioni dei corpi siano una funzione della loro velocità attraverso l’etere.” (578)

        E’ la famosa ipotesi della contrazione; un oggetto si contrae nella direzione del moto di una quantità tanto maggiore quanto maggiore è la sua velocità.

        Non è ben certo se Lorentz conoscesse o meno l’ipotesi di Fitzgerald  (579) e questo è comunque poco importante (non sarebbe la prima volta che in fisica si realizzano scoperte simultanee in connessione con la maturazione di un determinato problema); resta il fatto che Lorentz elaborò quantitativamente questa ipotesi in un lavoro che fu comunicato all’Accademia di Amsterdam il 26 novembre del 1892  (580)   ed, in modo più accurato, in una successiva, grande memoria del 1895  (581)  (quando dovremo riferirci a quest’ultima memoria lo faremo indicandola con la prima parola del suo titolo Versuch).                                                                            

         A cosa serviva questa ipotesi ?

         Se ricordiamo l’esperienza di Michelson, la luce, per percorrere tragitti uguali nei due bracci dell’interferometro, nell’ipotesi di esistenza di un vento d’etere, dovrebbe impiegare tempi diversi: il tempo impiegato per il tragitto andata e ritorno nel braccio perpendicolare alla direziono del moto dovrebbe essere diverso dal tempo impiegato per il tragitto andata e ritorno nel braccio parallelo alla direziono del moto. Questa differenza di tempi dovrebbe originare interferenza in un dato oculare. L’esperimento, fatto con somma cura,  non dava indicazione alcuna di tempi diversi necessari alla luce per percorrere i due bracci dell’interferometro.

        Nella memoria del 1892 Lorentz scriveva: (582)

Questo esperimento è stato per me un rompicapo per molto tempo ed alla fine sono riuscito a trovare un metodo per riconciliare il suo risultato con la teoria di Fresnel. Esso consiste nel supporre che la linea che unisce due punti di un corpo solido secondo la direziono del moto della Terra, non conserva la medesima lunghezza quando il corpo ruota di 90°.”

E ciò vuol dire che un corpo rigido di una data lunghezza, quando è situato in direzione perpendicolare alla direzione del moto della Terra, assume una lunghezza diversa (minore)  di quella che assume quando esso è situato in direzione parallela al moto della Terra. In definitiva un oggetto si contrae se si muove in direzione parallela al moto della Terra o, che è lo stesso, in direzione parallela al vento d’etere.

        Così proseguiva Lorentz: (583)

” Così come io vedo le cose, non è inconcepibile che la lunghezza dei bracci dell’esperimento di Michelson subisca delle variazioni. Che cos’è che determina la forma e le dimensioni di un corpo solido ? Evidentemente l’intensità delle forze molecolari: qualunque causa che la modificasse influirebbe anche sulla forma e le dimensioni. A tutt’oggi si può supporre, senza timore di sbagliare, che le forze elettriche e magnetiche agiscono attraverso l’etere. E non sembra gratuito supporre che la stessa cosa avviene per le forze molecolari. In questo caso però sarebbe molto diverso che la linea di unione tra le due particene, che si spostano insieme nell’etere, si trovi parallela o perpendicolare alla direzione dello spostamento.

       Non è impossibile contraddire questa ipotesi poiché non conosciamo bene la natura delle forze molecolari. Possiamo solo calcolare – e solo con l’aiuto di alcune ipotesi più o meno plausibili – l’influenza del moto della materia ponderabile sulla forza elettrica e magnetica. Forse vale la pena di dire che il risultato ottenuto nel caso di forze elettriche, fornisce, nel caso di forze molecolari, il valore esatto … della quantità di contrazione di uno dei bracci che è necessaria per spiegare l’esperimento di Michelson.”

  Ecco allora come è spiegato il risultato negativo dell’esperienza di Michelson:  il  braccio  dell’interferometro  che  si  muove  parallelamente  alla  direzione del moto della Terra si è contratto di una quantità tale da rendere nulla la differenza dei tempi necessari alla luce per percorrere i due bracci.

      La teoria comporta che se la Terra viaggiasse più velocemente, maggiore sarebbe la contrazione del braccio che si trova parallelo al suo moto e sempre tale da uguagliare perfettamente i tempi necessari alla luce per percorrere i due tragitti. Ciò vuol dire che l’esperienza di Michelson non può che dare risultati nulli e che, in ogni caso, nessuna altra esperienza sarebbe in grado di evidenziare un moto assoluto della Terra rispetto all’etere immobile.

             Scriveva Lorentz nella Versuch: (584)

Al fine di semplificare il problema supporremo di lavorare con il dispositivo impiegato nel primo esperimento e che in una delle posizioni principali il braccio P [ dell’interferometro] giaccia esattamente nella direzione del moto della Terra. Sia v la velocità di questo moto, L la lunghezza di entrambi i bracci e , quindi,  2L il cammino percorso dai raggi di luce. Secondo la teoria, la rotazione dell’apparato per un angolo di 90° fa si che il tempo durante il quale un raggio viaggia in andata e ritorno lungo P sia maggiore del tempo impiegato dall’altro raggio per completare il proprio cammino; la differenza è pari a:

  Lv2/c2

La stessa differenza si avrebbe se la traslazione non esercitasse alcuna influenza ed il braccio P fosse più lungo del braccio Q  per una quantità pari a:  

Lv2 /2c2

Lo stesso vale per la seconda posizione principale. Vediamo quindi che le differenze di fase previste dalla teoria potrebbero anche sorgere qualora, durante la rotazione dell’apparato, prima un braccio e poi l’altro fossero rispettivamente il braccio più lungo. Me segue che le differenze di fase possono essere compensate da variazioni contrarie delle dimensioni. Se ipotizziamo che il braccio giacente nella direzione del moto della Terra è più corto dell’altro per una quantità  

Lv2/2c2

e che, nello stesso tempo, la traslazione abbia l’effetto previsto dalla teoria di Fresnel, allora il risultato dell’esperimento di Michelson è completamente spiegato. Pertanto si dovrebbe immaginare che il moto di un corpo solido … attraverso l’etere in quiete eserciti un’influenza che varia in funzione dell’orientamento del corpo stesso rispetto alla direzione del moto. Per sorprendente che possa apparire tale ipotesi a prima vista, pure dobbiamo ammettere che essa non è affatto artificiosa qualora si assuma che anche le forze molecolari vengono trasmesse attraverso l’etere, analogamente per quanto accade per le forze elettriche e magnetiche a proposito delle quali siamo attualmente in grado di accettare definitivamente tale assunzione. Se esse sono trasmesse in questo modo, la traslazione sarà molto probabilmente capace di influenzare l’azione tra due molecole o atomi in modo analogo a ciò che si ha nell’attrazione o nella repulsione tra particelle cariche. Ora, poiché la forma e le dimensioni di un corpo solido sono in ultima istanza condizionate dall’intensità delle azioni molecolari, non può mancare il prodursi di una variazione di dimensioni.

        Lorentz, già nel 1892, aveva ricavato che il campo di forze creato da una carica in movimento era uguale al campo generato da una carica ferma, ma contratto della quantità

nella direzione del moto della carica. (585) E questa contrazione è proprio quella che deve aversi per rendere conto dell’esperienza di Michelson, ora, nella Versuch del 1895, questo risultato veniva riaffermato. (586)

        Consideriamo infatti la relazione (3) che avevamo ricavato nel paragrafo precedente e relativa alla differenza complessiva Dt dei tempi necessari alla luce per percorrere i due bracci (supposti uguali e lunghi d) dell’interferometro di Michelson:

Ora, nelle ipotesi di Lorentz, il tempo t1, necessario alla luce per percorrere andata e ritorno il braccio parallelo al moto della Terra, sarà dato da:

a seguito del fatto che la lunghezza di questo braccio si è ora contratta ed è diventata d.(1 – v2/c2)1/2; il tempo t2 è invece rimasto invariato. Di conseguenza la (3) diventa:

Ecco allora che, in mancanza di tempi di percorrenza, l’esperimento di Michelson non può che dare risultato nullo.

        Ma possiamo estendere questo risultato anche al caso in cui i due bracci dell’interferometro non abbiano la stessa lunghezza d, ma siano lunghi rispettivamente d1 e d2. In questo caso più generale, la relazione che ci forniva la differenza dei tempi era la (3 bis) del paragrafo precedente:

dove  Dt’ era la differenza dei tempi che si aveva quando il braccio PM1 = d1  si trovavaparallelo alla direzione del moto della Terra ed il braccio PM2 = d2 si trovava perpendicolare a questa direzione, mentre  Dt” era la differenza dei tempi che si aveva quando i bracci erano ruotati di 90°, invertendo le loro posizioni.

        Introducendo la contrazione, durante la misura relativa a  Dt’, sarà d1 che si contrarrà, diventando d1(1 – v2/c2)1/2. Quando l’interferometro è ruotato di 90° sarà d2 che subirà la contrazione diventando d2 (1 – v2/c2)1/2. La (3 bis) diventa allora:

Ed anche qui, come si vede, la differenza dei tempi risulta nulla, con l’ovvia conseguenza del risultato nullo dell’esperienza di Michelson.

        Come si può notare, l’ipotesi della contrazione è in qualche modo conseguenza della teoria che già in precedenza aveva elaborato Lorentz e non propriamente un’ ipotesi ad hoc.(587)

        In ogni caso l’elaborazione di Lorentz rappresenta la prima vera estensione dei fenomeni elettromagnetici ai fenomeni meccanici; un grande passo avanti sulla strada che tendeva, in quegli anni, all’unificazione di tutti i fenomeni fisici attraverso l’elettromagnetismo. Ma su quest’ultimo aspetto torneremo tra poco mentre è ora interessante fare una considerazione ed andare a cogliere gli altri importanti contributi di Lorentz nella Versuch del 1895.

        L’ipotesi della ‘contrazione‘ non è propriamente, almeno nella prima formulazione, quella di una contrazione. Spiego subito questo bisticcio riferendomi ad un brano dei paragrafi 90 e 91 della Versuch  (588)  che precedono quello, il 92,  (589)  in cui viene formulata la teoria delle forze che dovrebbero esercitarsi tra molecola e molecola nel caso di un corpo in movimento. Lorentz affermava che ambedue i bracci dell’interferometro di Michelson potrebbero subire una variazione di lunghezza tale da fornire risultato nullo all’esperimento. In realtà non si sa bene che cosa accade; potrebbe contrarsi il braccio che si muove parallelamente alla direzione del moto della Terra, mentre l’altro mantiene invariata la sua lunghezza; al contrario, potrebbe dilatarsi questo secondo braccio, mentre il primo mantiene invariata la sua lunghezza; potrebbe contrarsi un poco il primo e dilatarsi di un poco il secondo. E’ soltanto nel paragrafo 92 che il dubbio viene sciolto in favore della contrazione, ma non con un procedimento arbitrario, bensì facendo ricorso proprio alla teoria delle forze molecolari. (590)

        Ma qual è il valore di questa contrazione ? Di quanto si contrae, ad esempio,una sbarra posta parallelamente alla direzione del moto della Terra ?

        Lo stesso Lorentz ne fornisce una valutazione nel paragrafo 91 della Versuch:  (591)

Le contrazioni in questione sono straordinariamente piccole … La contrazione del diametro della Terra dovrebbe ammontare a circa 6,5 cm. La lunghezza di una sbarra di un metro [posta parallelamente alla direzione del moto della Terra dovrebbe diminuire] di circa 1/200 micron.”

        Come evidenziare queste variazioni di dimensione ?

        Solo con metodi interferometrici, affermava Lorentz,e noi siamo in grado di rendercene conto grazie proprio al risultato nullo dell’esperienza di Michelson. D’altra parte, osserviamo noi, è puramente illusorio pensare di riuscire a dare una valutazione di queste variazioni di lunghezza, ad esempio, con un regolo graduato. Se, infatti, pensiamo di eseguire questa misura, ad esempio di una sbarra, ci troviamo nella grave difficoltà che anche il nostro  regolo subisce le variazioni di lunghezza che subisce la sbarra. Rispetto alla direzione del moto della Terra, in qualunque posizione sistemiamo la sbarra da misurare, nella stessa posizione dovremo sistemare il regolo per la misura; il risultato è che in alcun modo possiamo renderci conto di una qualche variazione di lunghezza poiché esse risultano simultanee.  (592)

        Quanto detto è ciò che per ora c’è da dire su questa ipotesi della contrazione che da ora chiameremo di Lorentz-Fitzgerald.

        Ma vediamo in breve quali sono gli altri argomenti trattati nella Versuch. (593)

        In questo lavoro si segue un procedimento analogo a quello seguito da Hertz nella sua memoria del 1890, Sulle equazioni fondamentali dell’Elettrodinamica per i corpi in riposo; (594)  ora le equazioni di Maxwell non vengono più ricavate, ma vengono postulate prescindendo da ogni proprietà meccanica del supposto etere (quest’ultima essendo una caratteristica sempre presente nell’opera di Lorentz). Queste equazioni vengono per la prima volta date microscopicamente e quindi, con un processo di media tra i campi, (595) estese ai fenomeni macroscopici. Ora Lorentz aveva in mano uno strumento di calcolo più potente con il quale affrontò, un problema ormai ineludibile. Infatti tutti i corpi che si trovano sulla Terra sono trasportati da essa nel suo moto attraverso l’etere immobile; è chiaro allora che tutti i fenomeni ottici ed elettromagnetici, che avevano trovato una loro spiegazione nell’ipotesi che essi si verificassero in un sistema di riferimento immobile (la Terra) rispetto ad un etere in moto, dovevano ora trovarla nell’ipotesi che quel riferimento (la Terra) fosse in moto rispetto ad un etere immobile (il primato dell’ipotesi di etere immobile era già stato dimostrato da Lorentz quando, proprio con questa ipotesi, aveva ricavato, nella precedente memoria, il coefficiente di trascinamento di Fresnel da ipotesi puramente elettromagnetiche). Si trattava, in definitiva, di dimostrare che in un sistema in moto i fenomeni ottici ed elettromagnetici vanno come in un sistema in riposo.

        Noi conosciamo, ad esempio, la legge dell’induzione elettromagnetica che si esercita tra due correnti rettilinee. Ebbene, questa legge è stata ricavata nell’ipotesi che le due correnti fossero immobili rispetto all’etere. E se le due correnti, invece, sono considerate in moto rispetto al riferimento etere ? Analogamente per la forza elettrostatica che si esercita tra due cariche, per l’effetto Faraday, per la riflessione, per la rifrazione, …

        Per risolvere questa questione, che avrebbe generalizzato la sua teoria, Lorentz formulò un teorema detto degli stati corrispondenti:  (596)

Se per un sistema di corpi in riposo si conosce uno stato nel quale:

  Dx, Dy, Dz, Ex, Ey, Ez, Hx, Hy, Hz

  sono delle date funzioni di x, y, z e t, allora, se lo stesso sistema si muove con velocità v, può esistere uno stato in cui

  D’x, D’y, D’z, E’x, E’y, E’z, H’x, H’y, H’z

  sono le stesse funzioni di x’, y’, z’ e t’ “,

  dove D è lo spostamento elettrico, E è la forza elettrica ed H la forza magnetica.

         Rimane solo da dire che, nel passaggio da uno stato all’altro, alle variabili x, y, z si applicano le ordinarie trasformazioni di Galileo, alle quali Lorentz aggiunge anche l’equazione di trasformazione per il tempo. (597) Infatti, come si ricorderà, le trasformazioni di Galileo prevedevano che nel passaggio da un sistema ad un altro in moto rettilineo uniforme rispetto al primo, il tempo non subisse modificazioni e pertanto si aveva t  = t’. Ora Lorentz fornisce per il tempo l’equazione di trasformazione che egli ricava da un cambiamento di coordinate che effettua nel corso del suo lavoro:

                     t’ = t – (1/c2) (vx.x + vy .y + vz .z)

che, nell’ipotesi di uno spostamento con velocità v lungo l’asse x, diventa:

 (1)                                          t’ = t – (v/c2).x                                               

(in questo case infatti sono nulle le componenti della velocità lungo gli assi y e z, cioè vy = vz = 0). A questo tempo t’ Lorentz dà il nome di tempo locale. Supponendo di avere una particella che si muove con velocità v rispetto all’etere immobile,  egli  scriveva: (598)

La variabile t’ può essere considerata come un tempo misurato ad un dato istante che dipende dalla posizione della particella in questione. Questa variabile può quindi essere chiamata il tempo locale di questa particella in contrasto con il tempo generale t.”

        Soffermiamoci un poco a capire il senso che Lorentz assegnava a questa trasformazione, che ci fa passare dal tempo generale ad un tempo locale per un sistema in moto rettilineo uniforme con velocità v rispetto ad un sistema di riferimento in riposo.  

       Lorentz supponeva di disporre di un sistema di riferimento S solidale con l’etere immobile a cui associava le coordinate spaziali x, y, z e la coordinata temporale t (tempo generale, che non si discosta dal tempo assoluto di Newton). Ora, nell’ipotesi di avere una particella carica che si muove lungo l’asse X con velocità v rispetto all’etere immobile, egli associava a questa particella un altro sistema S’, con coordinate spaziali x’, y’, z’, e coordinata temporale t’ (tempo locale). Nella nostra ipotesi di particella che si muove lungo l’asse X, possiamo fare a meno di prendere in considerazione gli assi Y e Z.

        Supponiamo ora che ad un dato istante (t = 0), quando la nostra particella si trova ad una distanza h (ascissa x) dall’origine O del sistema di riferimento S (oppure OX) in riposo rispetto all’etere, essa cominci ad emettere onde elettromagnetiche (che, come sappiamo, si muovono con velocità c rispetto all’etere). La figura 35 serve a visualizzare la situazione.

Le onde emesse a t = 0  raggiungeranno l’origine O del sistema S in un tempo   t = h/c. Prendiamo ora in considerazione un sistema di riferimento S’ (oppure O’X’) che si muova rispetto al sistema S con una velocità v, in direzione parallela ad OX. Questo sistema S’ è solidale con la particella in moto e di conseguenza questa particella è in riposo rispetto ad S’. I due sistemi S ed S’ siano situati in modo che, al tempo t = 0, le loro origini O ed O’ coincidano, allo stesso modo che le loro ascisse x ed x’ (figura 36).

Riprendendo in considerazione quanto detto prima (e relativo alla figura 35) le onde elettromagnetiche, emesse a t = 0 dalla particella che si trova in XX’, raggiungeranno l’origine O del sistema di riferimento immobile rispetto all’etere nello stesso tempo t = h/c visto prima, mentre impiegheranno un tempo minore t’ =  h/(c + v)  per raggiungere l’origine O’ del sistema di riferimento in moto con velocità v rispetto all’etere immobile (e ciò perché mentre le onde elettromagnetiche si propagano dalla particella con velocità c, O’ si avvicina ad esse con velocità v: vale quindi la composizione galileiana delle velocità). Va sottolineato che quanto detto è conseguenza del fatto che la velocità delle onde elettromagnetiche è c rispetto all’etere immobile.

        Questa differenza di tempi, per i due sistemi in moto con velocità v l’uno rispetto all’altro, può essere interpretata come se i fatti che si svolgono in x’ nel sistema in moto avessero luogo in un tempo precedente nel sistema in riposo. E da qui nasce il concetto di tempo locale: ogni posizione occupata dal sistema mobile ha un tempo proprio; esso non coincide con quello misurato da un osservatore immobile e non coincide neppure con nessun altro dei tempi relativi agli altri punti del sistema in moto; in definitiva esso varia al variare della posizione del sistema in moto [infatti in un tempo t = t≠ 0, la particella si troverà non più ad una distanza h, ma ad una distanza d > h dall’origine e, a parità di velocità v, si avrà  t’ = d/(c + v)]. (599)  In definitiva un osservatore che si trovi in O’ vedrà fenomeni che si svolgono in x’ tanto prima rispetto ad O quanto più grande è h.

         Vediamo di ritrovare la formula che Lorentz fornisce per il tempo locale (1) a partire dalle considerazioni ora svolte.

         Ponendo h = x, abbiamo trovato che:

(2)          t = x/c                             e                

(3)           t’ = x/(c + v)

dove t è il tempo generale (o assoluto) misurato da un osservatore immobile rispetto all’etere, e t’ è il tempo locale misurato da un osservatore solidale con il sistema di riferimento in moto con velocità c,

         Trasformiamoci opportunamente la (3):

t’ = x/(c + v) = (x/c).[1 + v/c]-1

ed applichiamo la ormai nota formala che permette lo sviluppo del binomio di Newton; si ha:

t’ = (x/c).[1 + v/c]-1 = (x/c).[1 + (-1)(v/c) + (-1)(-2)/2.(v/c)2 + … ]

Trascurando termini in v/c, dal secondo ordine in poi, si trova:

t’ = (x/c).[1 – v/c] = x/c – (v/c2).x

e, ricordando la (2), si ha:

t’ = t – (v/c2).x

che è proprio la relazione che Lorentz presenta per il tempo locale. Occorre sottolineare che, come qui fatto, anche Lorentz trovò questa equazione di trasformazione trascurando termini del secondo ordine in v/c.

        Questa trasformazione permetteva a Lorentz di dare la stessa forma alle equazioni del campo elettromagnetico sia in un sistema solidale con l’etere, sia in un sistema in moto con velocità v rispetto ad esso.

        Con queste procedimento Lorentz poté enunciare il teorema secondo il quale, se si trascurano termini del secondo ordine in v/c, allora le equazioni del campo elettromagnetico hanno la stessa forma in due sistemi di riferimento che si muovono con velocità relativa e costante v rispetto all’etere immobile. (600)

        E’ utile far presente che nelle intenzioni di Lorentz non c’era alcuna volontà di porre in discussione il tempo assoluto; il tempo locale era una utile variabile ausiliaria che gli permetteva di scrivere nella stessa forma le equazioni del campo elettromagnetico per due sistemi in moto relativo. (601)

        In questo modo, al 1° ordine di v/c, le equazioni di trasformazione di Lorentz (nel caso in cui si abbia a che fare con due sistemi di riferimento unidimensionali che si muovono l’uno rispetto all’altro facendo scorrere parallelamente i loro assi x, come nell’esempio della particella che emetteva onde elettromagnetiche, discusso precedentemente) possono essere scritte:

dove le grandezze con apice sono relative al sistema in moto e dove per le coordinate spaziali valgono le trasformazioni di Galileo.

        Passando ora ad un’altra questione trattata nella Versuch, oome conseguenza della teoria che prevede che la luce sia emessa dalla vibrazione delle particene cariche all’interno della materia, dovrebbe accadere che, se si dispone una sorgente luminosa all’interno di un intenso campo magnetico, la vibrazione degli elettroni risulterà modificata di modo che lo spettro emesso da questa sorgente dovrebbe essere diverso da quello che si ha in assenza di campo. In particolare, osservando con uno spettroscopio la luce emessa dalla sorgente in oggetto, si dovrà» osservare: uno sdoppiamento di ogni riga spettrale, nel caso si osservi nella direzione delle linee di forza del campo; la formazione di tre righe (tripletto) per ogni riga spettrale ordinaria, nel caso si osservi in direzione perpendicolare alle linee dì forza del campo.

       La previsione di questo effetto fu confermata sperimentalmente dal fisico olandese P. Zeeman (1865-1943), allievo ed amico di Lorentz, appena un anno dopo (1896). Il fenomeno, noto come effetto Zeeman normale, (602) diede la prima evidenza sperimentale della struttura elettromagnetica delle supposte particelle costituenti la materia e la sua scoperta valse sia a Zeeman che a Lorentz il premio Nobel per la fisica dell’anno 1902.

        La scoperta dell’effetto Zeeman risultò di gran sostegno alla teoria di Lorentz e, per altri versi, permise anche di avanzare l’ipotesi che i raggi catodici, all’epoca molto studiati, potessero essere costituiti dalle stesse particelle ipotizzate da Lorentz.

        Ma, al di là dei successi, pur così rilevanti, la teoria di Lorentz presentava almeno un punto di grande debolezza: risultava, almeno in questa formulazione, antinewtoniana. Il fatto era già stato segnalato da Helmholtz nel 1892, in uno dei suoi ultimi articoli. Di fatto già abbiamo osservato che Lorentz respingeva 1’azione a distanza per aderire all’azione a contatto; oltre a ciò, in un modo analogo alle teorie di Weber, le forze si trovano a dipendere dalla velocità ed, in questo senso, proprio la forza di Lorentz è emblematica. Tutto questo non rientra in un quadro esplicativo newtoniano anzi ne risulta fortemente in contrasto. Ma vi è di più. L’ammissione di un etere perfettamente immobile, qualunque fosse il fenomeno fisico che si svolgesse in esso, risultava in ulteriore disaccordo non tanto con il quadro esplicativo di Newton quanto, addirittura, con una delle sue leggi fondamentali: il principio di azione e reazione. L’etere, infatti, sede del campo, agisce sulla materia ponderabile ma, al contrario, nessuna  azione è possibile da parte di quest’ultima sul supposto etere proprio perché, appunto, esso è comunque immobile: le tensioni di Maxwell ora non possono più avere luogo.

        Lorentz commentava questa situazione nelle prime pagine della Versuch, affermando:  (603) 

“… La cosa più semplice sarebbe il supporre che una forza non agisce mai sopra un elemento di volume dell’etere, considerato come un tutto, o anche che mai deve impiegarsi il concetto di forza sopra tale elemento, che mai si sposta dalla sua posizione. Una simile concezione nega di fatto l’uguaglianza dell’azione e della reazione, perché in realtà dobbiamo affermare che, fondamentalmente, la forza dell’etere agisce sulla materia ponderabile; ma, fin dove io riesco a vedere, non c’è niente che ci obblighi ad elevare questa proposizione al rango di legge fondamentale di validità illimitata. Una volta decisi in favore della concezione che abbiamo appena illustrato, dobbiamo anche abbandonare dal principio le azioni ponderomotrici attribuibili alle tensioni dell’etere….Questo equivarrebbe ad accettare la forza tra distinte parti dell’etere, e come tali, se vogliamo essere conseguenti, non possiamo continuare ad accettarle.”

Lorentz decise quindi per una rottura clamorosa con la fisica di Newton. L’immobilità di un etere che serviva alla propagazione del campo e che, nelle intenzioni, doveva essere riguardato come lo spazio assoluto di Newton (anche se quest’ultimo non identificava le due cose), faceva respingere uno dei principi basilari della fisica newtoniana. (604)     Arrivati a questo punto probabilmente ci si sarebbe aspettati ben presto la messa in discussione del principio d’inerzia e del secondo principio della dinamica, dopodiché nulla sarebbe rimasto della meccanica. Si apriva la strada ad una interpretazione e costruzione elettromagnetica dell’intera meccanica sulla quale ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. E’ ora interessante andare a cogliere gli  aspetti  salienti dell’inserimento nella problematica dell’elettrodinamica dei corpi in movimento del grande matematico e fisico-matematico francese Henry Poincaré  (1853-1912).   

 5 bis – L’INTERVENTO DI POINCARÉ E ANCORA LORENTZ

        Già abbiamo avuto modo di accennare (si veda la nota 572) che la lettura di alcuni brani della prima edizione (1890) del libro di Poincaré, Electricité et optique, aveva aiutato Lorentz nella sua conversione all’azione a contatto. In questo primo lavoro sulle problematiche dell’elettromagnetismo, Poincaré metteva a confronto le varie teorie fino ad allora sviluppate.  Sullo stesso argomento il nostro ritornò nel 1895 con la memoria A proposito della teoria del Sig. Larmor.  (605)  La bontà di una qualunque teoria elettromagnetica,  secondo Poincaré, era legata al soddisfare o meno i seguenti tre requisiti:

    1) essa deve riuscire a spiegare il trascinamento parziale di Fresnel evidenziato dall’esperimento di Fizeau;  

    2) essa deve essere compatibile con il principio di conservazione dell’elettricità e del magnetismo;

    3) essa deve accordarsi con il principio di azione e reazione.

E tutte le teorie fino ad allora elaborate, quella di Helmholtz, quella di Hertz e quella di Lorentz non rispondevano contemporaneamente ai requisiti richiesti. Mentre la teoria di Helmholtz rende conto dei requisiti 1 e 3, non è compatibile con il 2. La teoria di Hertz è in accordo con i requisiti 2 e 3 ma non con l’1. Infine, la teoria di Lorentz possiede i requisiti 1 e 2 ma è completamente carente per quel che riguarda il 3.  Secondo Poincarè, però, le tre teorie non potevano essere rigettate in blocco;  occorreva mantenere quella che presentava meno difetti e spiegava più cose e cioè la teoria di Lorentz (“ciò che abbiano di più soddisfacente …; quella che rende meglio conto dei fatti conosciuti, che mette in luce il più gran numero di rapporti veri…“). Si trattava però di lavorarvi sopra per migliorarla e, possibilmente, eliminare da essa i riconosciuti difetti (“si dovrà probabilmente modificarla, ma non distruggerla“). Era questo, in definitiva, il programma di Poincaré: accettazione della teoria degli elettroni di Lorentz e necessità di lavorarvi per portarla a compimento senza contraddizioni esterne ed interne, senza contraddizioni cioè con i fatti sperimentali e con i principi accettati, da una parte, e con una coerenza logica interna, dall’altra.

        E poincaré iniziò subito con il cercar di capire come sia possibile accordare la teoria di Lorentz con il principio di azione e reazione. Prendendo in esame la teoria e confrontandola con i fatti sperimentali fino ad allora accumulati, egli notava questa sequenza:

    1°) I fatti sperimentali ci dicono che “è impossibile evidenziare il moto assoluto della materia ponderabile o, meglio, il moto relativo della materia ponderabile rispetto all’etere. Tutto ciò che si può riuscire ad evidenziare è il moto della materia ponderabile rispetto alla materia ponderabile”. (606)                                                                               

    2°) L’esperienza di Michelson ha mostrato che quanto detto sopra sembra essere vero almeno al secondo ordine di v/c.

    3°) La teoria di Lorentz rende conto di quanto detto al punto 1° solo al primo ordine di v/c.

      4°) II non accordo della teoria di Lorentz con il principio di azione e reazione ed il fatto che essa non rende conto di termini in v/c superiori al primo ordine, sono “due buchi che debbono … essere riempiti insieme”. (607)

Ed, in definitiva, Poincaré pensava che il sanare una delle lacune della teoria di Lorentz avrebbe permesso di sanare contemporaneamente anche l’altra.

        Sul problema del principio di azione e reazione non in accordo con la teoria di Lorentz, Poincaré tornò in una memoria del 1900, La teoria di Lorentz ed il principio di reazione.  (608) In essa Poincaré osservava che la teoria di Lorentz non solo violava il principio di azione e reazione ma anche la conservazione della quantità di moto. Infatti, perché un elettrone emetta onde elettromagnetiche, è necessario che esso oscilli. La non esistenza di reazione da parte dell’etere fa si che esso rallenta perdendo quantità di moto. E neanche a pensare che la reazione possa avvenire da parte degli altri elettroni, almeno per due motivi: primo, perché essi sono distanti e, poiché l’onda arriva loro dopo un certo tempo, la reazione avverrebbe in ritardo di modo che, nel frattempo, il primo elettrone avrebbe perso quantità di moto; secondo, perché non tutta la radiazione emessa da un elettrone viene assorbita dagli altri elettroni. (609)

        Per accordare queste contraddizioni con la teoria di Lorentz, Poincaré fece l’ipotesi che in un sistema isolato l’energia elettromagnetica possa essere assimilata ad un fluido particolare dotato di una data velocità. E ciò che deve essere costante è la somma delle quantità di moto degli elettroni e del fluido elettromagnetico. Da questa costanza, anche nelle trasformazioni della energia del fluido in altre forme di energia di tipo non elettromagnetico, Poincaré risale alla validità del principio di azione e reazione nella teoria di Lorentz.

        Certamente l’ipotesi è artificiosa ma in ogni caso rispondente a quei criteri di comodità e di semplicità più volte richiamati dallo stesso Poincaré. (610)

        Si era quindi provvisoriamente riempito uno dei due buchi che il fisico-matematico francese aveva evidenziato nella teoria di Lorentz. Si trattava ora di passare a ciò che sembrava ormai inevitabile: la teoria doveva rendere conto della non osservazione di effetti del 2° ordine in un modo più generale di quanto fino allora fatto con l’ipotesi della contrazione (il colpo di pollice di Poincaré).

        Nel 1904 vide la luce una nuova importantissima memoria di Lorentz, Fenomeni elettromagnetici in un sistema in moto con una velocità minore di quella della luce, (611)  in cui, essenzialmente, la teoria veniva estesa a termini d’ordine superiore in v/c (sulle linee già annunciate alla fine di una memoria del 1899 – si veda la nota 608) e ampiamente migliorata in vari punti, soprattutto in seguito alla scoperta di nuovi fatti sperimentali ed alla critica di Poincaré sull’artificiosità di certe ipotesi che sono di volta in volta introdotte per spiegare il presentarsi di fatti nuovi (nota 608).  

             La prima esperienza che doveva trovare una spiegazione all’interno di un quadro di riferimento complessivo era ancora quella di Michelson-Morley.

            Altre esperienze, di diversa concezione ma sempre centrate a cercare di rilevare il moto della Terra rispetto all’etere, erano state pensate ed eseguite in quegli anni. Abbiamo già accennato all’esperienza di Rayleigh (1902) realizzata indipendentemente anche da D.B. Brace (1859-1905) nel 1904. L’idea guida di questa esperienza era che, nell’ipotesi di un etere immobile e di una contrazione dei corpi materiali nella direzione del moto, i corpi trasparenti nei quali si osserva normalmente una ordinaria rifrazione sarebbero dovuti diventare   doppiamente    rifrangenti.    Sia   Rayleigh che    Brace    non   osservarono    alcun effetto. (612) 

            Vi fu poi l’esperienza di F.T. Trouton (1863-1922) e H.R. Noble eseguita nel 1903. (613)   Anche qui, partendo dall’ipotesi di etere immobile e di contrazione dei corpi materiali nella direzione del moto, si cercava di evidenziare l’effetto delle ipotesi mediante il moto di un condensatore attraverso l’etere. Supponiamo vere le ipotesi e disponiamo un condensatore piano, libero di muoversi, in modo che le sue armature formino un certo angolo con la direzione del suo moto con la Terra attraverso l’etere. Secondo la teoria,   (614) l’effetto della contrazione deve creare delle asimmetrie nei campi elettrici e magnetici tali da far agire sul condensatore una coppia di forze: l’effetto di questa coppia dovrebbe tendere ad allineare il condensatore con il vento d’etere. (615)  Trouton e Noble non osservarono alcun effetto.

            In questo modo Lorentz commentava la situazione, (616)  in riferimento anche alle critiche sulle ‘ipotesi’ avanzate da Poincaré (che tra l’altro suggeriva anche di accordare la teoria con il principio di relatività – si veda la nota 608):

Gli esperimenti di cui ho parlato non costituiscono la sola ragione per cui è desiderabile un nuovo esame dei problemi connessi con il moto della Terra. Poincarè ha mosso una obiezione contro le esistenti teorie dei fenomeni elettrici ed ottici nei corpi in moto, sostenendo che, al fine di spiegare il risultato negativo di Michelson, è stata necessaria l’introduzione di una nuova ipotesi e che la medesima necessità può aversi ogni volta che fatti nuovi sono messi in luce. Indubbiamente questo ricorso all’invenzione di ipotesi speciali di fronte a ciascun nuovo risultato sperimentale è, in certo modo,  artificioso.  Sarebbe ben più  soddisfacente di poter mostrare, per mezzo di alcune assunzioni fondamentali e senza trascurare termini di questo o quell’ordine di grandezze, che molte azioni elettromagnetiche sono del tutto indipendenti dal moto del sistema. Alcuni anni or sono ho già tentato di elaborare una teoria di questo genere. Credo sia ora possibile trattare l’argomento con risultati migliori. La sola restrizione sulla velocità consiste nella richiesta che essa sia inferiore a quella della luce.”  

        Quindi Lorentz aderisce al programma di Poincaré, ma non completamente. Quest’ultimo infatti richiedeva che tutti i fenomeni elettromagnetici obbedissero al principio di relatività; il primo poteva solo garantirne molti.

        Lorentz, nella sua memoria, dopo aver ancora una volta riscritto le equazioni di Maxwell più la sua (la forza che agisce su un elettrone in moto in un campo elettromagnetico), cominciò subito con il considerare “un sistema che si muove nella direziono dell’asse x con velocità costante v” rispetto all’etere immobile. Egli indicò poi con u “una qualunque velocità di cui sia dotato un punto dell’elettrone in aggiunta alla precedente “, di modo che valgono le trasformazioni di Galileo per le velocità:

  vx = v + ux;                  vy = uy;                    vz = uz.

Lorentz passò allora a riscriversi le equazioni di Maxwell-Lorentz per un sistema di riferimento con gli assi solidali al sistema in moto, trasformando (617) poi le equazioni ottenute mediante il seguente cambiamento di variabili:

dove le variabili così introdotte erano considerate variabili artificiali e non vere. In queste relazioni g rappresenta un fattore numerico da determinarsi: “esso va considerato come una funzione di v il cui valore è 1 per v=0 e che, per piccoli valori di v, differisce dall’unità per quantità del secondo ordine“.  ( 618)

        Per quel che riguarda la variabile t’, essa “può essere chiamata tempo locale; infatti, quando … [v=0] e g = 1, tale variabile diventa identica a quella che precedentemente già avevo indicato con questo nome” (619) (si veda la relazione 1 del paragrafo 5).

        Occorre osservare che le trasformazioni (5) non sono ancora quelle che conosciamo come ‘trasformazioni di Lorentz‘ (alle quali si arriverà dopo una correzione apportata da Poincaré nel 1905, come vedremo). (620) Con queste trasformazioni, Lorentz cercava di esaudire la richiesta di Poincaré: trovare, appunto, delle trasformazioni che lasciassero invariata la forma delle leggi dell’elettromagnetismo ed in definitiva le equazioni di Maxwell-Lorentz, per qualsiasi traslazione a velocità costante del sistema di riferimento. Con questo insieme di sostituzioni, a cui Lorentz ne aggiunse altre per lo spostamento elettrico D e per il campo magnetico H, egli era in grado di trattare i fenomeni elettromagnetici che si svolgono in un sistema in moto, in modo formalmente equivalente alla loro trattazione in un sistema in quiete. Risolto il problema, la soluzione reale di esso, per Lorentz, si otterrà risostituendo di nuovo le variabili vere a quelle artificiali.  

        Lorentz era confortato sulla correttezza del suo procedimento dal fatto che, come egli diceva,  “le formule per un sistema che non si muova di moto traslatorio sono implicite in quanto precede. Infatti, per un tale sistema, le quantità con apice diventano identiche alle corrispondenti senza apice“; basta solo porre zero in luogo di v nelle (5) per rendersene conto. Tra l’altro questa sostituzione comincia a fornirci una condizione su g: quando v = 0 deve risultare g = 1.

        Si deve osservare che, data l’artificialità delle sostituzioni proposte, non esiste alcuna relazione fisica tra i due sistemi, quello legato all’etere e quello che si muove rispetto a questo con velocità v. Di conseguenza, fino a questo punto, Lorentz non aveva ancora risolto l’altro problema che si era proposto: trovare una spiegazione dell’inosservabilità del moto della Terra rispetto all’etere, per ordini superiori al primo in v/c.

        Per riuscire nel suo scopo, Lorentz introdusse a questo punto tutta una serie di ipotesi che condizionavano con una grossa ipoteca l’intera sua teoria.

       La prima ipotesi era così formulata:   (621)

 Supponiamo ora che gli elettroni, che io considero come sfere di raggio R quando sono in quiete, cambino le loro dimensioni per effetto di una traslazione, cosicché le dimensioni nella direzione del moto diventino g/(1- v2/c2)1/2 volte più piccole e quelle nella direzione perpendicolare g volte più piccole.”

Nella trattazione lorentziana compare qui una novità rispetto ai lavori precedenti; ora l’ipotesi macroscopica della contrazione è interpretata come effetto della contrazione microscopica di ciascun elettrone. E proseguiva Lorentz: (622)

La nostra ipotesi equivale ad affermare che in un sistema  elettrostatico S, in moto con velocità v, tutti gli elettroni sono degli ellissoidi schiacciati, con i loro assi più piccoli nella direzione del moto.”

Introducendo la sostituzioni di variabili già data, per un sistema immaginario S ‘ immobile, l’elettrone diventa di nuovo sferico.

A questo punto si passava alla seconda ipotesi: (623)

Supponiamo che le forze che si esercitano tra particelle prive di carica, così come quelle tra tali particelle e gli elettroni, siano influenzate da una traslazione nello stesso identico modo delle forze elettriche in un sistema elettrostatico.”

E ciò vuol dire che se i centri di tutte le particelle costituenti il sistema S sono in una data configurazione di equilibrio, la stessa configurazione di equilibrio (per i centri delle particelle) si avrà anche in S’. L’effetto del moto sarà la deformazione degli elettroni, le coordinate dei cui centri saranno quelle date dalle variabili artificiali (5), senza ulteriori modificazioni. In altre parole ancora, “se animiamo di velocità v il sistema S‘, esso diventerà da sé il sistema ” (624)    e quindi la traslazione produrrà una deformazione macroscopica.

        L’introduzione di queste prime due ipotesi permetteva a Lorentz di concludere: (625)  

Si potrà facilmente vedere che l’ipotesi che avevo avanzato in passato in connessione con l’esperimento di Michelson, è implicita in quella che è stata ora affermata. Comunque la presente ipotesi è più generale, perché la sola limitazione imposta sul moto è che la sua velocità sia inferiore a quella della luce.” 

        Con le posizioni fatte, il nostro andava a calcolarsi la quantità di moto elettromagnetica di un elettrone , trovando per essa l’espressione:

e, poiché  “ogni cambiamento nel moto del sistema comporterà un corrispondente cambiamento nella quantità di moto elettromagnetica, sarà quindi necessaria una certa forza data in verso ed intensità da: (626)

Lorentz osservava però che l’espressione di questa forza, a seguito delle ipotesi sulle deformazioni elettroniche causate dal moto, diventava molto complicata se si consideravano moti variabili con rapidità. Era quindi necessario supporre moti che variavano in modo sufficientemente lento per poter applicare agevolmente la (6). Diceva Lorentz:   (627) 

L’applicazione della (6) ad una tale traslazione quasi-stazionaria, come è stata chiamata da Abraham, (628)  è un problema molto semplice. Sia, ad un dato istante, a1 l’accelerazione nel verso della traiettoria, ed a2   l’accelerazione perpendicolare ad essa. Allora la forza F sarà data da due componenti aventi i versi di queste accelerazioni e date da:

Quindi, nei fenomeni in cui si ha a che fare con una accelerazione nella direzione del moto, l’elettrone si comporta come se avesse una massa m1 ; in quelli in cui l’accelerazione è normale alla traiettoria, come se avesse una massa m2 . Queste quantità m1 ed m2  possono quindi essere propriamente chiamate le masse elettromagnetiche  longitudinale e trasversale dell’elettrone. Suppongo che non vi sia alcuna altra massa, né vera né materiale.”         

Ecco quindi l’introduzione di una terza ipotesi: la massa è puramente elettromagnetica, almeno la massa degli elettroni.

       Come vedremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo, il distacco dalla fisica newtoniana comincia a diventare enorme; pur di rimanere in un quadro esplicativo, in ultima analisi, di carattere newtoniano, via via si demolivano le premesse concettuali di questo programma. Ma c’è di più: venivano introdotti i concetti di masse diverse a seconda della direzione del moto, con in più il fatto che la massa dipende dalla velocità di traslazione del sistema.

 Lorentz così proseguiva: (629)

Quando 1/(1 – v2/c2)1/2  e g differiscono dall’unità per quantità dell’ordine di v2/c2 per  piccole  velocità  troviamo:

m1 = m2 = k                              (con il solito valore di k)               

Questa è la massa con cui abbiamo a che fare se ci sono piccoli moti vibratori degli elettroni in un sistema non dotato di moto traslatorio.”

        Con l’introduzione di queste ipotesi, alle quali, come vedremo, se ne aggiungeranno delle altre, e con le conseguenze analitiche che da esse derivavano, Lorentz fu in grado di mostrare che dalla teoria discende l’inosservabilità del moto della Terra mediante fenomeni elettromagnetici.

        Leggiamo ancora da Lorentz:  (630)

Passiamo ora ad esaminare l’influenza del moto della Terra sui fenomeni ottici in un sistema di corpi trasparenti … Per ragioni di semplicità supponiamo che, in ciascuna particella, la carica è concentrata in un certo numero di elettroni separati, e che le forze elastiche che agiscono su uno di questi e che, in connessione con le forze elettriche, determinano il suo moto, sono originate all’interno dei confini dello stesso atomo. Mostrerò che, se partiamo da un dato stato di moto in un sistema non dotato di traslazione, da esso possiamo dedurre uno stato corrispondente che può esistere nello stesso sistema quando esso è in moto di traslazione.

Dall’elaborazione di questa ulteriore ipotesi introdotta, Lorentz trovò un’altra espressione per la massa longitudinale m1  (la massa trasversale m2  rimaneva invece invariata):

Questa eventualità fornisce finalmente l’opportunità di calcolare quanto vale il fattore g; infatti la massa longitudinale m1  deve risultare la stessa indipendentemente dal modo con cui si è ricavata.

        Confrontando la prima delle (7) con la (8), deve risultare:  

Confrontando questo risultato con il  secondo membro della (9), si vede subito che, perché essi siano uguali, deve risultare dg/dv = 0, da cui si può facilmente stabilire che g deve essere una costante (g = cost).

        Ricordando che altrove avevamo visto che, per v = 0, doveva risultare g = 1, il valore di g è determinato (g = 1).  

         Per proseguire però sulla strada della dimostrazione della non osservabilità degli effetti del moto della Terra sui fenomeni elettromagnetici, Lorentz dovette i ntrodurre un’ulteriore ipotesi: (631)

 Dobbiamo  ora  supporre  che l’influenza di una traslazione sulle  dimensioni (dei singoli elettroni e di un intero corpo ponderabile) è limitata a quelle che hanno la direzione del moto, diventando queste 1/(1 – v2/c2)1/2  volte più piccole di quelle che sono allo stato di quiete. Se aggiungiamo quest’ipotesi a quelle fatte più su, possiamo essere sicuri che due stati, l’uno nel sistema in moto e l’altro nello stesso sistema in quiete, … possono esistere contemporaneamente.

Se cioè alcune grandezze elettromagnetiche possono essere definite in un sistema in quiete come determinate funzioni del tempo, nello stesso sistema posto in movimento (e quindi deformato) si possono definire le stesse grandezze come funzioni del tempo locale. E ciò si può facilmente mostrare applicando tutte le ipotesi e le equazioni di trasformazione che Lorentz aveva fin qui dedotte. In particolare, affermava Lorentz:  (632)

Se in due punti di un sistema si propagano nella stessa direzione raggi di luce aventi lo stesso stato di polarizzazione, si può mostrare che il rapporto fra le ampiezze [di queste onde elettromagnetiche] in questi punti non è alterato da una traslazione … [e cioè] fornisce una spiegazione del risultato negativo di Michelson … e mostra anche perché Rayleigh e Brace non hanno trovato traccia di doppia rifrazione prodotta dal moto della Terra.

Allo stesso modo diventa chiaro il risultato negativo dell’esperimento di Trouton e Noble se ammettiamo l’ipotesi … [della contrazione degli elettroni, già affermata]. Si può dedurre da questa e dall’ultima ipotesi fatta … che il solo effetto della traslazione deve essere stata una contrazione dell’intero sistema di elettroni, delle altre particelle che costituivano il condensatore carico … [e di tutto il sistema di misura]. Una tale contrazione non doveva dare origine ad un sensibile cambiamento di direzione [del condensatore] .” 

E quanto fin qui affermato è ora vero per qualunque ordine del rapporto v/c.  (633)     

         La memoria di Lorentz si concludeva con una discussione relativa ai moti molecolari.  (634)     Questa parte è interessante perché dalla sua discussione emerge bene il senso assegnato da Lorentz al tempo locale. Abbiamo già detto che ogni posizione occupata dal sistema in moto ha un suo tempo proprio (tempo locale) e che esso non coincide con quello misurato da un osservatore immobile (rispetto all’etere) e non coincide neppure con nessun altro dei tempi relativi agli altri punti del sistema in moto.

        Ora, data una molecola che appartiene ad un sistema in moto, il suo equilibrio è assicurato dalle forze che ad un dato istante t’ (tempo locale) le altre molecole esercitano su di essa. Ebbene, i tempi reali, a cui corrispondono tempi locali t’ per molecole differenti, non sono simultanei per Lorentz. Questa simultaneità di tempi la si può ritrovare solo nel sistema in quiete. Ed allora Lorentz si trovò costretto ad introdurre l’ulteriore ipotesi che

” queste forze [che agiscono tra molecole] abbiano effetto a così piccola distanza che, per particelle agenti l’una sull’altra, la differenza dei tempi locali può essere trascurata.” (635)

Con questa approssimazione la simultaneità era garantita anche nel sistema in moto, in quello delle variabili artificiali. E così, in questo sistema, è possibile ancora lo stato di equilibrio di una molecola, data la simultaneità delle azioni che le altre molecole esercitano su di essa. La non simultaneità dei tempi locali nel sistema in moto non deve evidentemente introdurre il sorgere di forze risultanti che tirino la molecola in oggetto da una parte o dall’altra. Conseguenza di ciò è che (636)

” ognuna, di queste particelle, insieme a quelle ad essa legate nella sfera di attrazione o repulsione, formerà un sistema che subirà la deformazione spesso ricordata.”

Ed in definitiva, (636)

le  tipiche relazioni tra  forze ed  accelerazioni  esisteranno   [sia  nel   sistema in quiete che in quello dotato di moto traslatorio] se supponiamo che le masse di tutte le particelle sono influenzate da una traslazione allo stesso modo delle masse elettromagnetiche degli elettroni.

        E con questa ennesima ed ultima ipotesi (complessivamente Lorentz ne ha fatte 11), che va a generalizzare i risaltati della teoria degli elettroni, Lorentz portò a compimento il suo programma che rappresenta la massima espressione degli sviluppi della fisica classica agli inizi del XX secolo.  

        Alcune considerazioni possono essere fatte. (637)

        Innanzitutto l’intera teoria di Lorentz è basata sull’esistenza di un etere immobile. Questo etere, assimilabile allo spazio assoluto di Newton, gioca il ruolo di riferimento privilegiato. Moto e quiete non hanno un valore meramente relativo, per Lorentz; la quiete è quella assoluta del riferimento dell’etere} rispetto a questo riferimento ha senso considerare moti assoluti. Come si vede, non ostante le critiche di Poincaré, si rimane ancorati ad una concezione che solo formalmente abbisogna di equazioni di trasformazione; in realtà le coordinate vere sono quelle del sistema in quiete. Lorentz,  insomma, non contempla nel suo programma l’estensione del principio classico di relatività ai fenomeni elettromagnetici (tant’è vero che le sue trasformazioni non sono reciproche). (638)

        In questo senso le equazioni di trasformazione sono artificiali e la contrazione assume significato fisico solo per rendere conto dell’inosservabilità del moto della Terra attraverso l’etere. D’altra parte è proprio l’etere che origina le deformazioni che impediscono l’osservazione del moto della Terra attraverso di esso: era davvero una grande impresa quella che affrontò e per molti versi risolse Lorentz.

        Ed il tutto nell’ambito di un tentativo di unificazione delle due principali scuole di fisica; quella corpuscolare e quella di campo, quella dell’azione a distanza e quella dell’azione a contatto.

        Come abbiamo già detto, per portare a compimento il suo programma, Lorentz fu costretto ad introdurre delle ipotesi che andavano ad ipotecare pesantemente i risultati ottenuti e che per altri versi negavano le premesse concettuali della fisica newtoniana.

        Forze dipendenti dalla velocità, deformazione degli elettroni, contrazione delle lunghezze, dipendenza della massa dalla velocità, masse differenti a seconda della direzione del moto, natura elettromagnetica dell’elettrone, … : l’insieme di tutte queste assunzioni e/o risultati doveva comportare una profonda revisione di tutti i fondamenti della fisica. E tutto ciò sarà tentato e fatto proprio in quegli anni, ma di questo ci occuperemo nel prossimo paragrafo.  

        Andiamo ora a cogliere il senso dell’ulteriore intervento di Poincaré proprio su questa memoria di Lorentz.

        Per quanto ci servirà, riscriviamoci le equazioni (5) di trasformazione, sostituendo alla g che vi compare il valore 1 determinato da Lorentz:

avendo semplificato l’espressione per il tempo locale con la riduzione del secondo membro allo stesso denominatore.

        E’ a questo punto opportuno fare alcune considerazioni.

        Per Lorentz, indubbiamente, le equazioni di trasformazione di Galileo sono indiscutibilmente valide. Tra l’altro, come abbiamo visto, egli le usa all’inizio del suo lavoro per la composizione delle velocità degli elettroni con quella del sistema di riferimento. Scriviamoci quindi l’equazione galileiana di trasformazione della posizione di un elettrone nel passaggio da un sistema di riferimento (quello dell’etere immobile) all’altro (quello in moto con velocità v rispetto all’etere).  (639)

       Supponiamo che S sia il sistema in quiete (quello dell’etere) e che S’ sia il sistema in moto con velocità v e riferiamoci alle figure 37 e 38.

Al tempo t = 0  i due sistemi saranno situati come in figura 37 e cioè con le origini coincidenti. Dopo un tempo t ≠ 0

i due sistemi saranno situati, sempre l’uno rispetto all’altro, come in figura 38 e cioè con le origini O ed O’ spostate

 di un tratto d (e poiché i due sistemi sono animati, l’uno rispetto all’altro, di moto traslatorio uniforme, si avrà d = vt). A questo punto supponiamo che P rappresenti un elettrone che a t = 0 (figura 37) inizi a muoversi in S, nel verso positivo del riferimento, con velocità u. Dopo un tempo t ≠ 0 (lo stesso di figura 38) l’elettrone occuperà su S la posizione x0; la posizione x che esso occuperà rispetto ad S’ sarà data da (figura 39):

    x0 = x + d      ->        x = x0 – d        ->          x = x0 – vt.

Quanto detto, esteso alla prima delle trasformazioni (10), ci fa ottenere:

e, più in generale, cambiando opportunamente i simboli adottati:

E’ importante rendersi conto che questi passaggi non sono stati fatti esplicitamente da Lorentz; è solo una ricostruzione a posteriori che permette di farli, tenendo conto, tra l’altro, di un lavoro di Lorentz del 1909, La teoria degli elettroni, (640) nel quale è sostenuto un qualcosa del genere. Ora è di gran rilievo il fatto che le trasformazioni (l0) che Lorentz ha introdotto possono essere scritte, al massimo, con l’introduzione di quanto appena ricavato nella sola prima equazione, in modo da ottenere le equazioni (11) di trasformazione.

Ciò vuol dire che Lorentz non esegue la medesima sostituzione nelle due x che compaiono nelle (10). In particolare, egli non esegue la sostituzione della trasformazione di Galileo per la posizione, nella x che compare nell’espressione del tempo locale. E ciò è in accordo con quanto sostenuto altrove: il tempo locale è diverso per coordinate diverse del sistema in moto; esso varia al variare della posizione del sistema in moto; per esso non può essere stabilita simultaneità; ogni posizione occupata dal sistema in moto ha un suo tempo proprio.

            Passiamo ora ad occuparci del lavoro di Poincaré, Sulla dinamica dell’elettrone, (641) del giugno 1905, appena tre mesi prima del lavoro di Einstein sull’ Elettrodinamica dei corpi in movimento (settembre 1905), del quale ci occuperemo ampiamente nel paragrafo 2 del Cap. V (prossimo articolo).

           Poincaré, che in varie occasioni si era espresso in modo molto favorevole riguardo al lavoro di Lorentz del 1904, sentì la necessità di intervenirvi sopra. Egli sosteneva:  (642)

L’importanza del problema mi ha spinto a riprenderlo in esame; i risultati che ho ottenuto sono in accordo con quelli trovati dal Sig. Lorentz su tutti i punti importanti; io sono stato solamente condotto a modificarli ed a completarli in qualche punto di dettaglio; si vedrà più avanti che le differenze sono d’importanza secondaria.”

Passando ad un confronto della teoria di Lorentz e delle sue trasformazioni (che egli chiama trasformazioni di Lorentz) con quelle sviluppate da altri, ed in particolare  da  P.  Langevin  (1872-1946),  egli  optò  per  la teoria di Lorentz, poiché, l’altra, risultava incompatibile con il postulato di relatività (anche questa è una denominazione introdotta da Poincaré) che avrebbe dovuto permettere di scrivere le equazioni di Maxwell esattamente nella stessa forma per due sistemi di riferimento in moto traslatorio uniforme l’uno rispetto all’altro (ed il lavoro di Lorentz si avvicinava molto a questa possibilità, anche se non completamente).

         Poincaré si proponeva quindi di ritrovare i risultati di Lorentz “per altra via, facendo ricorso ai principi della teoria dei gruppi“, (645)  tenendo conto di un elemento molto importante,di natura più fisica,così introdotto da Poincaré:

se  si  vuole  conservare [la  teoria  di  Lorentz]  ed evitare  delle  contraddizioni intollerabili, bisogna supporre una forza speciale che spieghi contemporaneamente e la contrazione e la costanza di due degli assi.” (644)

Qui Poincaré si rendeva conto che l’elettrone deformabile di Lorentz poteva  arrivare ad esplodere e pertanto era necessario tener conto di una sorta di tensione interna dell’elettrone, di origine sconosciuta, che impedisse il disintegrarsi dell’elettrone.

        Inoltre Poincaré  introduceva un problema nuovo in connessione con l’elettrodinamica: che tipo di influenza hanno tutte le nostre teorie sulle leggi della gravitazione ? Egli diceva: (645)

non possiamo accontentarci di formule semplicemente giustapposte e che vanno d’accordo solo per una felice coincidenza; occorre, per così dire, che queste formule arrivino a compenetrarsi mutuamente.”

Una strada sembrava essere individuata da Poincaré quando affermava:  (646)

se noi ammettessimo il postulato di relatività, [le leggi dei fenomeni fisici sono le stesse per un osservatore in quiete e per un osservatore che si muove di moto traslatorio uniforme], troveremmo nella legge di gravitazione e nelle leggi dell’elettromagnetismo un numero comune che sarebbe la velocità della luce; e lo ritroveremmo ancora in tutte le altre forze di origine qualunque.”

E ciò si può spiegare o ammettendo che questo fatto non è che una apparenza, un qualcosa che dipende dal nostro sistema di misura, o ammettendo che tutti i fenomeni sono di origine elettromagnetica.  

        Fatte queste premesse, Poincaré iniziò la sua memoria riscrivendo le equazioni di Maxwell ed avvertendo che il sistema di unità di misura da lui usato è tale che la velocità c della luce risulta uguale ad 1 (numero puro). Ora, secondo Poincaré, le equazioni di Maxwell possono essere semplificate mediante l’introduzione di una notevole trasformazione introdotta da Lorentz. E questa trasformazione è interessante per il nostro poiché spiegava il perché certe esperienze che volevano evidenziare il moto della Terra rispetto all’etere ci fornivano risultato nullo. Quindi l’attenzione andava a centrarsi su queste trasformazioni che Poincaré riscrisse cambiando le posizioni iniziali (5) di Lorentz nel modo seguente:

dove g ed e sono due costanti qualunque, da determinarsi. Ed in base alle proprietà dei ‘gruppi‘, studiati dal matematico norvegese S. Lie (1842-1899), Poincaré trovò che g doveva risultare uguale ad 1, mentre e = v/c  (dal punto di vista algebrico della teoria dei  gruppi,  e  non può  essere che un numero puro). Con queste sostituzioni le (l2) diventano:

Queste trasformazioni non sono però corrette da un punto di vista dimensionale. Occorre dare significato fisico a quanto ottenuto per via matematica. Per rendere omogenee dimensionalmente le (l3) occorre; moltiplicare per c la quantità (v/c).t che compare a numeratore della prima delle (l3); dividere per c la quantità (v/c).x che compare a numeratore dell’ultima delle (l3). E ciò è corretto anche da un punto di vista algebrico perché, come si ricorderà, si era supposto c = 1. Si ottiene così:

e questo risultato ottenuto da Poincaré è quello che è oggi noto come il gruppo di trasformazioni di Lorentz, (648) quello che, per via completamente diversa, fu ricavato da Einstein nella sua memoria del 1905. Ora, finalmente, le equazioni dell’elettromagnetismo risultano invarianti rispetto a questo gruppo di trasformazioni.

        E’ interessante mostrare che se , nelle trasformazioni ricavate da Lorentz scritte nella forma (11), si esegue la trasformazione di Galileo oltre che nella prima anche nella quarta equazione (quella per il tempo locale), si ottiene il medesimo risultato (14) trovato da Poincaré.

        Scriviamoci allo scopo la quarta delle (11)  e sostituiamo alla x la quantità x – vt ottenuta, come abbiamo visto, mediante una trasformazione di Galileo:

Lo stesso Lorentz, la cui onestà intellettuale deve essere sottolineata con forza in tempi come quelli in cui viviamo, riconobbe posteriormente che le sue trasformazioni erano incomplete; dirà Lorentz: (649)

Si noterà che in questo lavoro le equazioni di trasformazione della Relatività di Einstein non sono state ottenute del tutto … Io non sono stato capace di far sparire il termine – vu’x/c2  nella equazione [di Maxwell per lo spostamento elettrico] e di porre questa equazione..nella forma che vale per un sistema a riposo.”

        Ritornando a Poincaré, pur non stando qui a soffermarci sull’importanza e complessità del suo contributo, occorre sottolineare che esso non può essere banalmente considerato come correttivo; “basti solo notare che con Poincaré si assiste ad un capovolgimento del programma di Lorentz: mentre per quest’ultimo si trattava di ricercare una spiegazione dell’inosservabilità del moto della Terra attraverso l’etere, per Poincaré questa inosservabilità è conseguenza del postulato di relatività che egli assume all’inizio della sua trattazione. E’ in questo quadro di riferimento che la teoria di Lorentz viene accolta da Poincaré: come egli stesso dimostra,

l’ipotesi di Lorentz è l’unica che sia compatibile con l’impossibilità di mettere in evidenza il moto assoluto; se si ammette questa impossibilità, bisogna ammettere che gli elettroni in moto si contraggono così da diventare degli ellissoidi di rivoluzione, due degli assi dei quali rimangono costanti; bisogna dunque ammettere … l’esistenza di un potenziale supplementare proporzionale al volume dell’elettrone.”    (650)

E’ così dunque che l’ipotesi della contrazione, ritenuta in precedenza dallo stesso Poincaré come artificiosa, viene ora pienamente accolta. Inoltre, all’interno della trattazione del fisico-matematico francese, diverse delle ipotesi che Lorentz era stato precedentemente costretto ad introdurre, divengono semplici conseguenze della teoria che ha come presupposti il principio di relatività e la contrazione dell’elettrone.  

        Ci sono altri contributi di Poincaré che meritano di essere ricordati, anche per quanto dovremo discutere in seguito. Il primo è relativo al problema, che per la prima volta viene posto, della sincronizzazione di due orologi, nell’ ipotesi di esistenza del tempo locale. (651)

        In una conferenza tenuta a St Louis (USA) nel 1904, Poincaré, riferendosi ai risultati dei lavori di Lorentz, diceva: (652)

L’idea più ingegnosa [di Lorentz] è stata quella del tempo locale. Immaginiamo due osservatori che vogliano sincronizzare i loro orologi mediante segnali luminosi. Si scambiano i segnali ma, poiché sanno che la trasmissione della luce non è istantanea, nell’intercettarli adottano delle precauzioni. Quando la stazione B avverte il segnale della stazione A, il suo orologio non deve segnare la stessa ora di quello della stazione A al momento della emissione del segnale, ma questa ora aumentata di una costante che rappresenta la durata della trasmissione. Supponiamo, per esempo, che la stazione A invii il suo segnale quando il suo orologio segna l’ora zero e che la stazione B l’avverta quando il suo orologio segna l’ora t. Gli orologi risultano sincronizzati se il ritardo, uguale a t, rappresenta la durata della trasmissione. Per verificarlo la stazione B manda a sua volta un segnale quando il suo orologio segna l’ora zero; allora la stazione A deve avvertirlo quando il suo orologio segna t. In questo caso gli orologi risultano sincronizzati. Effettivamente segnano la stessa ora alle stesso istante fisico, ma ad una condizione: che le due stazioni siano immobili. In caso contrario la durata della trasmissione non sarà la stessa nei due sensi, poiché, ad esempio, la stazione A va incontro alla perturbazione ottica emessa da B, mentre la stazione B si allontana rispetto alla perturbazione emessa da A.  (653)  Gli orologi sincronizzati in questo modo non segneranno allora il tempo vero; segneranno quello che si può chiamare il tempo locale (654) di modo che uno di essi ritarderà rispetto all’altro. Poco importa perché non abbiamo alcun mezzo per avvertirlo. Tutti i fenomeni che, ad esempio, si producano in A staranno in ritardo, ma tutti avranno lo stesso ritardo e l’osservatore non lo avvertirà poiché il suo orologio ritarda. (655)  E, così come richiede il principio di relatività, non avrà mezzo alcuno per sapere se è in riposo o in movimento assoluto.” (656)

Un altro tema, rilevante per le asimmetrie che comporta, fu affrontato da Poincaré nella conferenza di St Louis; quello di due cariche elettriche statiche che si muovono con la Terra attraverso l’etere. Scriveva Poincaré:  (657)

Supponiamo di avere due corpi elettrizzati che se anche ci sembrano in riposo, sono trascinati dal moto della Terra. Una carica elettrica in moto, ce l’ha insegnato Rowland, equivale ad una corrente; questi due corpi carichi equivarranno quindi a due correnti parallele e con lo stesso verso, e queste due correnti dovranno attrarsi. (658) Misurando questa attrazione misureremmo la velocità della Terra e non la sua velocità rispetto al Sole o alle stelle fisse, ma la sua velocità assoluta … Questa attrazione elettrodinamica si sottrae alla repulsione elettrostatica e la repulsione totale è più debole che se i due corpi si trovassero in riposo. Però, poiché per misurare questa repulsione dobbiamo equilibrarla con un’altra forza e poiché tutte queste forze si trovano ridotte nella stessa proporzione, non avvertiremo il fenomeno.”

Infine, ad ulteriore sostegno del principio di relatività, Poincaré ideò un’immagine fantastica non priva di suggestione ed ancora oggi spesso utilizzata. (659)  Scriveva Poincaré, riguardo alla relatività dello spazio:  (660)

Supponiamo che, in una notte, tutte le dimensioni dell’Universo divengano più grandi: il monde resterà simile a se stesso … Solamente ciò che aveva la lunghezza di un metro, misurerà ora un chilometro; quello che misurava un millimetro misurerà un metro. Il letto in cui dormo ed il mio corpo si sarebbero ingranditi della stessa proporzione; quando mi svegliassi la mattina seguente, che cosa proverei di fronte ad una trasformazione così sorprendente ? Beh, semplicemente non mi accorgerei di nulla. Le misure più raffinate non sarebbero in grado di rivelarmi niente di questa immensa rivoluzione, dato che i metri di cui mi servirei sarebbero variati nella stessa proporzione che gli oggetti che io andrei a misurare con essi. In realtà questo scompiglio non esisterebbe altro che per quelli che ragionano come se lo spazio fosse assoluto.”

***

        A conclusione di questo paragrafo si può dire che, agli inizi del XX secolo, la teoria di Lorentz era in grado di rendere conto di quasi tutti i fenomeni elettromagnetici noti. (661)  II programma di Lorentz, di ricondurre tutti i fenomeni fisici (anche quelli meccanici) ai comportamenti dei microscopici elettroni (riduzionismo), era giunto al suo compimento. Nell’evolversi della costruzione della teoria, abbiamo assistito ad “un rovesciamento dei rapporti tra meccanica ed elettromagnetismo, nella prospettiva di fondare la prima sulle basi di quest’ultimo.” (662)  Concetti ben consolidati nella tradizione fisica ne sono usciti completamente modificati; forze che dipendono dalla velocità, lunghezze che si contraggono, masse che variano al variare della velocità, tempi locali, il principio di azione e reazione posto in discussione, … Questo caro prezzo pagato in certezze rende ben conto della profondità, complessità ed intensità dei problemi che si ponevano. Eppure “tutta questa serie di innovazioni e di rotture rispetto alla tradizione newtoniana sono accettate purché sia fatta salva la capacità del quadro di riferimento globale (etere, particelle e loro  interazioni) di garantire l’interpretazione dei fenomeni.” (662)

        Paradossalmente si era operato in questo senso per garantire un supporto materiale a quelle onde elettromagnetiche che, questo si, non si poteva ammettere viaggiassero nel vuoto. Questo supporto materiale era poi sempre diventato più immateriale, fino al punto che era sfuggito ad ogni possibile ricerca. E pur non mostrandosi, l’etere era di fatto diventato quello spazio e riferimento assoluto di newtoniana memoria.

        La fisica newtoniana mostrava varie falle che occorreva chiudere al più presto ma, nel contempo, mostrava tutta la sua potenzialità esplicativa, proprio quella che aveva condotto alle così complesse elaborazioni di Lorentz,

NOTE

(565) I brani qui riportati sono tratti da bibl. 84, pagg. 159-160.

(566) Su questi argomenti Lorentz tornerà nel discorso inaugurale da lui tenuto, il 25 gennaio 1878, all’atto di prendere possesso della cattedra di fisica teorica presso l’Università di Leiden. 

(567) La formula della dispersione di Lorenz-Lorentz è:

(n2 + 2)/(n2 – 1) = (A – B/λ2)/(C/λ2 – D)

dove n è l’indice di rifrazione, A, B, C, D sono delle costanti e λ la lunghezza d’onda della luce nel vuoto.  

(568) Un qualcosa di analogo era stato sostenuto da L. Lorenz nel 1867 (si veda il paragrafo 3 del capitolo III).

(569) Citato in Hirosige, bibl. 114, pag. 175.

(570) Elaborò (l880) una teoria cinetica della propagazione del suono; confermò (l88l) la validità dell’equazione di Van der Waals per i gas reali (che era stata messa in discussione da Maxwell); si occupò (l886) dell’effetto termoelettrico da un punto di vista termodinamico; completò (1887) il famoso teorema H di Boltzmann, che stabiliva l’unidirezionalità del tempo nei processi descritti dalla teoria cinetica, in modo analogo a quanto la termodinamica aveva ricavato per l’entropia.  

(571) H.A. Lorentz: La théorie électromagnetique de Maxwell et son application aux corps mouvants, Arch. neerl., 25; l892; pag. 363.

Occorre qui ricordare che, prima del 1892, Lorentz aveva scritto un’altra memoria, quella del 1886 (della quale abbiamo già parlato diffusamente alla fine del paragrafo precedente), nella quale si discuteva della Influenza del moto della Terra sui fenomeni luminosi e con la quale si andavano ampliando i suoi interessi in direzione dell’elettrodinamica dei corpi in movimento. E’ questa la memoria nella quale si sviluppava la teoria dell’interazione tra etere e materia, dell’immobilità dell’etere e del suo trascinamento parziale in alcune condizioni, dopo una discussione nella quale si dimostrava l’inconsistenza della teoria di Stokes e si metteva in discussione l’attendibilità dei risultati dell’esperimento di Michelson del l88l. In questa memoria l’etere e la materia giocavano ancora ruoli diversi; la materia costituita da cariche elettriche particellari e l’etere che, nei fatti, è esso stesso campo. In questa costruzione è sempre la carica elettrica, che con le sue oscillazioni origina il campo, l’elemento di unione tra l’etere e la materia.

(572) Occorre notare che la stesso Lorentz annunciò la sua conversione in una conferenza, Elettricità ed etere, che egli pronunciò al Congresso Olandese di Fisica e Medicina nell’aprile del 1891;  in questa conferenza egli addusse anche le ragioni per le quali la teoria di Maxwell era preferibile a quelle della scuola continentale. Si deve inoltre notare che Lorentz fu aiutato a modificare le sue concezioni anche dalla lettura di un lavoro di Poincaré: Électricté et optique. I.   Les théories de Maxwell et la théorie électromagnetique de la lumière, Parigi, 1890.

(573) In questa memoria e soprattutto in quella successiva del 1895 Lorentz parla di ioni. Solo nella memoria del 1899 si  introduce il termine elettrone. L’idea di una struttura discontinua della carica elettrica che portò poi alla scoperta dell’elettrone cominciò a porsi in relazione agli esperimenti di Faraday sull’elettrolisi del 1833. Questi esperimenti, come già accennato, rivelarono alcuni fatti inattesi e peraltro non spiegati dallo stesso Faraday, perché ad un elettrodo si liberi un grammo-atomo di un elemento di valenza Z, facente parte del composto in questione, la soluzione elettrolitica deve essere attraversata sempre da una quantità di elettricità pari a Z volte 96.522 Coulomb. La spiegazione di questo fenomeno fu data nel l874 dall’irlandese G.J. Stones (1826-1911). Egli mostrò che se la materia e l’elettricità sono considerate discontinue e formate di tante piccole particelle, allora tutti gli esperimenti di Faraday diventano semplici da spiegare. Se ciascun atomo di materia nel passare attraverso la soluzione elettrolitica porta con sé una quantità di carica definita e ben determinata, allora la quantità di materia depositata su di un elettrodo sarà direttamente proporzionale a questa quantità di carica. Ora, un grammo-atomo di materia contiene un numero di atomi pari a N (numero di Avogadro) e quindi ciascun atomo trasporta una carica q pari a:  

                       q = Z. (96.522/N) coulomb.

Così la carica che ogni ione elettrolitico di qualsiasi tipo esso sia, trasporta è sempre multipla di 96.522/N, che quindi  risulta essere la carica elementare (e). Il lavoro di Stoney fu pubblicato solo nel 1881 (Phil. Mag. 11, 384; 1881) anno in cui anche Helmholtz era diventato un fervente sostenitore dell’esistenza di questa carica elementare (J. Chem. Soc. 39, 277;1881). E’ importante sottolineare l’adesione di Helmholtz a questa teoria poiché il prestigio di cui egli godeva permise una più rapida propagazione dell’idea. Fu comunque ancora Stoney che ne1 1891 diede alla supposta carica elementare il nome di elettrone.

Va comunque notato che, come osserva Wittaker (bibl.112, Vol.1, nota 3 di pag. 392), al di là di uno stimolo concettuale, l’elettrone in quanto tale, così come era postulato dai lavori di Stoney ed Helmholtz, non ebbe alcuna influenza sullo sviluppo della teoria elettromagnetica. Anche la stessa scoperta sperimentale dell’elettrone, fatta da J.J. Thomson ne1 1897, non modificò in nulla l’elettromagnetismo classico. L’unica conseguenza che ebbe fu il fornire una solida base alla teoria di Lorentz. La ragione di ciò risiede nel fatto che, per l’elettromagnetismo classico, è poco importante che esistano delle particelle che possiedono la stessa carica. L’importante è che si abbiano delle cariche particellari, infatti  “l’uguaglianza o la disuguaglianza di queste cariche non fa differenza per le equazioni. Per fare un esempio dalla meccanica celeste, non vi sarebbe alcuna d ifferenza nelle equazioni se le masse dei pianeti fossero tutte uguali“. Il fatto però che si fosse riusciti ad individuare ima carica elementare per altri versi ebbe una ricaduta enorme nella fisica: nello sviluppo della fisica dei quanti e della fisica atomica.

(574) Nella memoria citata in nota 571. La traduzione dei brani riportati è tratta da bibl. 84, pag. 167-174.  

(575) II primo che aveva dedotto questa formula in modo corretto era stato Heavisi de nel 1889; J.J. Thomson vi si era avvicinato nel l88l. Come si può vedere la relazione che fornisce la forza di Lorentz è composta dalla somma di due termini; uno rappresenta l’azione sulla carica da parte del campo elettrico E, l’altro l’azione sulla carica in moto da parte del campo magnetico B. Si può subito ricavare che,  nel caso di carica ferma (v = 0), l’unica forza che agisce è la ben nota relazione elettrostatica F  = qE. In assenza poi di campo elettrico (E = 0) e nelle condizioni corrispondenti ad  a=90°, si trova F  = qvB. 

(576) Bibl. 120, pag. 32.

(577) O.J. Lodge: On the present state of our knowledge of the connection between ether and matter: an historical summary, Nature, 46, 165; 1892; pagg. 164-165. Si veda. bibl. 122.        

(578) La prima volta che Fitzgerald pubblicò i suoi risultati in proposito fu nel 1902, nel Vol. 34 dei suoi Scritti scientifici pubblicati a Dublino dalla University Press.         

(579) Nella nota 2 a pag. 121 di bibl. 134, Vol. 5, in un lavoro di Lorentz del 1895, quest’ultimo affermò che non conosceva l’ipotesi di Fitzgerald. Conoscendo l’onestà intellettuale di Lorentz c’è da crederci.

(580) H.A. Lorentz: The  Relative Motion of the Earth and the Ether, Arch. Néerl. Sci., 25, 363; 1892. Riportato su bibl. 134, Vol.4, pagg. 219-223.

(581) H.A. Lorentz: Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erscheinungen in bewegten Körpen, pubb licata su bibl. 134, Vol 5, pagg. 1-137. La parte di questa memoria relativa all’esperienza di Michelson è stata tradotta in inglese e pubblicata in bibl. 131, pagg.3-7. Una sintesi di questa parte è anche tradotta in italiano in bibl.123, pagg. 145-148.

(582) Bibl. 134, Vol. 4, pagg. 221-222.

(583) Ibidem.

(584) Bibl.131, pagg. 4-6. Si veda anche bibl. 123, pagg. 146-148, dalla quale è stata ripresa la traduzione di questo brano.  

(585) Allo stesso risultato e nello stesso periodo era arrivato anche Heaviside.

(586) E’ utile notare che nel 1892 Lorentz aveva fornito per la contrazione il valore approssimato 1 – v2/2c2, che si ottiene dal valore dato  nel 1895, (1 – v2/c2)1/2 sviluppato in serie secondo il binomio di Newton e fermandosi al secondo ordine in v/c (come abbiamo visto nel paragrafo precedente).

(587) Quanto qui sostenuto è in accordo con quanto dice D’Agostino. Allo scopo si veda bibl.113, pag.35 e bibl.l5, fasc. Xl(c), pagg.11-12. Anche in bibl.54, pag.163 ed in bibl. 132, pag.58 è sostenuta la stessa tesi. L’eventuale ipotesi ad hoc starebbe nell’estensione delle forze elettriche e magnetiche alle forze molecolari.

(588) Bibl. 131, pagg. 5-6.

(589) Ibidem, pagg. 6-7.

(590) Si confronti anche con bibl. 113, pag. 135.

(591) Bibl. 131, pag. 6.

(592) Sulla questione della  simultaneità, che ora sembra scontata, dovremo tornare in seguito.

(593) Anche se non ne farò cenno nel testo, va ricordato che in questa memoria Lorentz ricaverà, in modo più semplice ed in un caso più generale, il coefficiente di trascinamento di Fresnel.

(594) Si veda la nota 524.

(595) La possibilità di operare in questo modo era stata mostrata dal fisico statunitense J. W.  Gibbs (1839-1903) nel 1882-1883. Allo scopo si veda bibl. 112, vol.I, pag. 396, nota 4.

(596) Bibl. 134, Vol.V, pag. 84. Si osservi che questo enunciato differisce leggermente da quello di Lorentz per il simbolo utilizzato per la velocità v e per gli apici sulle funzioni e sulle variabili.

(597) Lorentz aveva già introdotto un’equazione di trasformazione per la variabile tempo, come risultato di un cambiamento di coordinate, nella sua memoria del 1892:  t’ =  t – v/[c2(1 – v2/c2]1/2 (supponendo uno spostamento lungo l’asse x di un sistema in moto con velocità v rispetto ad un sistema in riposo).

(598) Ibidem, pag. 50. Citato in bibl. 114, pag. 207.

(599) E’ interessante riportare il modo con cui Kottler introduce il tempo locale (bibl.l46, pagg.240-24l):

” Consideriamo al tempo t un’onda luminosa emessa al tempo zero da una sorgente di luce in movimento; essa si trova su una superficie sferica di raggio ct, e la sorgente luminosa si è allontanata dal centro di questa superficie della distanza vt nel verso del moto. I cammini percorsi dalla luce durante il tempo t appaiono allora come delle lunghezze disuguali, minima nella direziono del moto (c – v)t, e massima nella direzione contraria (c + v)t. Di conseguenza è estremamente scomodo il tenerne conto nel calcolo, poiché, per ogni direzione, bisogna considerare un’altra velocità. Il tempo locale di Lorentz fornisce un mezzo di calcolo comodo. Per esempio, invece di rappresentarci, nel verso del moto, un moto della luce di velocità c – v, avente luogo nel tempo t, possiamo rappresentarci un moto di velocità invariabile c, ma avente luogo durante un tempo più breve t’1, tale che il tragitto della luce resti lo stesso: ct’1 = (c – v)t . In modo analogo, per il verso opposto si ha in luogo della velocità più grande c + v > c, un tempo t’ più lungo: ct’2 = (c + v)t. In modo del tutto generale, per una qualunque direzione r, si ha, in luogo della velocità variabile c – vr, dove vr è la componente del moto della Terra per la data direzione, si considera il tempo variabile t’, dato che il tragitto della luce ct’  =  (c – vr)t resta invariabile. Da questo si ricava t’  =  (ct – vrt)/c [= t – vrt/c  = t – vrc t/c2]  =  t – vr r/c2, dove r = ct è il raggio dell’onda sferica.”

(600) Anche questo argomento, oltre a quelle relativo all’ipotesi della contrazione , fa concludere a Lorentz che è impossibile rilevare il moto della Terra rispetto all’etere, almeno al primo ordine di v/c.

(601) E’ interessante notare, con D’Agostino (bibl.113, pag.34), il modo con cui Lorentz costruisce la teoria  “per passi successivi, a partire da formulazioni matematiche a cui si attribuisce progressivamente significato fisico”.

(602) La spiegazione dell’effetto Zeeman si può ricavare solo dalla fisica quantistica. Per una fortunata coincidenza la teoria di Lorentz riusciva a renderne conto nel caso in cui l’effetto era normale. Nel caso più generale e più frequente, l’effetto Zeeman è anomalo, le righe che si producono formano uno spettro molto complicato, ed in nessun modo è riconducibile alla teoria di Lorentz. Si noti che la spiegazione teorica completa dell’effetto Zeeman normale fu elaborata e pubblicata da Lorentz nel 1897 (Phil. Mag., Vol. 43, pag. 232; 1897). Alla fine dello stesso anno T. Presten scoprì l’effetto anomalo.

(603) Bibl. 134, pag. 28. Citato in bibl. 111, pagg. 334-335.

(604) Anche Heaviside (1886 e 1891) si era scontrato con questo problema ed aveva percorso tutte le possibili strade per portarlo a soluzione, ma mai aveva ipotizzato il rigetto del principio di azione e reazione. 

(605) H. Poincaré: À propos de la théorie de M. Larmor, L’éclairage éléctrique, Vol.3, pagg.5-13 e pagg. 285-295; Vol. 5, pagg. 5-14 e pagg.385-392; ottobre 1895. Il fisico irlandese J. Larmor (1857-1942) aveva sviluppato una teoria, elaborazione di una teoria del suo compatriota J. Mac Cullagh (1809-1847), che considerava 1’etere come etere girostatico, rotazionalmente elastico. La teoria era stata inoltre applicata da Larmor alla spiegazione dei fenomeni elettromagnetici ed ottici; tutto, come faceva rilevare Poincaré, con grandi difficoltà.

(606) Ibidem, pag. 412. Citato in inglese in bibl. 145, pag. 936. Occorre notare che questa formulazione, negli anni seguenti, sarà chiamata da Poincaré principio di relatività. Vari autori, a partire da Whittaker (bibl.112, Vol.II, pagg.27-55; e, come esempio, bibl. 114), hanno creduto di poter attribuire la prima formulazione relativistica a Poincaré, in connessione con Lorentz, proprio dal brano qui riportato e da altri che vedremo più avanti. Non condivido questa posizione in accordo con altri autori (si veda, ad esempio, bibl.54, 132, 133, 145),  per i motivi che saranno discussi in seguito. Ora basti solo osservare che qui il supposto principio di relatività  viene affermato come legge empirica in attesa di una teoria che possa renderne conto.

(607) Ibidem,  pag. 413. Citato in   inglese  in   bibl. 145,   pag.  936.

(608) H. Poincaré: La théorie de Lorentz et le principe de reaction, scritta in occasione del 25° anno del dottorato di Lorentz e pubblicata in Recueil de travaux offert par les auteurs à H. A. Lorentz, Arch.Keerl., Vol.5, pag. 272; 1900.

Alcuni fatti accaduti tra il 1895 ed il 1900 vanno qui ricordati.

– Nel 1897 J.J. Thomson aveva scoperto l’elettrone (J.J. Thomson, On cathode rays,Phil. Mag., Vol.44; 1897) e nel 1899 ne aveva misurato la carica e la massa (J.J. Thomson, On the masses of ions in a gas at low pressure, Phil. Mag., Vol.48; 1899. Si noti che, soprattutto nella scuola britannica, il termine elettrone aveva il significato di ione monovalente e non quello attuale che fu invece suggerito da O. Drude (1852-1933) nel 1900). Anche se questa scoperta non aveva un legame diretto con la teoria elettromagnetica (si veda la nota 573), pure essa valse da possente sostegno alla teoria di Lorentz.

– Nel 1898 era uscito un articolo di Poincaré,  La mesure du temps  (Revue de Métaphysique et de Morale; riprodotto in La valeur de la science, cap II; 1905. Si veda bibl.142, pagg.32-44), nel quale l’autore si occupa del problema della simultaneità e della sincronizzazione degli orologi. Tra l’altro, in questo lavoro, l’autore afferma:  “Ho cominciato con l’ammettere che la luce ha una velocità costante e, in particolare, che la sua velocità è la stessa in tutte le direzioni. Questo è un postulato senza il quale nessuna misura di questa velocità potrebbe essere tentata. Questo postulato non potrà mai essere verificato dall’esperienza. Questa potrebbe contraddirlo se i risultati delle diverse misure non fossero concordi … [Ebbene questo postulato] ci ha fornito una nuova regola per lo studio della simultaneità ...” così noi sappiamo, per esempio, che una data eclissi di Luna non è avvertita simultaneamente in tutti i punti del globo e questo perché la propagazione della luce non è istantanea e richiede tempi differenti per percorrere distanze diverse. In definitiva, il problema della simultaneità è un problema di misura di tempi e noi non possediamo una intuizione diretta della suddetta simultaneità e neppure dell’uguaglianza di due durate. A ciò serve solo osservare, con Goldberg (bibl.145, pag.939), che il postulato della costanza della velocità della luce qui enunciato “è uno ben strano postulato, che non può essere verificato dall’esperienza, e che può essere contraddetto da essa“. Secondo Goldberg, più che di un postulato, si tratta dell’ipotesi più comoda. Oltre a questo, Goldberg osserva: “La maggior parte dei tentativi di determinare il moto relativo della terra e dell’etere nel diciannovesimo secolo sono stati caratterizzati dal fatto che la velocità della luce doveva essere differente in differenti sistemi di riferimento. Avrebbe Poincaré potuto dire che senza il sistema di riferimento privilegiato [l’etere] la velocità sarebbe stata costante ?” (ibidem).

– Nel 1899 Lorentz aveva pubblicato un altro lavoro, Théorie simplifiée des phénomenes électriques et optiques dans des corps en mouvement (bibl. 134, Vol. V, pagg. 139-155), nel quale venivano ripresi tutti i temi trattati nella Versuch del 1895. A parte il fatto che, a seguito della scoperta di J.J. Thomson, si introduce per la prima volta il termine elettrone in sostituzione di ione (fino ad allora usato), in questa memoria il calcolo viene affinato e molte ipotesi semplificative renderanno più agevole l’intera teoria. Vengono di  nuovo date le equazioni di trasformazione per il tempo e per lo spazio in una forma quasi identica a quella definitiva che si avrà solo nella memoria del 1904. Si avanza infine la possibilità di spiegare l’esperimento di Michelson includendo nella trasformazione delle coordinate termini al secondo ordine in v/c, trascurati nella Versuch. E’ interessante notare, con lo stesso Lorentz, che questa possibilità            comporterebbe delle strane conseguenze come, ad esempio, la variazione della massa degli elettroni. Lorentz commenta ciò affermando (bibl.l34, Vol.V, pag. 154. Citato in francese  in bibl.113, pag.37):

Questa idea non è del tutto inammissibile, poiché la massa effettiva di un elettrone può dipendere da ciò che avviene nell’etere, e durante una traslazione la direzione di questa ed una direzione perpendicolare non sono equivalenti. Se questa idea potesse essere ammessa si potrebbe dedurre, nel modo indicato dalle nostre formule, da uno stato di moto su una terra in riposo, uno stato di moto che sarebbe possibile nello stesso sistema ma collocato su una terra in moto. Ed è degno di nota che le dilatazioni determinate dalle [formule di trasformazione delle coordinate spaziali] sono precisamente quelle che io ho dovuto ammettere per spiegare l’esperienza del Sig. Michelson.”

E ciò vuol dire che la variazione della massa dell’elettrone risulta tale da uguagliare la contrazione precedentemente ammessa per rendere conto dell’esperienza di Michelson.

– Nel 1900 Larmor, nel suo lavoro Aether and. matter (Cambridge University Press, 1900), afferma la necessità di estendere le equazioni di trasformazione di Lorentz ad ordini superiori di v/c. Egli osserva anche che, vista vera la contrazione di Lorentz-Fitzgerald, un orologio che si muovesse con una velocità v rispetto all’etere, dovrebbe rallentare del rapporto l/(1 – v2/c2)1/2 .

– Nel 1900 Poincaré torna sul principio di relatività in una comunicazione letta al Congresso internazionale di fisica che ebbe luogo a Parigi in quell’anno (la comunicazione è stata pubblicata su La scienza e l’ipotesi, capitoli 9 e 10. Si veda bibl.140, pagg. 137-173). Egli dice (ibidem, 165-166):

Io non credo, malgrado Lorentz, che osservazioni più precise possano mai mettere in evidenza altro che spostamenti relativi dei corpi materiali. Si son fatte esperienze, che avrebbero dovuto svelare i termini del primo ordine: i risultati sono stati negativi … Si è cercata una spiegazione generale, e Lorentz l’ha trovata … Allora si son fatte esperienze più precise [al secondo ordine di v/c]; anch’esse sono state negative … Occorreva una spiegazione; la si è trovata. Se ne trovano sempre: le ipotesi sono la base che non viene mai meno. Ma ciò non è abbastanza … Non è anche un caso questo singolare concorso, il quale fa si che una certa circostanza [teorema degli stati corrispondenti] giunga proprio a punto per annullare i termini del primo ordine, e che un’altra circostanza [la contrazione], del tutto differente, ma anch’essa opportuna, si incarichi di annullare quelli del secondo ordine. No, bisogna trovare una medesima spiegazione per gli uni e per gli altri; e allora, tutto ci porta a pensare che questa spiegazione varrà egualmente per i termini d’ordine superiore, e che l’annullamento reciproco di questi termini sarà rigoroso ed assoluto“. 

Poincaré puntava quindi all’unificazione della teoria manifestando la sua insoddisfazione all’accumularsi di ipotesi successive per rendere conto dei fatti sperimentali che via via si presentavano. In particolare, la sua insoddisfazione relativa alla prima formulazione dell’ipotesi della contrazione fatta da Lorentz (1895) emerge anche dalla lettura della seconda edizione di Électricité et optique (G.Carré e C. Naud, Parigi 1901) nella quale Poincaré sostiene: “Questa strana proprietà sembra essere, nei fatti, un colpo di pollice fornito dalla natura per evitare che il moto della terra sia messo in evidenza mediante fenomeni ottici” (citato in bibl. 145, pag. 937).

(609) Si veda anche Science et Méthode, libro III°, cap.2°,  par.3° (bibl.141, pagg.l70-173)

(610) per dimostrare la validità del principio di azione e reazione occorreva provare che la radiazione elettromagnetica esercitava una pressione. Questa pressione era stata prevista da Maxwell nel Trattato del l873 (bibl. 76, pagg.591 e 592). Dice Maxwell: “l’effetto combinato dello sforzo elettrostatico ed elettrocinetico è una pressione uguale a 2p in direzione della propagazione dell’onda. Ora, 2p esprime pure l’energia complessiva nell’unità di volume. Perciò in un mezzo in cui si propagano delle onde c’è una pressione in direzione normale alle onde, numericamente uguale all’energia dell’unità di volume … Un corpo piatto esposto alla luce del sole subirebbe una pressione [pari a circa 4/100 di atmosfera al secondo] soltanto sul suo lato illuminato, e sarebbe perciò respinto dal lato su cui cade la luce [azione e reazione].” Il risultato previsto da Maxwell fu messo in dubbio ma, nel 1876, il fisico italiano A. Bartoli (1851-1896) mostrò che quanto affermato da Maxwell era una necessaria conseguenza del 2° principio della termodinamica. La pressione di Maxwell-Bartoli fu evidenziata sperimentalmente dal fisico russo P.H.Lebedev (1866-1911) nel 1899. E certamente del fatto non era a conoscenza Poincaré nel 1900 (si noti che ancora nel 1909, nel suo scritto Scienza e Metodo, Poincaré, mentre parla della pressione di Maxwell-Bartoli, non fa cenno a Lebedev),

(611) H.A. Lorentz: Electromagnetic phenomena in a system moving with any velocity less than that of light, Proc. Amst. Acc., Vol.6; 1904. Si veda anche bibl. 134, Vol.5, pagg.172-197 e bibl.131, pagg.11-33. Occorre osservare che tra il 1900 ed il 1904 Lorentz si era occupato del problema del corpo nero pubblicando tre articoli: nel 1900, Teoria della radiazione e secondo principio della termodinamica; nel 1901, Le leggi dell’irraggiamento di Boltzmann e di Wien; nel 1903, Sull’emissione e l’assorbimento da parte di metalli di radiazion di colore di colore di grande lunghezza d’onda. Speoialmente in questa ultima memoria il corpo nero era trattato sulla base della teoria degli elettroni e Lorentz aveva trovato accordo con la formula di Rayleigh-Jeans nel caso di onde lunghe. Per queste tre memorie si veda bibl. 134, rispettivamente in: Vol.6, pagg. 265-279; Vol.6, pagg. 280-292; Vol.3, pagg. l55-176. Per quel che riguarda una breve trattazione del problema del corpo nero si veda l’articolo sulla Nascita della teoria dei quanti in questo sito.

(612) Per l’esperienza di Rayleigh si veda Phil. Mag. 6, 4; 1902; pag.678. Per quella di Brace, Phil. Mag. 6, 7; 1904; pag. 317.

(613) Per l’esperienza di Trouton e Noble si veda Phil. Trans. Roy. Soc. Lond., A.202; 1903; pag. 165. Si noti che questa esperienza fu suggerita agli autori da Fitzgerald.

(614) Particolarmente sviluppata da Heaviside. Anche la teoria degli elettroni prevedeva un medesimo effetto.

(615) Si osservi che, secondo la teoria, il momento della coppia doveva dipendere da termini al secondo ordine in v/c.

(616) Bibl. 131, pagg. 12-13. La traduzione è tratta da bibl. 123, pag.175 (la sottolineatura è mia).

(617) Al fine di ottenere equazioni più semplici e formalmente e dal punto di vista della loro risoluzione.  

(618) Ibidem, pag. 15. Per v/c piccolo, con la solita formula per lo sviluppo del binomio, si trova che g  ~  1 + v2/c2 .

(619) Ibidem.

(620) Un’altra trasformazione proposta da Lorentz in questa sua memoria è quella relativa alla velocità u di un dato elettrone rispetto al sistema di riferimento in moto (“in aggiunta alla velocità v“):  u’ = u/(1 – v2/c2)1/2 che è, anche qui, un utile cambiamento di variabili con in più il fatto che sono prive di qualunque significato fisico.  

(621) Bibl. 131, pag. 21.

(622) Ibidem.  

(623) Ibidem, pag. 22.

(624) Ibidem. Si noti che con quel da sé Lorentz assegna valore oltre che qualitativo anche quantitativo e reale alla deformazione.

(625) Ibidem, pagg. 22-23.

(626) Ibidem, pag. 23. I simboli da ree usati sono diversi da quelli di Lorentz.

(627) Ibidem, pag. 24.

(628) Abraham, del quale ci occuperemo nel prossimo paragrafo, aveva sostenuto che la massa dell’elettrone è di natura elettromagnetica (1902). Questa ipotesi era stata fatta propria da Lorentz,

(629) Ibidem.

(630) Ibidem, pag. 25.

(631) Ibidem, pag. 28.

(632) Ibidem, pag. 29. La sottolineatura è mia.

(633) Lorentz, a questo punto, sostiene che la sua teoria è data con le dovute riserve a seguito del fatto che la natura degli elettroni ed il loro moto non ci sono ben noti. Nonostante ciò la teoria spiega tutti i fatti sperimentali noti.

(634) L’ultimo paragrafo della memoria, Lorentz lo dedica alla discussione dei rapporti della sua teoria con quella di Abraham ed in modo particolare ai risultati delle esperienze di Kaufmann che sembrano confermare la teoria della massa trasversale di Abraham e dello stesso Lorentz. Su questi argomenti torneremo comunque nel prossimo paragrafo.

(635) Ibidem, pag. 30.

(636) Ibidem.

(637) Per approfondire quanto qui di seguito è sostenuto si pu vedere bibl. 133,  pagg. 116-122 e bibl. 132.

(638) “in quanto indicano una modificazione del sistema in moto rispetto al comportamento di quiete in funzione del valore assoluto della sua velocità di traslazione” (bibl. 133, pag. 119).

(639) Per quanto diremo è utile ricordare quanto da me scritto sulle trasformazioni di Galileo in bibl. 3, pagg. 137-139.

(640) H. A. Lorentz: The Theory of Electrons, Dover, New York, 1909. Si tratta di una raccolta di lezioni che Lorentz tenne alla Columbia University nel 1906.

(641) H. Poincaré: Sur la dynamique de l’électron, Compt. Rend., 140, 1504; 1905. Questo articolo non è altro che un breve sunto del secondo e ben più importante, dallo stesso titolo, pubblicato sui Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, 21, 129; 1906 (ma comunicato il 23 luglio 1905).

(642) Bibl. 139, pagg. 129-130.

(643) Ibidem, pag. 130.

(644) Ibidem. Abbiamo visto che Lorentz, nel suo lavoro del 1904, supponeva che la deformazione dell’elettrone, a causa del suo moto attraverso l’etere, lo trasformasse in un ellissoide schiacciato. Ebbene, secondo Lorentz, due degli assi dell’ellissoide rimangono costanti (quelli perpendicolari alla direzione del moto).

(645) Ibidem, pag. 131.

(646) Ibidem.

(647) I simboli da me usati differiscono da quelli utilizzati da Poincaré.  

(648) Poincaré riconobbe che le trasformazioni di Lorentz, nella versione corretta, costituiscono un gruppo. Riservandoci di tornare su questo argomento quando ricaveremo le trasformazioni di Lorentz nelle ipotesi di Einstein, osserviamo solo che il fatto che esse costituiscono un gruppo è condizione necessaria per garantire l’invarianza delle leggi fisiche nel passaggio da un sistema ad un altro in moto traslatorio uniforme rispetto al primo. Occorre qui ricordare che trasformazioni formalmente simili furono utilizzate dal fisico tedesco W. Voigt (1850-1920) in un lavoro del 1887, Sul Principio di Doppler; in esso la luce era ancora trattata in base alla teoria elastica. Anche Larmor nel 1900 aveva trovato qualcosa di simile. Notiamo a parte che, per piccole velocità v, le trasformazioni di Lorentz ridanno le trasformazioni di Galileo.

(649) Bibl.l48, pag.28. L’equazione di Maxwell per lo spostamento elettrico in un sistema in moto è la prima delle (9) del lavoro originale di Lorentz (bibl. 131, pag.l5):

Se in questa equazione fosse sparito quel termine – vu’x/c2  si sarebbe ottenuta l’identità formale con la stessa equazione per un sistema in quiete (ibidem, pag.l4, riga3) e cioè    div D = r.  Si noti che la non identità di queste due equazioni mostrava che le trasformazioni di Lorentz, almeno nella loro formulazione del 1904, non garantivano l’invarianza delle equazioni di Maxwell nel passare da un riferimento ad un altro, l’invarianza si otteneva solo trascurando effetti del secondo ordine in v/c.

(650) Bibl. 139, pag. 163.

(651) II tema fu affrontato in una conferenza che Poincaré tenne a St  Louis il 24 settembre 1904. Il testo della conferenza fu pubblicata ne La valeur de la science (1905) ai capitoli 7 e 9. Bibl. 142, pagg. 107-130. Il tema fu poi ripreso in un lavoro di Poincaré del 1908 (bibl.123, pagg. 182-187 e bibl.141. pagg. 167-170).

(652) Bibl. 142, pagg. 116-117.

(653) Evidentemente vale anche per la luce la composizione galileiana delle velocità.

(654) Che nello stesso istante – quello vero – non è lo stesso per i due osservatori: assenza di simultaneità per il tempo locale.

(655) Si noti che il ritardo assume una validità assoluta.

(656) Evidentemente, rispetto al riferimento assoluto dell’etere nel quale esiste il tempo vero.

(657) Ibidem, pag. 115 e pag. 118.

(658) Come abbiamo già visto, questo fatto era stato dimostrato da Ampére.

(659) Si veda anche bibl.3, pag.12. Secondo Poincaré l’immagine è suggerita da Delbeuf.

(660) Bibl.l41, pag.74. Si tratta del paragrafo 1 del 1° capitolo del libro 2° di Scienza e Metodo, un lavoro di Poincaré del 1909. Il brano è qui riportato anche se posteriore al lavoro di Einstein del 1905, perché completamente indipendente da esso.

(661) Mancava l’effetto Zeeman anomalo (scoperto nel 1897) ed alcune questioni di importanza fondamentale nell’ambito dello studio del corpo nero.

(662) Bibl. 132, pag. 48.



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