Roberto Renzetti
Introduzione
L’argomento è impegnativo e moltissime cose sono state dette. Ne aggiungo altre senza nessuna pretesa di essere esaustivo.
Ho passato una vita a tentare di convincere i miei amici scienziati dell’importanza della filosofia per capire meglio il proprio agire in meccanismi a volte non controllabili. Il guaio della filosofia (ed anche della matematica) è che è fatta da filosofi (e la matematica da matematici). Ora queste limitazioni non avevano senso fino a che il mondo non aveva conosciuto la specializzazione, la separazione dei saperi, la parcellizzazione del lavoro. Prima (e questo prima deve pensarsi fino ai postumi della Rivoluzione francese che al massimo possono estendersi, rispetto a ciò che cerco di dire, fino alla prima metà dell’Ottocento) si aveva generalmente a che fare con intellettuali complessivi. Poi la specializzazione dei saperi, la complessità di essi, la suddivisione addirittura al loro interno,…, insomma addirittura un addetto ad una data disciplina che non riesce più a parlare con un suo collega che, nell’ambito della stessa disciplina, è entrato in una differente specializzazione, tutto questo ha reso sempre più difficile la comprensione del complesso, dell’insieme, … Abbiamo immagini da caleidoscopio ma siamo in possesso di una sola pietruzza: l’immagine complessiva ci sfugge completamente… La cosa inizia con strappi fortissimi nella storia interna. Faccio solo l’esempio dell’enfasi che si è data per ben 400 anni ai lavori di Galileo. Cosa dicono tutti coloro che hanno in qualche modo studiato il grande pisano? E’ l’inventore della dialettica mani-cervello; è colui che ha inventato il metodo sperimentale che, in definitiva, consiste in teorie che se non sono convalidate da esperienze restano nel limbo dell’incompiuto e, spesso, dell’irrazionale. Un’analoga rivoluzione è avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento ma nessuno se n’è accorto. Nasce la fisica teorica con Maxwell, nasce la possibilità di teorizzare all’infinito senza riscontri sperimentali di alcun tipo, si realizza una rivoluzione comparabile con quella di Galileo … e la cosa non è nota ai più!
Nell’ambito della fisica ci si illude ancora, nelle Istituzioni ufficiali, di essere dei puri al servizio delle curiosità e della scienza incontaminata da misere vicende umane. Ma le cose arrivano alla loro definitiva rottura a Copenaghen nel Congresso Solvay del 1928. Si sancisce la separazione tra scienza e filosofia, si formalizza il fatto che ogni attività non strettamente attinente alla scienza, il chiedersi i perché, FA PERDERE TEMPO; si decide che l’efficienza non va d’accordo con i rompiscatole che chiedono, con quelli che vogliono sapere. Si sottintendono due cose: da una parte che la scienza, comunque e dovunque la si faccia è buona in sé (l’eredità neopositivista è sempre presente ed è una mostruosa malattia infantile della scienza); dall’altra che lo scienziato è in grado di capire e che l’organizzazione sociale non lavora mai contro l’uomo. Queste posizioni si affermarono come vincenti. I rompiscatole come Einstein e Planck persero.
Il discorso sarebbe lungo almeno come un libro che dovesse raccontare nei dettagli tutti gli eventi del Novecento. Taglio per ovvie necessità.
Proprio l’efficienza che domina tra gli scienziati, spesso impregnati inconsciamente di una ingenuità neopositivista, ha fatto si che sulle loro teste è passato tutto ed il contrario di tutto. Posizioni chiare e nette sono sempre state appannaggio dei rompiscatole. Gli altri, pur essendo dei giganti nei loro campi di attività, erano felici con il solo avere a disposizione i giocattoli con cui lavorare (importava poco chi li fornisse).
Da qui parte (o partiva) la lotta all’interno del sistema della ricerca scientifica perché la filosofia entrasse, non per far perdere tempo, ma per far comprendere e scegliere coscientemente. Ma qui urtiamo contro i filosofi o presunti tali, contro i tuttologi che fanno dei danni enormi perché fanno ritirare quei pochi che avevano aderito agli appelli dell’impegno a causa delle castronerie quotidiane di cui si rendono artefici e ci fanno testimoni certi filosofi.
Sono almeno 150 anni che, nel mondo della scienza, e particolarmente in quello della fisica, nessuno ardirebbe sostenere che egli SA, egli è in grado di….,… Da tempo immemorabile ogni scienziato è al corrente degli enormi limiti della scienza, della provvisorietà di ogni conoscenza, dei limiti personali di conoscenza rispetto addirittura ad altri capitoli della disciplina di studio (è noto a chi lavora in un Istituto di fisica che un “particellaro” non è in grado di entrare in argomento con uno “strutturista” e viceversa).
I guai vengono da chi, dall’esterno, tenta di spiegare la scienza, costruendo recinti, paradigmi, dizionari, mondi, strutture logiche che, il più delle volte, sono parto della sola fantasia di chi, tra l’altro, non è mai stato un praticante sul campo della scienza. Insomma, arrivano alcuni filosofi che in gran parte si muovono su piani rinunciatari, lavorando su ogni scienziato che non abbia mai formalizzato. E così si sprecano gli studi su Galileo, su Cartesio (ma solo nella parte dell’Introduzione al Discorso sul Metodo, il resto è troppo difficile!), su Leibniz (ma senza entrare nella formalizzazione delle monadi perché lì occorrerebbe entrare nel calcolo differenziale!), su ogni scienziato che ha scritto e parlato senza perdersi in troppe formule,… E così abbiamo il disastro di Comte che seleziona, cataloga, classifica le scienze immettendovi discipline che di scientifico non hanno mai avuto nulla (compresa la Sociologia che piace tanto a Popper). Ma inizia anche un movimento di scienziati che inizia a discutere di scienza (si pensi a Mach, ad Otswald, a Boltzmann, a Wittgenstein,…) proprio in quell’epoca in cui inizia la separazione tra il lavoro teorico e sperimentale dello scienziato. Siamo nella “mittle-europa” della fine dell’Ottocento, nei circoli di Vienna, di Berlino,… Ma la cosa coinvolge anche la Francia di Poincaré e la Gran Bretagna di Russel (in Italia siamo alle disquisizioni tra Rosmini e Gioberti sulla libera Chiesa in libero Stato). Ho citato scienziati che, dalla loro formazione scientifica, discutono di scienza e di filosofia. Non si trovano filosofi che possano opinare di scienza se la scienza non la conoscono. E conoscere la scienza non vuol dire conoscere alcuni risultati più o meno ben divulgati, ma essere entrati in istituzioni a fare per un certo periodo della ricerca scientifica.
Quando si conosce, per averlo vissuto, il modo di lavorare (o uno dei modi di lavorare) del ricercatore scientifico, quando si è padroni di alcuni pezzi di qualche disciplina scientifica, è allora possibile entrare in argomento e costruire una teoria epistemologica, una ricostruzione plausibile del modo di lavorare dello scienziato. In caso contrario è facile scadere in luoghi comuni, in affermazioni mai realmente comprese, in sciocchezze, nel rifugiarsi in parti estranee all’ambito scientifico toccate da tale studioso. Si può addirittura fare il gioco di chi è più bravo ad inventare, quando poi le confutazioni sono solo a livello di libero dibattito senza possibilità di un qualunque arbitro. Si chiamano volgarmente idee in libertà. Come fa infatti uno scienziato, supposto che ne abbia voglia (e se ne ha voglia, la avrà solo in età avanzata, quando la creatività sul campo della ricerca di frontiera avrà lasciato il posto a riflessioni e all’organizzazione della scienza medesima), a spiegare a un epistemologo di provenienza filosofica che non ha capito l’essenza dei problemi? Si parla con una persona che generalmente non conosce l’argomento del contendere. E’ un poco come i pedagoghi che spiegano come insegnare senza aver mai avuto a che fare con una classe, con un corso di studi, per almeno un ciclo completo.
Inizio allora ad entrare in argomenti ed in esemplificazioni più specifiche, partendo da dei dati che meritano di essere conosciuti.
Richard Feynman
Quella di R. Feynman, grande fisico, è l’esemplificazione più clamorosa che avevo in mente quando iniziavo ad argomentare nella premessa. Questo scienziato, tra i più grandi del Novecento, così scriveva nelle sue famosissime ed ineguagliate Lectures on Physics del 1964 (Vol. I, pag. 16-1):
“These philosophers are always with us, struggling in the periphery to try to tell us something, but they never really understand the subtleties and depths of the problem.”
[Questi filosofi sono sempre con noi, si affannano per cercare di dirci qualcosa, ma non comprendono mai realmente le sottigliezze e la profondità del problema].
Ecco era contro questo atteggiamento, molto diffuso, che ho fatto il Quijote. Non è questione di aver vinto o perso; di essere riuscito a salvare la mia Dulcinea. Era il tentativo di chi ha fatto il fisico in laboratorio di aprire le menti all’interpretazione della realtà che andasse al di là del mero fatto empirico o scientifico. Intravedevo un mondo complesso che non poteva essere racchiuso in qualche formula. Dal mio punto di vista di fisico volevo approfondire la conoscenza ed inserire il mio lavoro, il mio operare quotidiano in un contesto più ampio, che avesse una sorta di significato. Anticipo che, dopo tanti anni, il problema si è completamente rovesciato: di fronte alla modestia ed alla consapevolezza di una conoscenza limitata del mondo della scienza, si ha la immensa presunzione di alcuni filosofi che credono, DALL’ESTERNO, di aver capito di poter stabilire regole in una macchina che non conoscono perché l’ hanno solo vista dall’esterno, nella sua estetica fuorviante che non ha nulla a che vedere con i cicli termodinamici che regolano il suo funzionamento. Oggi dovrei cominciare in modo diverso, dovrei dire che i supposti filosofi, i cialtroni, devono stare alla larga perché sono controproducenti al fine di conciliare, in qualche modo, le due culture. Esempi di questo tipo ne abbiamo tanti, troppi. E richiedono interventi decisi, dissacratori e di denuncia del loro essere piazzisti del potere. Un certo Pera è persona di questo tipo che merita attenzione perché sulla falsificazione e l’ignoranza è assurto alla seconda carica dello Stato. Ma Pera non è che un’ombra deformata che ha tentato il successo attraverso personaggi che movendosi nell’equivoco della conciliazione tra culture, spaventano i più, quelli che invece, se va bene, dicono con orgoglio che loro, di scienza non hanno mai capito nulla. E’ un mascherarsi dietro la scienza per costruirsi una corazza che dovrebbe difenderli. Da un parte i “letterati” non si azzardano, dall’altra gli scienziati non perdono tempo… Ed i cialtroni hanno buon gioco. Ma per comprendere meglio vediamo cosa è accaduto qualche anno fa.
Alan Sokal e Jean Bricmont
Era il maggio 1996. La rivista culturale americana (di gran moda) Social text, pubblica un articolo di Alan Sokal, fisico dell’Università di New York. Cosa c’è di straordinario?
Il titolo del lavoro è: Violare le frontiere: verso un’ermeneutica trasformatrice della gravità quantistica. Apparentemente il lavoro sembra rimettere in discussione tutte le conoscenze, le basi, su cui si fonda la fisica (e non solo) contemporanea ed ufficiale. Secondo questo articolo, la scienza occidentale non è altro che una imposizione di dogmi e tra di questi vi è anche quello che vorrebbe un mondo esterno conoscibile. Gli studi di questi ultimi anni, secondo questo lavoro, soprattutto ad opera di femministe, omosessuali, movimenti alternativi, ha dimostrato che la realtà fisica oltre che quella sociale non è altro che è una costruzione sociale e linguistica. L’imbroglio delle verità scientifiche, se lo si smaschera, è alla base delle incomprensioni tra le varie culture. Esiste un mondo esteriore le cui proprietà sono indipendenti da qualunque essere umano considerato come individuo e addirittura dell’umanità nel suo insieme. Occorre sbarazzarsene. Il lavoro prende vari spunti casuali da teorie con nomi roboanti. E così, se da una parte si dice che l’unica teoria che è sostenibile, perché capace di far capire il misterioso fenomeno della non linearità, che occuperebbe una posizione centrale in tutta la matematica futura, è quella del caos, dall’altra si inizia una discussione della gravità quantistica, nuova branca della fisica in cui si trovano sintetizzate e superate ambedue le branche più importanti della fisica, la meccanica quantistica di Heisenberg e la relatività generale di Einstein. Nel suo argomentare Sokal dice cose sconvolgenti (o ridicole, dipendendo da chi legge), come le seguenti:
Il gruppo d’invarianza infinito-dimensionale erode la distinzione tra osservatore ed osservato; il p di Euclide e la G di Newton, un tempo considerate costanti universali, sono ora viste nella loro ineluttabile storicità… Le grandezze o gli oggetti che sono in linea di principio inosservabili – come i punti dello spazio-tempo, le posizioni esatte delle particelle o i quark ed i gluoni – non dovrebbero essere introdotti nella teoria….Inoltre i numeri complessi (introdotti addirittura nel Rinascimento) sarebbero una branca recente ed ancora del tutto congetturale della fisica matematica, mentre la cibernetica avrebbe vinto la sua battaglia contro la meccanica quantistica.
In pratica, gran parte della fisica moderna deve essere bandita dalla scienza.
L’articolo era pieno di assurdità, mancava ogni logica, i concetti erano slegati totalmente o collegati in modo assolutamente errato. Fu accettato ed addirittura pubblicato in un numero speciale della rivista che aveva lo scopo di controbattere le tesi di alcuni scienziati contro il postmodernismo ed il costruttivismo sociale. Sokal e Bricmont (fisico dell’Università cattolica di Lovanio) osservarono in seguito che non vi era miglior modo per la rivista per tirarsi la zappa sui piedi.
Quasi in contemporanea, Sokal pubblica un altro articolo sull’altra rivista americana, Lingua Franca, articolo nel quale svela il suo aver costruito un articolo che voleva essere una parodia, era volutamente pieno di sciocchezze, di assurdi, di falsi. Aggiunge inoltre che però, tutte le citazioni dei filosofi postmoderni e costruttivisti erano rigorosamente esatte. Il fine iniziale di Sokal era di ridicolizzare alcune branche della filosofia ed alcuni filosofi che si gettano sulle parole e sulle teorie della fisica, pontificandovi sopra senza averle realmente mai comprese. La cosa andò poi molto più in là e sollevò vespai in tutto il mondo. Sokal e Bricmont pubblicarono successivamente (1998) un libro, Le imposture scientifiche dei filosofi (post)moderni (l’appendice A di questo libro riporta tutto l’articolo dello scandalo), in cui analizzarono nei dettagli le posizioni di svariati filosofi che avevano operato o operavano nel modo suddetto (Lacan, Kristeva, Duhem, Quine, Kuhn, Feyerabend, Latour, Irigaray, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio, Jankélévitch, Merleau-Ponty,…..e,….udite, udite,…..Karl Popper).
Tralascio tutto il resto perché dovrei riscrivere questo bellissimo libro e mi soffermo invece su Popper (e siamo solo nell’ambito scientifico, ancora in quello che Pera neppure immagina esistere). Si tratta delle cose che adombravo nella introduzione: vi sono persone ansiose di mettere il cappello su cose non loro e che neppure conoscono (figuriamoci chi vuole mettere il cappello a chi già ce l’ ha, a chi si costruisce una presunta fama discutendo di quello che ha discusso un altro su cose che si conoscono solo indirettamente. E’ un poco un vezzo in Italia. Quando si chiede chi è Buttiglione, si risponde: è allievo di Del Noce. Caspita, ma chi è del Noce?….silenzio. E chi è Pera? E’ uno che ha studiato Popper. Caspita, non conveniva studiare le fonti ed essere originali? Anche io ho studiato Popper e mi ritrovo in quanto sostengono Sokal e Bricmont. Ma questo non è un titolo di merito. E non lo deve essere per nessuno! Come l’essere onesti che oggi è presentato come una credenziale).
Vediamo allora Popper dal versante epistemologico, passeremo poi alle sciocchezze che il conclamato filosofo “aperto” ha sostenuto in ambito, più che filosofico, sociologico mettendo le zampe nel piatto dell’economia e della politica, piatto che non è il suo.
Popper
Popper nasce nella Vienna imperiale, centro culturale europeo, nel 1902. Negli anni 20 è un simpatizzante comunista. Lavora presso la clinica di A. Adler che si occupa dei problemi dell’infanzia. Nel 1928 si laurea in filosofia con lo psicologo Karl Bühler. Nel 1929 ottiene la possibilità di insegnare matematica e fisica nella scuola media, cosa che farà dal 1930 al 1935. Egli non partecipa al Circolo di Vienna (casa del Neopositivismo: polemica contro la metafisica che vorrebbe dimostrare l’esistenza di entità al di là dell’esperienza) ma viene in contatto con R. Carnap, H. Hahn, H. Feigl, O. Neurath e, più tardi, con K. Gödel. Nel 1936, in congedo dall’insegnamento, tiene varie conferenze in università e scuole inglesi che gli danno fama. Ma arriva l’annessione nazista dell’Austria e Popper, ebreo, se ne va accettando un incarico di insegnamento in Nuova Zelanda (Canterbury University College di Christcurch) che manterrà fino alla fine della guerra (1946). Passa in Gran Bretagna alla London School of Economics and Political Science, dove diventerà direttore del Dipartimento di Filosofia. Lascerà l’insegnamento nel 1969, 25 anni prima della sua scomparsa (1994).
La sua prima opera che gli dette fama è del 1934, La logica della ricerca (Vienna), la quale fu poi ripubblicata a Londra nel 1959 con il titolo La logica della scoperta scientifica. Vennero poi le altre, tra cui: Miseria dello storicismo (Londra, 1944); La società aperta ed i suoi nemici (Londra, 1945, ma scritta in Nuova Zelanda); Congetture e confutazioni, la crescita della conoscenza scientifica (Londra, 1963); I due problemi fondamentali della conoscenza (Tubinga, 1979).
Per punti le posizioni di Popper possono essere così riassunte:
1 – L’induzione (per enumerazione) su cui la scienza crede di lavorare è una illusione, un pregiudizio. La scienza non può ricavare delle leggi dal fatto che uno stesso fenomeno osservato più volte dia sempre lo stesso risultato. Uno osserva sempre le fragole rosse ma non si può definitivamente affermare che le fragole sono rosse; un qualche giorno, se dovessimo incontrare una fragola azzurra, dovremmo buttare la teoria delle fragole rosse.
Allo stesso modo è una illusione, un pregiudizio, l’induzione (per negazione). Quando si creda di mostrare la superiorità della propria teoria su di un’altra, si fa l’errore di credere che le teorie rivali sono in numero finito, mentre esse sono potenzialmente infinite. Con ciò risulta impossibile sbarazzarsi di tutte, confutandone una ad una.
2 – E’ impossibile costruire scienza immaginando che la mente del ricercatore sia vuota da ogni pregiudizio. Lo scienziato non lavora per sola osservazione e da quella ricava le sue conclusioni. Egli parte con una idea preesistente di come crede vadano le cose. In definitiva lo scienziato costruisce esperimenti su teorie già in nuce nella sua mente.
3 – Come corollario del punto 1 viene il criterio detto di falsicabilità. Non è possibile assegnare validità assoluta, eterna, ad una data legge o teoria. Il presentarsi di quel solo evento contrario potrebbe inficiare l’intera teoria. Occorre quindi procedere rimettendo alla prova l’intera teoria alla luce dei nuovi fatti sperimentali che si presentano. Una teoria è scientifica se non è statica, se non è definitivamente certa, se è discutibile, se è confutabile, se è possibile falsificarla e quindi migliorarla. Ogni esperienza che vada a sostegno di una teoria non la conferma definitivamente ma la fortifica. Migliaia di esperienze a sostegno rendono una teoria sempre più forte ma non la fanno mai vera. Basta una sola esperienza che non confermi la data teoria per farla crollare definitivamente. La scienza non può essere fatta di dogmi ma di un continuo divenire.
4 – Non è vero che la metafisica sia di ostacolo alla scienza. Non importa da dove vengano le ispirazioni. In qualche modo la metafisica è una intuizione, un primo pensiero, un abbozzo di teoria che potrebbe dare contributi allo sviluppo reale del pensiero scientifico. La metafisica è il prodotto della creatività umana e senza tale creatività non sarebbe possibile alcun avanzamento del pensiero, in particolare scientifico. Una comunità scientifica in cui tutto dipendesse dalla sola razionalità non avanzerebbe.
5 – Non è vero che la storia sia determinata da una qualche legge interna e quindi non è pensabile un intervento su di essa nel presente per modificare il suo andamento. Lo storicismo considera di fatto l’individuo come subordinato ad una qualche legge superiore, cui deve assoggettarsi e, in tal senso, genera il totalitarismo. La stessa storia come ricostruzione razionale degli eventi è sempre una manipolazione al servizio di chi la fa o addirittura di interessi precostituiti. E’ l’uomo che deve dare un significato a ciò che accade; non è possibile pensare che l’uomo dipenda dal ciò che accade o che si vuole fare accadere. La critica è rivolta ad Hegel (il padre del quale è individuato in Platone), ma principalmente a Marx. Contro Marx si scaglierà Popper sovrapponendolo ai regimi totalitari dell’Est. Tali regimi non sono falsificabili perché si autoleggittimano e non ammettono critiche dall’esterno. Ogni teoria (o sistema di governo) che non possa essere criticata e confutata limita la libertà dell’uomo. Contro il totalitarismo, contro le verità assolute, è lecito l’uso della guerra.
Dopo questo schematico riassunto del nocciolo delle idee di Popper, vediamo se è possibile falsificarle e se quindi sono aperte o rappresentano un insieme chiuso e quindi totalitario. (si capirà più oltre che questa problematica neppure si pone: l’Opera di Popper ha i tratti della metafisica e quindi non appartiene alle categorie dove possa essere applicata la falsificabilità).
Intanto sulle vicende scientifiche inizio con il riportare un brano di Galileo, scritto 300 anni prima della Logica… di Popper. Il brano è tratto dalla Giornata II del Dialogo sopra i due massimi sistemi. Dice Galileo per bocca di Salviati:
Benissimo intendo che una sola esperienza o concludente dimostrazione che si avesse in contrario, basta a battere a terra questi ed altri centomila argomenti probabili.
Ecco, lo scienziato lo sa ciò che Popper o qualunque altro filosofo tenta di spiegarci costruendo, egli si, una gabbia intorno alla creazione dello scienziato. Non esiste UN metodo di ricerca ma infiniti. Volerli precostituire è la costruzione storicistica di un impianto che non essendo falsificabile è autoritario e va quindi combattuto (niente guerra però). Ma, e restiamo ancora a Galileo, se si legge la sua opera si trova anche il pregiudizio, quello che viene prima dell’esperienza. Credo che nessun essere vivente e pensante possa pur lontanamente pensare che sia possibile mettere insieme degli strumenti e farli agire tra loro. Restare a guardare e ricavare una qualche legge. Sono gli strumenti stessi che vengono scelti dallo scienziato per fare delle cose che ha IN MENTE. Mi sembra talmente evidente che solo uno sprovveduto può affermarlo come novità. Ma veniamo al pregiudizio di cui sopra leggendo ancora dalla Giornata seconda del Dialogo:
Salviati: Avete voi fatta mai l’esperienza della nave?
Simplicio: Non l’ ho fatta; ma ben credo che quelli autori che la producono, l’abbiano diligentemente osservata…
Salviati: Che possa essere che quelli autori la portino senza averla fatta, voi stesso ne siete buon testimonio, che senza averla fatta la recate per sicura e v ne rimettete a buona fede al detto loro: sì come è poi non solo possibile, ma necessario, che abbiano fatto essi ancora, dico di rimettersi a i suoi antecessori, senza arrivar mai a uno che l’abbia fatta; perché chiunque la farà, troverà l’esperienza mostrar tutto ‘l contrario di quel che viene scritto…
…………
Simplicio: Che dunque voi n’avete fatte cento, non che una prova, e l’affermate così francamente per sicura? …
Salviati: Io senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico, perché così è necessario che segua …
Ecco, il pregiudizio di Galileo è così forte che egli sa già come andrebbe una data esperienza. Ma poi, passando ad altro scienziato, che forse Faraday non aveva presenti le idee romantiche della Naturphilosophie di Schelling, quando cercava azioni circolari? Ed Oersted non stette nove anni a cercare le forze ribelli alle azioni rettilinee di Newton?
Tutto, tutto il mondo della ricerca è un mondo di pregiudizio. E più pregiudizi si hanno e più si avanza perché si hanno più cose da sottoporre a verifica sperimentale. Ma poi cosa vuole dire o meglio a che serve ciò che dice Popper? Che forse una persona per potersi occupare di scienza e fare lo scienziato deve forse aver letto prima Popper? Occorre imparare prima il metodo e poi fare lo scienziato? Caspita, se così fosse stato storicamente staremmo ancora ai presocratici letti a lume di una lampada ad olio.
Veniamo poi alla falsificazione a questa sciocchezza che nulla ha a che vedere con la storia della scienza. Allora vediamo, se trovo una fragola azzurra dovrò buttare via la legge che vuole che le fragole siano rosse. Così come, per restare ad una esemplificazione già fatta, quando Oersted e Faraday mostrano l’esistenza delle azioni circolari si è buttata la fisica di Newton, o no? NO, NO, NO! Esperienze che non vadano nel senso di fortificare una teoria non la distruggono necessariamente. La teoria precedentemente in vigore resta valida in quei limiti ed in quelle approssimazioni. La nuova teoria va a conglobare la precedente con ipotesi aggiuntive. Ma poi Newton è stato falsificato dalla relatività, dalla fisica dei quanti, da una miriade di altre teorie,…. ed è sempre lì. Nessuno studierebbe la caduta di un sasso mettendo in ballo relatività e quanti. Sarebbe come sparare con un missile ICBM contro una zanzara. L’esperienza falsificante potrebbe essere la scoperta dell’interferenza della luce nel 1802. Non si spiegava il fenomeno con la teoria corpuscolare. Ma allora come la mettiamo con l’effetto fotoelettrico e la spiegazione einsteniana? Rifalsifichiamo il falsificato? Per risolvere questo gatto avido della sua coda, basta rendersi conto che mai una teoria è stata data per definitiva da Galileo in poi per capire che le gabbie di Popper e di quanti altri sono solo un impaccio che non aiuta nessuno a crescere. E’ proprio la metafisica che blocca la libera ricerca perché, per sua definizione, ha quei dogmi che non sono discutibili e che sono il fondamento medesimo di ogni metafisica. Falsificare la Trinità sarebbe una bella impresa solo che la cosa non ha semplicemente senso. Piuttosto la posizione di Popper deve essere vista cambiando il riferimento, facendo con il Popper medesimo una rivoluzione copernicana. E’ egli che si costruisce una immagine fantastica della scienza e demonizza chi non la condivide. La scienza come PERFEZIONE è solo nei suoi sogni. Nessuna teoria è esaustiva. Nessuna teoria risolve tutti i problemi. Vi sono spiegazioni sempre parziali e, ogni volta che aumentiamo la nostra conoscenza, se da una parte ampliamo l’ambito esplicativo della teoria rendendola più completa, più ricca, dall’altra apriamo altri fronti di conoscenza completamente ignoti precedentemente e quindi completamente al di fuori di ogni teoria esplicativa. E’ una dialettica continua tra teorici, sperimentali, tra sollecitazioni varie e comunque non riconducibili a nessuno schema esplicativo. Si pensi poi all’imbroglio che sta alla base dell’affermazione di falsificabilità (certezza) in contrapposizione alla verificabilità (incertezza): falsificare significa dover far fronte ad infinite obiezioni, mentre verificare potrebbe voler dire sottoporre ad un ragionevole numero di verifiche. Se solo si indaga il modo di fare fisica di Einstein e lo si confronta con quello, ad esempio, di Planck (parliamo di due giganti) ci rendiamo conto che, con Popper, dovremmo parlare di due pianeti diversi. Invece l’interazione tra i due metodi PROFONDAMENTE DIFFERENTI fu fecondissimo per l’elaborazione di teorie più avanzate. Al contrario le teorie non complete, confuse, logicamente indeterminate, sono a volte fonte inesauribile di nuove ricerche e scoperte (l’esempio in tal caso è la fisica di Maxwell). Teorie esaustive, complete ai massimi livelli delle conoscenze di una data epoca, sono invece un handicap ad ulteriori avanzamenti (l’esempio è ora la fisica di Newton, così formalmente perfetta che bloccò la ricerca scientifica per 100 anni). Osserva Kuhn che se tutte le teorie scientifiche dovessero venire abbandonate per un qualche loro insuccesso occorrerebbe abbandonare tutte le teorie scientifiche. Ed allora come fare a muoversi? sarebbe necessario affidarsi a criteri probabilistici, per altri versi negati da Popper. Insomma, un disastro che porta in sé un germe di maggiori catastrofi, la deriva irrazionalista che nasce proprio dalle reazioni nate da quanto affermato da Popper. Ad esempio il Feyerabend scrive sull’onda dell’indignazione per i lavori di Popper ma poi non si rende conto che le difficoltà della relatività sono discusse dallo stesso Einstein e che quelle dell’evoluzionismo dallo stesso Darwin. E, non a caso, a Popper si affidano non tanto i liberali, quanto gli ignoranti pretesi liberali che avrebbero trovato un efficace corifeo alla negazione della razionalità. all’affermazione della metafisica (fa sempre comodo), ad ogni alibi possibile per affermare una società aperta agli affari più sporchi (ma su questo tornerò). Andando a scavare nell’epistemologia di Popper si scopre un ancestrale ritorno a Mach quando negava l’esistenza del mondo che non cadesse sotto i nostri sensi (un atomo? mai visto uno!). Il Mach che, sulla scia di Berkeley, nega l’esistenza di ciò che non è sperimentabile; che, in nome di un nascosto idealismo, si fa materialista cercando la prova dei sensi. Il mondo diventa così intermittente. Quando lo vedo c’è, ma quando chiudo gli occhi non c’è più. E Popper ripropone questa visione in un ambito più specifico ma ricollegandosi alla Critica dell’esperienza pura di Avenarius, sodale di Mach. Potrei chiedere a Popper la falsificabilità di un sorgere del Sole? Ecco l’idea geniale! Il non farsi capire (consciamente, spero, o inconsciamente, poveretto); il parlare a chi comunque non sa intendere ma che è pronto a dire: quante cose sa! Ogni mattina devo aspettarmi che non sorga per poter affermare che la cosa è scientificamente accettabile, in quanto falsificabile? E’ dunque Popper il filosofo del nostro tempo, è il riflesso del successo indipendente dalle motivazioni. E’ il trionfo dell’ignoranza e di chi si nasconde dietro di essa per poter dire che anche io ho qualcosa in cui credere. Pensate un istante e vi renderete conto del contorcimento intellettuale di una persona che sostenga tali cose. E’ proprio il prodotto dell’impero austro ungarico che decade, è l’avvento di un nuovo ordine mondiale che fa perdere a Popper un solido terreno di riflessione. Ma non è ozioso osservare che, nonostante la sua fuga dall’Austria discendesse dalle orde antisemite di Hitler, la polemica di Popper si incentra, nella sua parte sociologica, contro Marx e l’URSS (con il clamoroso errore di identificazione che Popper fa tra i due soggetti) degli anni in cui questo Paese lavorava per battere definitivamente il Nazismo e per liberare i più diversi reclusi nei campi di sterminio.
Come osservano Sokal e Bricmont, secondo Popper, sarà sempre possibile avere delle teorie false ma mai una vera. Che ne facciamo dell’uso di queste teorie da parte di medici ed ingegneri? Il medico si potrà fidare di una risonanza magnetico-nucleare? E di una TAC? E di un acceleratore di elettroni contro il cancro?… L’ingegnere può aver fiducia nell’effetto tunnel per costruire un diodo che abbia determinate caratteristiche? Ed un integrato? Insomma, chi lavora davanti ad un computer dovrà ogni giorno pregare (oltre quello che già fa per l’inefficienza delle linee telefoniche e le inaffidabilità tecnologiche) perché non si falsifichi il suo pentium? Quanto qui ho detto è una cosa semplicissima: è l’induzione, il credere che le cose marcino bene perché lo hanno fatto un ragionevole numero di volte.
Ma Sokal e Bricmont evidenziano una seconda difficoltà nel pensiero di Popper. Vi sono delle teorie che sono difficilmente falsificabili. Quando Newton ci fornisce la sua seconda legge (F = ma) e ci spiega i meccanismi della gravitazione ) come universale (F = G. m1.m2/r2) come possiamo falsificare ciò? Che senso potremmo dare a tale falsificazione? E’ falsificata la gravitazione universale dalle irregolarità dell’orbita di Mercurio spiegate dalla relatività generale? Con ipotesi aggiuntive (che nulla toglierebbero alla potenza predittiva della teoria) sarebbe possibile far rientrare dentro tali teorie moltissimi fatti sperimentali, pur non previsti direttamente dalla teoria (pianeti piccoli o grandi; masse piccole o grandi; densità piccole o grandi; distanze piccole o grandi; velocità piccole o grandi e … grandi quanto?). Ma supposto che ci accordiamo su tutte queste cose, che diciamo degli strumenti di misura? Popper non ne parla, si tratta di una qualche entità metafisica? Eppure dipende dalla sensibilità di certi strumenti se si possono fare certe falsificazioni. L’esperienza di Michelson-Morley andava ad indagare effetti al secondo ordine in v/c. Poteva pensare a piacimento Newton una tale eventualità (ma poi, a cosa gli sarebbe servita?), ma come l’avrebbe realizzata senza la tecnologia che una avanzata rivoluzione industriale mise in mano alla Germania ed ai nascenti (scientificamente ) Stati Uniti? Più in generale, come si accorda la teoria la potenza del trasduttore, di quell’oggetto che trasforma certi segnali in altri; di quello che da certi “rumori” nello spazio “capisce” che vi è un ammasso stellare; di quello che da un segnale su un oscilloscopio capisce un difetto nel cuore; da quell’altoparlante che alla fine ci porta alle orecchie le onde elettromagnetiche, pur esistenti nello spazio, ma assolutamente al di fuori della nostra capacità di coglierle e di farle vedere a Mach, in quanto tali realmente.
E passiamo ora alla parte più patetica del pensiero di Popper, quella che gli ha attratto le maggiori simpatie soprattutto tra gli orfani nostrani del pensiero, quella sociologica sviluppata essenzialmente in La miseria dello storicismo e La società aperta ed i suoi nemici.
Tralasciando per ora la confusione che il filosofo fa tra il Platone che vorrebbe e quello che è, e le confusioni tra Locke ed Hume (riprese pedissequamente da qualche parvenu nostrano alla seconda carica dello Stato), veniamo alla confutazione che Popper fa del marxismo confondendolo allegramente, come già accennato, con i Paesi a socialismo reale. Iniziamo con una palese contraddizione nelle stesse parole di Popper. Egli dice due cose che fanno a pugni tra loro:
1 – il marxismo come teoria è inconfutabile;
2 – tutte le predizioni del marxismo sono state confutate.
Dal primo di questi giudizi Popper estrae la conclusione che non si può parlare di socialismo scientifico; la seconda affermazione vorrebbe poter affermare che nessuna delle cose che Marx prediceva si è verificata. Ma allora, facendo il popperiano direi che o è vera la prima affermazione ed allora la seconda non ha significato; o è vera la seconda ed allora il marxismo è una teoria scientifica. Ma poi, continuando a fare il popperiano, perché non mi si concede un poco della metafisica che pure è apprezzata da Popper e perché questo credo non lo si mette alla pari con altri credi da lui assolti? Insomma ancora un disastro che è falsificato proprio dalle adesioni dei nostri intellettuali ai livelli di Antiseri e Pera.
Ma passiamo a leggere alcuni brani del secondo volume de La società aperta … al paragrafo 6 del Capitolo 20, dove si parla de Il capitalismo ed il suo destino. Dice Popper:
“”Per illustrare fino a che punto sbagliava Marx nelle sue profezie … e nella sua lotta contro il capitalismo senza freni citeremo alcuni passaggi del capitolo de Il Capitale in cui Marx analizza la legge generale della accumulazione capitalista.
“nelle fabbriche … si impiegano in massa maschi giovani che non hanno ancora raggiunto l’età adulta, dopo la quale solo una piccola porzione di essi continua ad essere utile per l’industria, di modo che sono costantemente licenziati in gran numero. Passano allora a far parte dell’eccedente fluttuante della popolazione che cresce con il crescere dell’industria… Le esigenze del capitale nell’ambito del lavoro, sono tanto elevate che, in generale, un operaio maturo è un uomo finito… Dentro il sistema capitalista, tutti i mezzi per elevare la produttività sociale del lavoro … si trasformano in mezzi di dominazione e sfruttamento, mutilando l’operaio, riducendolo ad un frammento di essere umano, degradandolo alla condizione di mero pezzo dell’ ingranaggio sociale, e fanno del lavoro una tortura…Si capisce da queste cose che quanto più si accumula il capitale, quanto più peggiorano le condizioni dei lavoratori, qualunque sia la loro paga … E’ questa la legge assoluta dell’accumulazione capitalistica … L’accumulazione di ricchezza in un polo della società comporta, contemporaneamente, una accumulazione di miseria, di lavoro massacrante, di schiavitù, ignoranza, bestializzazione e degradazione morale nel polo opposto.”
Il quadro che fa Marx del capitalismo del suo tempo è certo. Ma senza dubbio è la sua legge che la miseria debba aumentare incessantemente insieme all’accumulazione non si è realizzata nella realtà… Il capitalismo senza freni già è scomparso. Dopo Marx l’intervento democratico ha realizzato immensi progressi ed il maggiore rendimento ottenuto nel lavoro – conseguenza dell’accumulazione del capitale – ha reso possibile eliminare, virtualmente, la miseria…. Resta ancora da fare ma non dobbiamo chiederlo all’intervento democratico, il solo che lo permette, ma solo a noi stessi.””
E’ questo il nocciolo della critica a Marx che, come vedremo, nel paragrafo successivo estende in modo che definirei INFAME ai partiti comunisti. Discutiamola con questo sistema, facendo parlare uno dei principali padroni del mondo globalizzato, George Soros (The Crisis of Global Capitalism. Open society endangered. Bbs Public Affairs, New York, 1998. E’ interessante notare che il libro è stato tradotto in modo truffaldino dalla casa editrice ex craxista, Ponte delle Grazie, Milano, 2001: La Società Aperta. Per una riforma del capitalismo globale invece di La crisi del Capitalismo Globale. La società aperta danneggiata). E’ proprio Soros, ex allievo dello stesso Popper alla London School of Economics negli anni Cinquanta e con un qualche amore epistemologico, che attacca il suo capitalismo (l’Economist ha stroncato questo lavoro mentre il Sole 24 Ore, che ha definito ingiuste e volgari le critiche dell’Economist, sostiene che sia un libro di grande interesse). E’ il progresso con le sue “magnifiche sorti” al centro della critica. Sono le ottimistiche previsioni, i bilanci illustrati da grafici, l’espansione infinita (e siamo ancora prima di Emron, di Worldcom, di Vivendi,…). Quell’ottimismo che fa prevedere una controllabilità assoluta di tutti i processi, le transazioni ed i mercati.
E’ proprio quel mercato che, per Soros provoca nel mondo lacerazioni, squilibri, conflitti, sfruttamento, guerre e non l’armonia e l’eliminazione della miseria. E’ sempre il capitalismo che ha un’etica che non corrisponde a quella che può mantenere un ceto politico aperto e quindi una società aperta; che democrazia e mercato tendono a non coesistere, con il secondo che tenta di uccidere la prima. Dice Soros che “il capitalismo globale è una forma distorta ed incompleta di società aperta“. Ma Soros si spinge più in là ed individua nel collasso dei Paesi a socialismo reale la vera causa dell’aggressività nuova del capitalismo. E ciò in contrasto con quanto chi credeva in una società aperta potesse mai prevedere, anzi l’esatto contrario se Soros si spinge a sostenere:
“L’assunto centrale di questo libro è che il fondamentalismo di mercato è oggi una minaccia maggiore per la società aperta di quanto non sia una qualunque ideologia totalitaria“.
E ciò perché il mercato è entrato dove non avrebbe amai dovuto, dove le regole dovrebbero essere dettate da valori morali e non da interessi: la famiglia, la politica, l’arte, il pensiero speculativo,… . In tal modo i processi democratici collettivi vengono soffocati ed il mondo è sempre meno governabile con processi razionali dai soli quali può discendere una società aperta. Il mercato che decide produce caos perché è miope e non ha visioni globali, le sole che permettano di armonizzare campi diversi sempre di mercato. Il profitto immediato va spesso a scapito della distruzione di altri beni ricchezze e tra questi beni vi è anche l’ambiente. Lo scambio di capitali in maniera sempre meno controllabile impedisce le tassazioni che sono alla base del sistema di riequilibrio del welfare. La tendenza del capitalismo globale, senza regole, è quello di portare all’autodistruzione del mondo intero. Dice Soros:
“[Se non interverranno cambiamenti radicali, tutto questo] provocherà la disgregazione definitiva del sistema capitalistico globale. Se e quando l’economia globale perde colpi, le pressioni politiche rischiano di squarciarlo. E’ già accaduto. La precedente versione del sistema capitalistico mondiale, quella in auge un secolo fa, è stata distrutta dalla Prima Guerra Mondiale, e dalle successive rivoluzioni“.
Cita A.M. Petroni, recensendo il libro per Il Sole 24 Ore, un vecchio detto inglese: “se l’arcivescovo di Canterbury dice che Dio esiste, sta facendo semplicemente il suo mestiere: “Se l’arcivescovo di Canterbury dice che Dio non esiste vale la pena di starlo a sentire“.
Ed io credo proprio di si. Queste cose Soros le diceva solo 5 anni fa. E questi ultimi 5 anni debbono aver mostrato anche ai più scettici l’incancrenimento del capitalismo, il suo fallimento su scala mondiale, la sua incapacità di offrire quel mondo di lustrini sfoggiato così bene dal nostro Cav. Banana. E tutte le cose che ho riportato non sono mie, sono del guru del capitalismo. Io posso aggiungere cose più sgradevoli che più che falsificare rendono totalmente ridicole le posizioni di Popper (dopo solo 50 anni! mentre quelle di Marx hanno ancora un possente potere predittivo dopo 150 anni. Ed il motivo risiede anche nel fatto che, anche qui il filosofo si fa economista e dice sciocchezze come le diceva prima, quando si era fatto scienziato. Con il suo sociologismo tenta di smontare una costruzione che, anche qui, ha dentro di sé gli antidoti che riguardano essenzialmente proprio il materialismo dialettico (che è l’altro versante di critica di Popper a Marx), proprio il fatto che Marx non imbalsama le sue teorie ma le lega al suo tempo. Sarà indispensabile storicamente studiare le condizioni economico-sociali per individuare i modi di intervento nel senso del cambiamento a favore dei ceti più deboli. Voler racchiudere il pensiero di Marx, con tutti i suoi limiti, dentro gli ex Paesi a socialismo reale è fare una conversazione da Bar dello Sport. E’ lecita ma priva di qualunque scientificità.
Più in generale, non è forse vero che più aumenta la ricchezza prodotta e una maggiore di quantità di persone muore di fame sulla Terra? Non è forse vero che i ricchi sono sempre più ricchi perché creano sempre più poveri? Che, a livello mondiale, continua la rapina sui Paesi Poveri? Che le situazioni discusse da Marx restano le stesse solo che stabilitesi su scala planetaria? Cosa è altrimenti l’immigrazione dei disperati del mondo verso i Paesi ricchi? E perché si fanno leggi orrende per fermarli? E come è possibile pensare all’autoregolamentazione di chi sta distruggendo il pianeta rendendo, proprio come diceva Marx, più insopportabili le condizioni dei vita dei miserabili della Terra ? I disastri che ci circondano non devono commuoverci solo quando qualche inondazione distrugge una bella città europea. Che ne è dei deserti che crescono? Che ne è della mancanza d’acqua? Che ne è di terre fertili che vanno scomparendo per l’innalzarsi del livello dei mari? E qui si può continuare all’infinito, ogni volta pensando a quel poverino di Popper ed ai suoi estimatori. Ma venendo a noi, ai nostri Paesi ricchi, è vero che stiamo tutti meglio con il capitalismo arrembante? Non è forse vero che il lavoro è sempre più una chimera, che è precario quanto più si è avanti negli anni? Che il welfare è attaccato brutalmente da tutte le parti? Scuola, sanità, pensioni sono al centro degli attacchi del padrone del capitale proteso sempre più allo sfruttamento degli extracomunitari o addirittura a trasferire le sue produzioni in Paesi in cui si sfrutta il lavoro minorile o i salari sono di fame. Ma poi, l’opulento Popper non viveva nell’Impero coloniale inglese? Non viveva in un mondo ipocrita che si arricchiva alle spalle di mezzo mondo? Non vi sono analisi del nostro filosofo sulle barbarie britanniche in India, nel Vicino Oriente, in Africa,…, sulla guerra anglo-boera? Erano società aperte o erano società condannate da un evoluzionismo politico a fare da sostegno al potere dei Paesi ricchi? Strabismo? Cecità? Ignoranza? Scegliete voi.
Il positivista della politica e dell’economia, così potrebbe essere definito Popper. In ogni caso non ne ha azzeccata una! E nei tempi in cui viviamo vi sono molti convenzionalismi che impediscono di parlare male di uno di cui gli altri parlano bene. Io credo che occorre avere il coraggio di dire che IL RE E’ NUDO. E Popper è nudo.
Resta da argomentare quell’INFAME lasciato in sospeso qualche riga più su e, per farlo, ritorniamo a La società aperta …, al paragrafo successivo a quello su cui ci siamo brevemente soffermati.
Dice Popper facendo il triplo salto mortale che lo porta ad assimilare i partiti comunisti con le teorie economiche di Marx:
“Grazie alle profezie di Marx, i comunisti sapevano con certezza che la miseria non doveva tardare ad aumentare. Sapevano anche che il partito non poteva guadagnarsi la fiducia dei lavoratori senza lottare per loro e con loro per conseguire il miglioramento delle condizioni di vita. Queste due premesse generali determinarono con chiarezza i principi della loro tattica generale. Facciamo che i lavoratori esigano la loro parte, appoggiamoli in ogni momento delle loro lotte per il pane e la casa, lottiamo insieme per soddisfare le loro esigenze pratiche, economiche o politiche che siano, ed in questo modo ci guadagneremo la loro fiducia. Contemporaneamente i lavoratori apprenderanno in fretta che è loro impossibile migliorare apprezzabilmente le loro condizioni con queste piccole lotte e che niente se non una rivoluzione radicale può portare loro veri progressi. In effetti tutte queste piccole lotte sono condannate all’insuccesso …perché in ultima istanza la miseria DEVE aumentare. Conseguentemente l’unico risultato di questo battagliare degli operai contro i loro datori di lavoro è un aumento della loro coscienza di classe, è questo sentimento di unità che solo può essere acquisito nella lotta, insieme alla convinzione che solo la rivoluzione può aiutarli nella loro miseria. Una volta raggiunta questa tappa, sarà iniziata l’ora della vittoria finale.
Questa era la teoria che i comunisti hanno posto in pratica conseguentemente. Cominciarono con l’appoggiare i lavoratori nella loro lotta ma, contro ogni aspettativa, essa ebbe successo e le loro esigenze furono soddisfatte. Evidentemente l’unica spiegazione possibile erano che avevano fatto delle richieste troppo modeste. Bisognava chiedere di più. E di nuovo le richieste furono soddisfatte. E più diminuisce la miseria e più i lavoratori si mostrano disposti a trattare aumenti di salario piuttosto che imbarcarsi in rivoluzioni.
In questa situazione i comunisti pensano che devono cambiare politica radicalmente. Occorre fare qualcosa per cui si realizzi la teoria dell’aumento della miseria: per esempio risvegliare l’inquietudine coloniale … e adottare una politica che faccia crescere il maggior numero di catastrofi. [Ma i lavoratori sono realisti e basta migliorare le loro condizioni di vita che i partiti comunisti vedranno diminuire le adesioni alla loro politica].
In questo modo di nuovo si deve cambiare politica: è necessario lottare per il miglioramento immediato delle condizioni di vita operaia e sperare, allo stesso tempo, che avvenga tutto il contrario.“
Questo è il livello della conoscenza della storia di Popper, queste le sue argomentazioni contro quei partiti che, quando egli scriveva queste cose, erano in prima linea nel mondo a difendere la libertà contro il nazifascismo. Naturalmente le condizioni di vita dei lavoratori sono migliorate per pieno merito del capitale con qualche mediazione metafisica. E’ noto a tutti infatti che furono gentili concessioni dei padroni la riduzione della giornata lavorativa, la difesa del lavoro minorile, la salvaguardia delle donne nei momenti di gravidanza, [per quel che ci riguarda oggi] l’articolo 18 dello Statuto dei Diritti dei lavoratori. E’ anche noto che quelle donne andarono a fuoco in quella fabbrica americana non perché chiedevano la riduzione dell’orario di lavoro ma perché fumavano sul posto di lavoro. Ecco, gentile lettore, a questo punto non sono più capace di argomentare con un qualche livello di distacco ma sento una sana rabbia che mi assale e che mi fa intravedere questo signore per bene che mai ha conosciuto le condizioni di vita operaie, che vive al caldo senza allungare gli occhi se non dove gli fa comodo. Appunto, data per scontata la buona fede, un positivista dell’economia e della politica. Un fallito completo rispetto anche solo ai suoi criteri di falsificabilità (che comunque non sono qui applicabili in quanto la falsificabilità si applica alle teorie scientifiche e non alla sociologia o alla metafisica).
Le cose che dice Popper meriterebbero molto più spazio ma non si uscirebbe da questo complesso di pregiudizi che non hanno sbocco se non in una visione politica chiusa ed autoritaria. Sul volume primo de La società aperta … dirò qualcosa più oltre, quando parlerò dell’altro insano costume di Popper, la trasposizione automatica di concetti affermatosi in certi periodi a situazioni di 2400 anni dopo. Discuteremo delle polpette che fa Popper di Platone, secondo lui alla base di ogni totalitarismo. Chiudiamo solo con un aneddoto di interesse. Nell’estate del 1995, ad un anno dalla scomparsa di Popper uscì sul Times Litterary Supplement un articolo ferocce, ferocemente titolato: Open society, closed thinked.
Platone e la democrazia
Platone è del IV secolo a.C., è un pensatore, tra i più grandi dell’antichità, di 2400 anni fa. Può essere ritenuto il Kant dell’antichità, il sistematizzatore della filosofia, colui che fornisce regole precise dopo i presocratici e in contemporanea con i sofisti.
Il secolo di Platone è di grandi divisioni e guerre nella sua Grecia. E’ la decadenza politica della Città, la Grecia è divisa in centinaia di piccoli Stati continuamente in guerra tra loro. In questa situazione il Paese è facile preda di ogni invasione straniera. L’apogeo di quella civiltà è del secolo precedente, il secolo di Pericle, della nascita della democrazia, con qualche specificazione a lato. In cosa consiste questa democrazia? All’apogeo delle riforme di Pericle, in Atene e nell’Attica, democrazia vuol dire che si comincia a considerare l’uguaglianza di tutti i cittadini (con determinate caratteristiche) in termini di diritti e di doveri, come legislatori e sudditi. Bastava essere abitanti maschi dell’Attica, nati da genitori ateniesi, registrati in qualche municipio dell’Attica che abbiano fatto servizio militare. Che percentuale di cittadini abitanti nell’Attica è questa? Più o meno 30 o 40 mila persone su un totale di circa 400 mila. Intorno ad un 10%. Questa democrazia significa però un qualcosa di molto diverso da oggi: è non tanto uguaglianza di incarichi, di diritti e di doveri, quanto una imposizione ad ogni cittadino di finanziare la difesa, l’abbellimento e la conservazione delle città, secondo le disponibilità di ognuno. In queste circostanze è spiegato da Tucidite (e mi rifaccio all’interpretazione di Tucidite) nella Storia della guerra del Peloponneso come Atene dovesse in qualche modo assumere un atteggiamento espansivo. Tutto era iniziato con l’invasione persiana d’Europa. La necessità di difendersi e di respingere il nemico comune fece costituire delle alleanze e smisero le rivalità interne (Atene e Sparta, ad esempio). Fu Atene che assunse la direzione della Lega che condusse la Grecia a fermare gli invasori. Gradualmente e dopo aver respinto i persiani la Lega andò sulla strada dell’aumento del suo potere tentando la via dell’impero con l’adesione forzata di vari statarelli alla medesima, obbligati a pagare tributi. Ecco che la democrazia degenera e a questa degenerazione fa riferimento Platone con una spiegazione contundente che vedremo più oltre. Pericle, circondato da eccelse menti (Anassagora, Protagora, Fidia, Erodoto, Sofocle,…), regge le sorti di Atene e riscuote il successo e la fiducia dei contadini, dei cittadini che riconoscono la sua onestà e onorabilità. Tutto regge fino al 431 a.C. quando Sparta lancia un ultimatum ad Atene, ultimatum ritenuto inaccettabile dalla Lega. Fu una crisi totale che dette il via alla decadenza della Grecia. Pericle morì nel 429, due anni dopo dello scoppio della guerra con Sparta. La scomparsa di tale figura mise in crisi la Lega. La democrazia si corrompe in tempi piuttosto rapidi. Gli antidemocratici passano all’attacco creando una fronda interna. La conquista momentanea di Atene da parte di Sparta è la goccia che fa traboccare il vaso: un gruppo di aristocratici tra cui due parenti di Platone (Crizia e Carmide) impongono all’Assemblea Popolare di cedere il potere ad un consiglio di 30 cittadini. Si promettevano “meno tasse per tutti” ma poi i cittadini compresero e chiamarono il gruppo dei Trenta Tiranni perché si preoccuparono dei propri interessi particolari e non di quelli della Città. Il ritorno dei democratici richiese una sola battaglia per cacciare con facilità i tiranni. Ma tutto ormai non era più come prima. E qui iniziano le riflessioni e le analisi di Platone nelle Leggi e nella Repubblica. Naturalmente anche qui occorrerebbe un libro intero per cogliere ogni sfumatura. Ma è invece semplice cogliere il succo del problema. Tra i tre regimi conosciuti in Grecia, la democrazia, la oligarchia e la tirannia, quello democratico è quello che apparentemente permette di vivere meglio. Ma il problema, ecco appunto IL PROBLEMA, nasce dal fatto che senza una costituzione, un insieme di leggi, una organizzazione sociale, ognuno ha le sua legge, la sua costituzione e l’insieme origina una disorganizzazione sociale in cui la demagogia ha il sopravvento [si pensi ancora a Banana]. La tirannia che auspica Platone è quella, ad esempio, che non vuole il Cav. Banana, regole certe, leggi, organizzazioni sociali uguali per tutti. E’ esattamente il contrario di quanto qualche sprovveduto, pardòn Pera, è andato raccontando ad un meeting affaristico-integralista. I cittadini che protestavano contro il d.d.l. Cirami erano la democrazia che lottava contro la tirannia ed il disordine che quel Senato andava votando. Erano quelli che hanno rifiutato da tempo i teatrini di un personaggio che in Italia è tragicamente ricorrente e che, altrettanto tragicamente, ci lascia. Ed è ogni azione del governo Banana che va nel senso del disorganizzare, del costruire la democrazia senza leggi, senza regole, del fare demagogia virtù, che era in odio a Platone. Dice il filosofo greco che il morbo della democrazia che egli conosce è il disordine e l’immoralità (ed è anche il morbo di questa democrazia). Ed il filosofo scrive, oltre al libro VII de La Repubblica, anche l’VIII in cui analizza le altre forme di governo che egli conosce, oltre alla democrazia, scagliandosi con particolare violenza proprio contro il potere del tiranno, del migliore. Inoltre una lettura fatta da pseudostudiosi degli anni ’30 ha portato a parlare addirittura di Platone come di un corifeo del comunismo, solo perché auspicava che chi deteneva il potere dovesse essere privo di proprietà, non avesse né famiglia né figli,… proprio per garantire la più perfetta trasparenza [mi ritorna in mente Banana]. Mi si dica ora se quella persona, Pera, indicata con carattere proporzionato alla sua statura morale, è persona di cultura o un affarista di basso rango che ha usurpato la seconda carica dello Stato con “meno tasse per tutti”. Si sia onesti, almeno con se stessi. O si sia disonesti, come molti cantori della Banana che cantano come in un’osteria finché c’è qualcuno che gli dà una mancia, e si dica apertamente che è questo che si vuole: il benessere personale alla faccia di tutti.
Ma Platone aggiunge considerazioni di interesse. Nella democrazia vi è l’Assemblea del popolo ed in essa vi sono degli incompetenti sempre disposti a richiedere pareri tecnici quando si tratta di questioni tecniche ma sempre pronti a disputare sull’amministrazione dello Stato, anche se non sanno di cosa si tratta. Guardate il nostro Parlamento, la coalizione al Governo del Paese esprime ben 150 laureati in legge (contro circa 50 della coalizione all’opposizione) dei quali bel 110 sono avvocati. Questa elefantiasi di avvocati mostra grandi interessi per la giustizia da parte del governo? Ma non scherziamo! E’ una troupe di incompetenti su tutto che deve però salvare gli interessi di Banana. E basta. Il Paese? Cos’è? Di cosa si tratta? Chissenefrega!
Locke ed Hume
Solo un cenno a questi due pensatori, solo per prendere la matita blu e sottolineare con forza errori che neppure uno studente di liceo farebbe. Eppure li fa la seconda carica dello Stato, forte del fatto che ha letto solo il libro di Popper in cui si cita Hume, sfuggendo da Locke. Ed allora il carattere minuto assegna ad Hume, che pure ebbe meriti enormi (se non altro la chiarezza e l’aver risvegliato la coscienza di Einstein dal sonno dogmatico), caratteri che furono invece di Locke. Si tratta della nascita del pensiero liberale: chi, come, dove?
Naturalmente non serve essere uno studioso del pensiero liberale. Basta un bravo studente di liceo per ritrovare alcune semplici cose nel pensiero politico di Locke che, tra l’altro, se avesse ceduto le armi ad Hume, non avremmo avuto le Lettere Inglesi di Voltaire. Perché Locke scrive delle cose nel 1690, Voltaire visita l’Inghilterra e scrive le Lettere … nel 1734 ed Hume nasce nel 1713 mentre i suoi lavori riguardanti morale e politica sono posteriori al 1740. Come avrebbe potuto Voltaire indicare già nel 1734 l’Inghilterra come un Paese aperto alle arti ed ai commerci, un Paese liberale confrontato con la monarchia assoluta ancora esistente in Francia? Beh, bocciamo la seconda carica dello Stato ricordandogli rapidamente alcune posizioni politiche di Locke e di Hume.
Sono del 1690 i Due trattati sul governo di Locke. In questa opera, per la prima volta vengono enunciati i principi di uno Stato liberale, principi che suonano veramente rivoluzionari. Una società civile si costituisce per realizzare l’armonico sfruttamento da parte di tutti i cittadini dei beni fondamentali di cui dispongono: vita, beni materiali e libertà. In questo lo Stato non è dispensatore di diritti ma garante della non sopraffazione dei diritti di ciascuno da parte di qualcun altro. Quindi il concetto di libertà è (e non poteva essere altrimenti in epoche buie di monarchie soffocanti) “libertà dallo Stato” in ogni questione che non sia regolata diversamente con leggi che la società stessa si è date. Uno Stato che violentasse uno solo dei beni fondamentali dei cittadini degenererebbe in tirannide.
Come realizzare ciò? come avere delle garanzie? mediante la divisione dei poteri: legislativo, esecutivo e federativo (300 anni fa, erano questi). Senza queste condizioni si va, come già detto verso la tirannide e Locke non è tenero con essa ma durissimo. Egli dice: “Ogni volta che finisce la legge, inizia la tirannide” (sarebbe d’interesse sapere se è per questo motivo che la seconda carica dello Stato non ha citato Locke nel suo comizio ai giovani di Comunione e Liberazione, meglio conosciuti con l’acrostico Comunicazione tanto caro a Banana. Ma Locke continua autorizzando le manifestazioni sotto l’edificio del Senato perché afferma con estrema forza il diritto del popolo alla resistenza contro il tiranno (che ne facciamo, Pera, di queste affermazioni?).
La politica di Hume studia invece come gli uomini debbano definire le loro relazioni sociali dando dei giudizi sulla loro maggiore o minore giustezza. E’ quindi questa giustizia il discrimine tra relazioni corrette o no, anche se la giustizia è a priori un concetto artificiale (non univocamente definito). Questo artificio è però indispensabile per l’uomo e diventa quindi naturale. Dice Hume nei suoi Saggi morali e politici (1741): “L’origine della giustizia spiega l’origine della proprietà in quanto la stessa convenzione dà origine ad entrambe. Non esiste in natura un diritto fisso di proprietà, finché le passioni umane non sono disciplinate da qualche convenzione“. Qui Hume fa un discorso a pera per tentare di giustificare la prima assegnazione di proprietà; egli dice infatti: “L’espediente più naturale è che ognuno continui a godere ciò di cui è padrone al presente e che la proprietà costante sia unita al possesso immediato” (è il “come stamo stamo” di Alberto Sordi nella Grande Guerra). Il governo è istituito per tutelare la giustizia se non lo fa diventa tiranno e contro la tirannide di un governo è lecito ribellarsi (timido riscatto rispetto alla rinuncia di Hume all’indagine sulla nascita della proprietà). Concludo con la sola osservazione che Hume annette una enorme importanza alla storia intesa come laboratorio sperimentale di colui che voglia studiare la natura umana.
Pera (ancora non so perché questo inutile sia finito in questo articolo. Chiedo scusa a chi si sente offeso).
E veniamo a questo personaggio spacciato per filosofo che, per mia ulteriore disgrazia, risulta anche filosofo della scienza. Ecco se vi è un sintomo della decadenza delle nostre università è proprio questa cialtroneria in cattedra. Scienza è, oltre alle sociologie popperiane ed agli errori marchiani sia di Popper che del suo studioso (?), anche formalizzazione e un filosofo della scienza che si nasconde dietro Galileo, Volta, Galvani e le opere di Popper discorsive (sociologico-demagogiche). Ecco, io che non sono ai livelli di tanto studioso, faccio finta di essere un suo studente e di chiedergli se i diagrammi di Feynmann sono falsificabili, se cioè sia possibile che tali rappresentazioni grafiche possano descrivere lo scambio di particelle o le interazioni tra altre particelle. E nell’EPR come si può descrivere, mediante il formalismo di Dirac, il decadimento di un pai zero. Questo è d’interesse perché Popper ha avuto la buona idea di scrivere un Post Scriptum alla Logica della Scoperta Scientifica, post scriptum in tre volumi. Ed io non ho capito la posizione di Popper sullo scisma nella fisica (anche se ho una qualche idea dai lavori di Franco Selleri), che mi dice, professore? La disuguaglianza di Bell che lei conosce e che io mi permetto di ricordarle, risolve qualche problema?
Poi mi risponderà…nel frattempo vado con la memoria alla gran mole di chiacchieroni del tipo del personaggio in oggetto che, dopo tanto darmi da fare perché venissero accettati, debbono farmi pensare che Feynmann avesse ragione.
Intanto il professore è scappato dalla “trincea del lavoro” per essere prestato alla politica (caspita, che bel guadagno che abbiamo fatto! E’ proprio il classico: l’ignoranza etimologica al potere). E dal pulpito della Seconda carica dello Stato (e questo mi indigna) può sparare sentenze assolutamente prive di ogni base non dico epistemologica ma addirittura solo logica o di conoscenza delle cose in sé (il per sé lo lasciamo perché troppo impegnativo, vero professore?).
Che ha fatto il tapino (insieme al Battista della Stampa, onnipresente ma nullasciente)? Ha sostenuto che: la piazza non può sostituire la politica; le opposizioni, dal canto loro, non possono annullare un risultato elettorale guadagnato legittimamente; il Polo deve quindi governare come hanno scelto i cittadini (e fare soprattutto le riforme), ma senza prevaricazioni. E per argomentare queste sciocchezze è ricorso al suo essere uno che se ne intende poiché conosce storia e filosofia. Infatti ha sostenuto che Platone è il papà di tutti i regimi totalitari (che nascono in Europa con i fascismi), che Hume è il papà del pensiero liberale, che Popper gli ha spiegato tutto questo. Ma sapete cosa non piace e addirittura disprezza il filosofo di Popper? Non lo crederete ma l’ultima sua opera, Cattiva maestra televisione, della quale dice “una posizione marginale e incongrua che in vecchiaia [Popper] prese sulla TV“. Inoltre il filosofo non cita quelle parti del pensiero di Popper in cui metteva in guardia contro il rischio che il potere economico si ponga in una posizione di dominio rispetto a quello politico (egemonia dei poteri forti cari al re delle capre). Il Particulare, si, di questo si tratta … cura i tuoi interessi facendo da carroarmato su tutto il resto. Qualche parola la debbo aggiungere, con nessuna speranza sia capita da Pera, il quale ha un concetto di Stato liberale da far rabbrividire un nazista. Egli dice: Per un liberale vale il detto Fiat libertas, pereat iustitia e perciò vale l’ordine spontaneo del mercato. Ebbene il nostro non conosce il pensiero liberale fin dalla sua fondazione! Banana ha il diritto di governare come l’opposizione ha il diritto di fare l’opposizione (se così non fosse a cosa servirebbero le Camere? fatte le elezioni chi ha perso va letteralmente a casa e … arrivederci fra cinque anni). Allora dove risiede il problema? Nelle regole, nelle leggi. Proprio in quel concetto che non entra nella testa del liberale filosofo. Vi sono dei regolamenti sia della Camera che del Senato che riguardano leggi che debbono avere carattere d’urgenza o meno, leggi con caratteristica referente, leggi che debbono poter essere discusse in tutte le commissioni competenti prima di arrivare in aula,….Ebbene, Pera, ha saltato le regole, il regolamento del Senato, facendo strame di esso ed anche della Costituzione. Un bel primato per un alfiere della società aperta (?), non c’è che dire. Inoltre, il personaggio, è stato capace giorni dopo di andare a spiegare che tutto ciò è accaduto perché, appunto, la maggioranza deve poter governare. Tragga le conclusioni, professore! Se la maggioranza deve poter governare comunque, lei che ci sta a fare? Se ne vada, se ne vada,….
Umberto Curi, su L’Alto Adige del 23 agosto 2002, è molto più sprezzante perché sostiene che nessuno prenderebbe lezioni di scacchi da Ronaldo o affiderebbe i suoi risparmi ad uno sconosciuto solo perché si chiama Sean Connery. Eppure Pera si è affidato alla presunta autorità di chi (Popper appunto) di Platone ne sa quanto Ronaldo di scacchi. Curi prosegue dicendo:
“Popper ha preteso anche di occuparsi di teoria politica e di ingegneria sociale (così egli la definiva), convinto di poter applicare all’ambito delle scienze umane e sociali la stessa metodologia riguardante le scienze empiriche.. I risultati di questa arbitraria invasione di campo furono disastrosi: libri come La società aperta ed i suoi nemici o come Miseria dello Storicismo , sono talmente pieni di approssimazioni e di inesattezze, e spesso di vere e proprie sciocchezze, proposte per giunta con grande sicumera, da non poter essere neppure presi in considerazione da chi si occupi con un minimo di professionalità di politologia e di sociologia. Ma non è tutto. Quando scrive La società aperta, nel pieno della Seconda guerra mondiale, Popper si trova lontano dall’Europa, e per sua stessa ammissione non è in condizioni di consultare né la copiosissima letteratura critica, e neppure i testi originali di Platone. Ciononostante, con troppa baldanzosa autostima, affidandosi soltanto a ricordi lontani, Popper conduce una serrata critica della concezione platonica, dimostrando di non aver capito quasi nulla di quel pensiero, e confermando di non possedere neppure gli strumenti tecnici – testuali, filologici ed analitici – per misurarsi con un autore del tutto irriducibile alle formulette popperiane.
Bene. La seconda carica istituzionale dello Stato, in una sede influente qual è quella del meeting di Rimini, non trova di meglio che esortare tutti gli italiani ad imitare Popper, relegando nell’infamia Platone e l’efferata tradizione di pensiero che da lui è scaturita. Un tic – quello di Marcello Pera – veramente ridicolo, se non fosse anche grave il suo esercizio: soprattutto perché proveniente da chi, come studioso e come figura pubblica, dovrebbe essere abituato a calibrare bene le parole, evitando fatue chiacchiere in libertà.“
Ma Pera non demorde. A Cecchi de Il Giorno che gli chiede di Popper dice che “il suo destino è multiplo. Prima è stato ostacolato perché giudicato anticomunista. Poi è diventato uso comune: tutti popperiani, come oggi sono tutti liberali. Infine ecco l’oblio: lo hanno dimenticato“. Cecchi chiede ancora: Forse perché non è un filosofo adatto al nostro tempo? Ed il filosofo risponde: “Guardi in un momento di crisi delle ideologie e della politica, se oggi uno vuole un filosofo che sia ancora fonte di ispirazioni politiche, quello è Popper“. L’intervista prosegue con le sciocchezze ormai note fino ad arrivare ad un nocciolo che individua nell’Occidente il faro della cultura. E, dice il filosofo: Popper individua oggi la cultura Occidentale soprattutto nella società americana e questa cultura dobbiamo difenderla anche con le armi. Come è stato fatto in Europa con i fascisti e comunisti un tempo oggi dobbiamo farlo, se necessario, con i fondamentalisti.
Ciò che dice il filosofo (lo chiamo così per il principio del minimo sforzo: ogni volta che metto il suo nome dovrei passare ai caratteri e cambiarli… è faticoso) è di una gravità eccezionale perché mostra, se possibile, ulteriori livelli di sua etimologica ignoranza. Quando in Europa si è difesa con le armi contro i comunisti la cultura Occidentale? Professore, la prego, me lo dica? Io educato alla scuola di Dash, quella del lavaggio dei cervelli (come lei mi pare, che poi si è sporcato con Banana), io, appunto, sapevo che i comunisti lottavano in armi contro i fascisti lasciando sul campo oltre 23 milioni di morti. Di lotte in armi contro i comunisti (a parte quegli attentati guidati anche da P2 e piduisti, che lei conosce, vero?), non ne conosco. Si vi era una aggressione al libero Viet Nam, ma gli invasori furono respinti ed ancora vanno dallo psicanalista. Ma poi altro non so. Ah, forse si riferisce a Sukarno ed al massacro di 5 milioni di comunisti in Indonesia? Oppure ai comunisti torturati e massacrati da Pinochet, Videla, Bignone, Massera e compagnia bella? Ci spieghi meglio il suo pensiero, professore? Oppure chieda aiuto al suo sodale Antiseri che è una vera contraddizione vivente. Spieghi almeno ad Antiseri che è l’ora del pasto. Non si attardi a fare il servo docile. O mangia ora o mai più. Ricordi che il governo di centro-sinistra riconobbe (ahimé!) una sua competenza che lo faceva abile a dirigere una delle commissioni di studio per la riforma dei cicli, quella della Scuola Secondaria di secondo grado. Gli faccia osservare che, ora, Antiseri NON ESISTE. In compenso c’è lo sfolgorante Veneziani che è una specie di concetto al limite…della totale e completa ignoranza (l’Illuminismo avrebbe traditole promesse di liberazione dell’uomo ed avrebbe contribuito a evocare le tragedie, gli eccidi, i totalitarismi che si sono susseguiti tra Otto e Novecento: poveretto! e pensare che è il massimo rappresentante della cultura di destra!).
E chiudo con una perlina del filosofo del 2 luglio 2002, mentre passava la legge razzista chiamata Bossi-Fini. Dice Pera: Questa è la società aperta chiuderla significherebbe interrompere il dialogo e disseccarla. Non possiamo lasciare gli immigrati chiusi nelle loro tradizioni né possiamo trasferirli nelle nostre. All’immigrato va detto: entra e ti offro una scuola perché tu impari anche le mie tradizioni e impari il pluralismo. Ti integro non ti indottrino. Ma il professore si dà dei pizzicotti al mattino per sapere se è vivo ? Ma di cosa parla ? Più in generale, ma a che livelli di rappresentanza politica siamo arrivati ?
PS. Allego l’intervista a La Repubblica di Sartori, il giorno dopo delle parole in libertà di Pera al meeting dei cosiddetti cattolici della Comunicazione.
Il politologo critica le tesi di Pera
“E di Popper ha usato l’opera più debole”
Sartori: “Platone e Hume. Citazioni tutte sbagliate”
“La sua espressione ‘tic totalitario’ mi pare assolutamente infondata”
di STEFANO CAPPELLINI
ROMA – Il presidente del Senato Marcello Pera sostiene che alla base del totalitarismo c’è la tentazione, originata dalla filosofia di Platone, di imporre all’intera società il proprio modello ideale di Stato. Le risulta, professor Sartori?
“Questo non mi risulta proprio. Platone non c’entra nulla col concetto di totalitarismo. È assurdo ascrivere al suo pensiero un concetto che ha origine solo nel secolo scorso con la nascita del fascismo. Aggiungo a questo che il libro di Karl Popper da cui Pera ha mutuato questo giudizio è una delle opere più deboli e criticate del filosofo austriaco”.
Sempre secondo Pera, se Platone è il campione del totalitarismo, David Hume lo è del filone liberale. Ma è davvero Hume il nume tutelare del liberalismo politico?
“Faccio una premessa. Hume è un filosofo sottovalutato per quello che riguarda le sue riflessioni politiche. Detto questo, esiste una tradizione difficile da smentire che individua in John Locke il pensatore che ha aperto la strada al moderno liberalismo. Poi a seguire sono arrivati tanti altri, tra cui lo stesso Hume”
Dice ancora Pera: uno dei cardini del liberalismo è la fiducia nell’ordine spontaneo della società.
“La spontaneità è un concetto estraneo alla nascita del liberalismo, che affonda invece le sue radici nel giusnaturalismo e cioè nell’affermazione, certo non spontanea, dell’inviolabilità dei diritti della persona. Solo più tardi c’è stato chi, come von Hayek, ha cominciato a parlare di ordine spontaneo nell’ambito di un pensiero liberale”.
Che ruolo può e deve avere la piazza in una società liberale?
“Basti dire che democrazia significa potere del popolo. La libertà di manifestare in piazza è uno dei cardini della democrazia fin dai tempi dell’antica Atene”.
Pera dice però che la piazza deve seguire la politica e non anticiparla, altrimenti altera il corretto funzionamento delle istituzioni.
“E come si fa a fare un ragionamento del genere? Non è possibile discriminare una piazza che va bene e una che va male sulla base dell’obbedienza alle ragioni della politica. L’unica discriminante è nell’uso o meno della violenza. Solo di una piazza violenta si può dire che non è legittima”.
Il vice-presidente del Senato Domenico Fisichella ha risposto indirettamente a Pera sostenendo che la voglia di ricorrere alla piazza è dovuta anche alla “situazione di egemonia esistente nel settore delle comunicazioni”.
“Condivido pienamente. Nel momento in cui la piazza virtuale, se vogliamo utilizzare questa espressione in riferimento ai media, risulta monopolizzata, la piazza reale diventa un necessario veicolo per comunicare le proprie ragioni”. Tutta la premessa filosofica serve a Pera per attaccare i girotondini che rappresenterebbero “un tic totalitario”.
“Qui davvero non capisco. Che vuol dire tic? Un tic nervoso? Non lo so, rinuncio ad esprimermi, per quello che posso capire di questa affermazione trovo che sia assolutamente priva di fondamento”.
(20 agosto 2002)
DI SEGUITO RIPORTO ALCUNI ARTICOLI CHE TRATTANO DEL TEMA SOKAL.
Kos
maggio 1999
PIERRE JACOB |
La filosofia, il giornalismo, Sokal e Bricmont |
Conosciamo tutti il caso Sokal? Sokal, famoso fisico americano, nel 1996 pubblicò su *Social Text* uno “strano” articolo: venivano sostenute stravaganti interpretazioni di alcuni risultati della logica, della matematica e della fisica. Poco tempo dopo sulla rivista *Lingua Franca* apparve un altro articolo, sempre di Sokal, ancora più strano. L’autore affermava di essersi preso gioco, con l’articolo precedente, del mondo intellettuale umanistico. L’accusa partita da Sokal., poi sostenuta anche da Bricmont, si rivolgeva contro gli umanisti che si lasciano tentare dallo “scientismo” |
Nel 1996 la rivista di studi letterari americani Social Text pubblicava un articolo del fisico americano Alan Sokal, dal titolo misterioso: “Transgresser les frontières: vers une herméneutique transformative de la gravitation quantique”. l’articolo offriva interpretazioni del tutto stravaganti di certi risultati della logica, delle matematiche e della fisica, invocando autorità di molti autori francesi celebri nel mondo delle scienze umane e della filosofia. Mi limiterò a fornirne due esempi succinti. Nell’articolo si affermava, ad esempio, che “il p di Euclide e il G di Newton, un tempo ritenuti costanti ed universali, sono ora percepiti nella loro ineluttabile storicità”. In una nota che giocava sui molteplici significati dei termini “scelta” e “uguaglianza”, si rimproverava ai matematici cosiddetti “liberali” di accogliere la teoria degli insiemi di Zermelo–Fraenkel, la quale ammette due assiomi ritenuti “conformi alle sue origini liberali” (nell’accezione politica del termine): gli assiomi, per l’appunto, dell”‘uguaglianza” e della “scelta””. Per “assioma dell’uguaglianza” bisogna intendere verosimilmente l’assioma dell’estensibilità”. Nella teoria degli insiemi, tale assioma afferma semplicemente che se due insiemi sono composti dai medesimi elementi, essi sono uguali o identici l’uno all’altro. L’assioma della “scelta” afferma che data una serie di insiemi che si escludono a vicenda esiste sempre un insieme composto esattamente da un elemento appartenente a ciascuno degli insiemi della serie.
Due mesi più tardi, nella rivista Lingua Franca, Sokal rivelava che l’articolo apparso in Social Text era una beffa escogitata al fine di dimostrare l’irresponsabilità intellettuale diffusa nelle riviste di ambito umanistico. Come affermato dal filosofo Paul Boghossian (Boghossian, 1996), la pubblicazione della parodia ideata da Sokal dimostra, da parte dei responsabili della rivista, “una sublime indifferenza al contenuto, alla verità., alla plausibilità (…) e all’intelligibilità” dei prodotti sottomessi alla loro accettazione. Nel settembre l997 è apparsa a Parigi un’opera firmata da Alan Sokal e dal fisico belga Jean Bricmont. dal titolo Impostures intellectuelles che da un anno e mezzo a questa parte ha fatto scorrere fiumi di inchiostro sulla stampa francese.
I due obiettivi di Sokal e Bricmont
In quest’opera fortemente mediatica, Alan Sokal e Jean Bricmont perseguono due distinti obiettivi: svelare i moventi della tentazione “scientista” degli umanisti e muovere una critica al relativismo epistemologico (da essi definito “relativismo cognitivo in filosofia della scienza” ). vale a dire l’interpretazione relativista delle teorie scientifiche. La demistificazione della tentazione “scientista” degli umanisti mi sembra assai salutare e condivido l’antipatia di Sokal e Bricmont per il relativismo epistemologico.
Da una parte, essi mettono efficacemente alla berlina la tentazione cui non hanno saputo resistere certi autori francesi di opere nel settore delle scienze umane: la tentazione “scientista” che minaccia gli umanisti. Lo “scientismo” è qualcosa di simile al culto, alla religione o alla venerazione della scienza e delle matematiche. Quella che io definisco tentazione “scientista” degli uomini di lettere ha a sua volta due facce: essa consiste, anzitutto, nel credere che un letterato, avvalendosi di un vocabolario preso a prestito dai risultati della logica, delle matematiche o della fisica – di cui egli stesso non comprende granché – può conferire alle proprie idee un sovrappiù di profondità e dignità intellettuale. A ciò si aggiunge la presunzione di credere che, trasponendoli nel suo ambito prediletto di azione. il letterato conferisca ai teoremi logici e matematici o alle teorie fisiche il loro significato autentico e un prestigio di cui mancavano in precedenza.
D’altra parte, Sokal e Bricmont si preoccupano, non senza ragione, per il successo crescente del relativismo epistemologico o dell’interpretazione relativistica delle teorie scientifiche nell’ambito della sociologia della scienza, Secondo uno degli slogan più diffusi negli “studi sociali delle scienze” (o “science studies”) di cui Bruno Latour è un buon rappresentante francese (cfr. Latour., 1989), i fatti scientifici sono “costruzioni sociali” e le prove scientifiche sono il frutto di una “contrattazione sociale”. Un fautore del relativismo epistemologico può affermare che, in ambito scientifico, la verità non esiste, che essa è relativa ad un gruppo, una cultura o una comunità. oppure che ci sono tante verità scientifiche quanti mondi diversi.
Chi afferma che in ambito scientifico la verità non esiste si espone evidentemente al dilemma di sapere se egli stesso crede alla verità di quello che dice. Se non ci crede, perché prenderlo sul serio? Se ci crede, ammette dunque che esistano delle verità. In questo caso, in virtù di quale manchevolezza le scienze dovrebbero per natura essere private del potere di velare la benché minima verità?
Chi ammette che ogni verità relativa ad una prospettiva o ad un gruppo particolare suppone che se io giudico vera un’affermazione e voi la giudicate falsa, e se noi apparteniamo a due gruppi diversi o le nostre prospettive sono diverse, non esiste un reale conflitto fra noi. Ciò che voi credete non contraddice realmente ciò che io credo. Chi afferma che ogni verità è relativa ad una specifica prospettiva deve riconoscere l’esistenza di una prospettiva in cui la propria concezione non è vera o nella quale la negazione della propria concezione è vera. In altri termini. non può pretendere di avere realmente ragione.
Quanto alla teoria secondo la quale esistono tante verità scientifiche quanti sono i mondi che ad esse corrispondono, essa è stata resa popolare da Kuhn (Kuhn, 1972) e Feyerabend (Feyerabend, 1975) sotto l’etichetta di ‘incommensurabilità’ fra teorie separate da un “mutamento di paradigma” -mutamento incarnato, ad esempio, dalla transizione fra geocentrismo ed eliocentrismo in cosmologia. Nella cosmologia geocentrica, la Terra è immobile al centro dell’universo e il Sole le ruota intorno. Nella cosmologia eliocentrica, è la Terra a ruotare intorno al Sole. Giudicare “incommensurabili” queste due teorie significa affermare che esse sono intraducibili l’una nell’altra. Kuhn paragona il passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo al mutamento perpetuo di Gestalt grazie al quale, in una stessa raffigurazione ambigua, un individuo può vedere sia due facce nere di profilo che si guardano su uno sfondo bianco, sia un vaso bianco su un fondo nero. Ma, secondo Kuhn,, a differenza di un cambiamento perpetuo di Gestalt, il passaggio da un paradigma scientifico all’altro è irreversibile: una volta divenuti sostenitori dell’eliocentrismo, non si può più comprendere la posizione geocentrica. Si tratta, evidentemente, di una tesi troppo forte: non si possono certo ritenere contemporaneamente vere due descrizioni cosmologiche reciprocamente incompatibili del sistema solare, come l’eliocentrismo e il geocentrismo. Ma chiunque aderisca ad una descrizione eliocentrica del sistema solare è certo in grado di comprendere la descrizione geocentrica. Alla tesi dell”‘incommensurabilità” tra la meccanica newtoniana e la meccanica relativistica è stato obiettato che la meccanica newtoniana costituisce una buona approssimazione della meccanica relativistica e che la prima è deducibile dalla seconda, per il tramite di alcune ipotesi ausiliarie. In risposta a questa obiezione, Kuhn afferma che la meccanica newtoniana prima dell’apparizione della meccanica relativistica e la meccanica newtoniana dopo l’apparizione della meccanica relativistica sono due teorie distinte, perché prima non si sapeva che la meccanica newtoniana era deducibile, a certe condizioni, dalla meccanica relativistica, e ora invece lo si sa. Ma – come ha osservato il fisico teorico Steve Weinberg (Weinberg, 1998), ciò equivale a dire: “La bistecca che sto mangiando non è quella che ho comprato, perché so che la bistecca che sto mangiando è troppo cotta e non lo sapevo quando l’ho comprata”.
I partigiani dell”‘incommensurabilità” fra teorie separate da un cambiamento di paradigma, giungono fino a sostenere che al geocentrismo e all’eliocentrismo corrispondono “ontologie” o “mondi” diversi. Se così fosse, eliocentrismo e geocentrismo non sarebbero realmente due concezioni cosmologiche rivali e mutualmente incompatibili, dal momento che due teorie possono essere ritenute incompatibili solo se attribuiscono alle stesse entità proprietà che esse non possono rappresentare simultaneamente. Ora, la dottrina della pluralità dei mondi è stata inventata per risolvere, se non un falso problema., quanto meno un problema che non si pone realmente: è stata cioè inventata per spiegare il perché esistano, in ambito scientifico, controversie fra studiosi che, di fronte a certi dati dell’osservazione o a certe prove sperimentali, aderiscono a teorie incompatibili fra loro. Per inciso, i sociologi della scienza credono che, a meno di ricorrere alla “contrattazione sociale”, la soluzione delle controversie scientifiche diverrebbe inesplicabile. Ma l’esistenza di controversie scientifiche si spiega naturalmente con il fatto che, in ambito scientifico. le teorie non discendono per deduzione dai dati dell’osservazione o da prove sperimentali: esse sono largamente “sottodeterminate” dai dati o dalle prove; le ingerenze che portano dai dati o dalle prove alle teorie sono sempre soggette ad un rischio,, poiché sono induttive e non deduttive. Per spiegare l’esistenza delle controversie scientifiche, non è necessario postulare una “pluralità di mondi”. E a meno di supporre che solo le ingerenze deduttive siano probanti, non è più necessario invocare “contrattazioni sociali” per spiegare la soluzione delle controversie scientifiche. Al contrario, ciò che merita una spiegazione è piuttosto la preponderanza delle convergenze scientifiche. Tenuto conto del fatto che le teorie scientifiche sono “sottodeterminate” da prove o da dati favorevoli, la questione fondamentale sollevata dalla storia delle scienze esatte consiste nel comprendere come gli specialisti finiscano per accordarsi nel decidere quali osservazioni sono suscettibili di operare una discriminazione fra teorie scientifiche rivali e di determinare quali teorie vadano eliminate.
Sokal e Bricmont attribuiscono la qualifica post-moderno a chiunque soccomba alla tentazione “scientista” degli umanisti e aderisca inoltre al relativismo epistemologico. In altri termini, essi conferiscono alla nozione di “postmodernismo” il compito delicato di stabilire un ponte fra i loro due obiettivi: la demistificazione della tentazione “scientista” degli umanisti e la denuncia dei misfatti del relativismo epistemologico. Nonostante la mia simpatia per ciascuno dei due obiettivi di Sokal e Bricmont presi separatamente, non sono convinto che essi riescano efficacemente collegarli, né che gli autori di cui essi si fanno beffe aderiscano effettivamente al relativismo epistemologico: è poco plausibile che chi crede che la legittimità di un’opera nell’ambito delle scienze umane risulti accresciuta dal ricorso alle magie del vocabolario scientifico aderisca, al tempo stesso, al relativismo epistemologico. Comunque sia, il mio obiettivo non e quello di criticare Sokal e Bricmont. Ho constatato con sorpresa che, dopo l’apparizione di Impostures intellectuelles nell’autunno 1997 la demistificazione di quanto Sokal e Bricmont definiscono, a torto o a ragione, “postmodernismo” ha stimolato direttamente o indirettamente, sulle pagine culturali di Le Monde e di altri periodici, non poche sciocchezze da parte di cronisti e recensori di libri di filosofia e scienze umane. Eccone alcuni esempi.
Scientismo e metafora
Sulle pagine di Le Monde del 30 settembre 1997 (p. 27), due cronisti attribuivano a Sokal e Bricmont dottrine che nulla autorizza ad ascrivere loro. Marion van Renterghem accusava Sokal e Bricmont di condurre un’operazione scientista di svalutazione intellettuale” la cui “vera vittima” sarebbe niente meno che “il pensiero”. Certo, Sokal e Bricmont contribuiscono a screditare gli autori di opere umanistiche che hanno ceduto alla tentazione scientista degli umanisti. A mio avviso, lo scientismo non consiste tanto nell’irridere coloro che cercano di adornarsi del prestigio di certi risultati logici, matematici o fisici senza preoccuparsi di comprenderli, quanto nel soccombere a questa stessa tentazione.
In un articolo intitolato “Au risque du scientifiquement correct” . pubblicato sulla stessa pagina di Le Monde, Roger-Pol Droit attribuiva a Sokal e Bricmont una
“concezione del pensiero” secondo la quale sarebbe reputato “privo di senso”, “tutto ciò che non è enunciato matematicamente o verificato sperimentalmente”. In realtà, Sokal e Bricmont non cercano affatto di incoraggiare gli specialisti delle scienze umane a sfruttare le risorse esoteriche della matematica o della fisica. Al contrario: essi ottengono piuttosto l’effetto opposto, giacché esigono, da parte di autori i cui temi non sono la logica, né le matematiche, né la fisica., bensì l’arte poetica, la fantasia, i turbamenti mentali o i sistemi politici, una giustificazione dei loro prestiti dal gergo della logica, delle matematiche o della fisica. Sono piuttosto coloro su cui si appunta la derisione di Sokal e Bricmont i quali sono inclini a supporre che un enunciato, se non è composto di termini appartenenti al lessico delle matematiche, non è in grado di esprimere una proposizione dotata di senso. Quanto alla tesi secondo la quale, a meno di essere stato verificato sperimentalmente, un enunciato non matematico sarebbe sprovvisto di senso, essa è assurda e nulla autorizza a pensare che Sokal e Bricmont vi aderiscano. Roger-Pol Droit voleva senza dubbio attribuire a Sokal e Bricmont la tesi secondo la quale un enunciato che non si presta all’esecuzione di un test sperimentale o non è verificabile sperimentalmente non esprime nessuna proposizione dotata di senso. Ma Sokal e Bricmont conoscono – come il loro libro documenta ampiamente – le obiezioni cui si espone questa tesi che fu, un tempo, difesa da fautori del positivismo logico, prima che essi vi rinunciassero soprattutto sotto i colpi delle critiche di Popper e che è nota con il nome di “criterio verificazionista della significazione cognitiva”. Nulla autorizza a credere che Sokal e Bricmont aderiscano a questo criterio. Per inciso, essi non difendono neppure il criterio popperiano di “demarcazione” fra le proposizioni scientifiche e quelle non scientifiche, vale a dire la tesi secondo la quale ciò che distingue una proposizione scientifica da una non scientifica è che la prima, a differenza della seconda, può essere confutata da un esempio contrario.
Sokal e Bricmont hanno voltato dimostrare che un certo numero di autori in ambito umanistico hanno fatto riferimento a diversi risultati logici, matematici o fisici di cui in realtà non comprendevano il senso. Questa dimostrazione solleva tre interrogativi. Può essere ritenuta convincente? Se sì, bisogna trarne come conseguenza l’inutilità del contributo degli autori dediti alla filosofia e alle scienze umane? Infine, come spiegare la tentazione “scientista” degli umanisti? Nel numero di Le Monde del 30 settembre 1997 e in quello del 2 ottobre 1998, Roger-Pol Droit formula una risposta positiva alla prima domanda e una risposta negativa alla seconda, Possiamo giudicarlo coerente? Ognuno potrà valutare. Stando a ciò che riferisce Marion van Renterghem in Le Monde del 30 settembre 1997. Julia Kristeva\ suggerisce una risposta alla terza domanda: la tentazione (cui ella stessa ha ceduto) risponderebbe all’esigenza delle scienze umane di disporre di metafore. Nel Nouvel Observateur del 25 settembre 1997, ella scrive che, in ambito umanistico, la riflessione è più vicina alla metafora poetica che alla modellizzazione”.
Ma che cos’è una metafora? Si tratta di una figura retorica che consiste nell’enunciare una frase sapendola letteralmente falsa. La falsità letterale di un enunciato metaforico consiste nel fatto che si attribuisce volutamente ad un’entità una qualità che essa non può avere. Si può ricorrere ad una metafora per un fine poetico, come attestano i primi due versi del celebre sonetto di Baudelaire intitolato “Corrispondenze”‘: “E’ un tempio la Natura ove viventi pilastri a volte confuse parole mandano fuori”. Ci si può anche servire di una metafora per uno scopo pragmatico: facilitare la comprensione di una serie di pensieri complessi che, a meno di essere comunicati indirettamente grazie all’impiego di una metafora, non potrebbero essere comunicati direttamente se non mediante un enunciato la cui complessità richiederebbe, da parte dell’ascoltatore, uno sforzo di comprensione assai oneroso. Supponiamo che un genitore dica ad un bambino: “La tua camera è un porcile”. Un porcile è un luogo abitato da un maiale. Ciò che il locutore ha detto esplicitamente della camera di suo figlio è dunque letteralmente falso. Ma se il bambino sa che un porcile è un luogo caratterizzato dalla sporcizia che vi regna, grazie a questa frase letteralmente falsa il bambino capirà che l’adulto ha inteso comunicargli indirettamente che la sua camera era sporca. Una metafora può svolgere il suo ruolo poetico o pragmatico solo se il parlante (o l’autore) e il destinatario del messaggio sanno che ciò che essa esprime direttamente è letteralmente falso. Quando una madre dice al suo bambino: “La tua camera è un porcile”, ella non si aspetta di trovare un maiale nel letto di suo figlio, né che suo figlio gliene mostri uno.
Ogni enunciato metaforico esprime sempre una proposizione letteralmente falsa? Questo è ciò di cui si potrebbe dubitare prendendo in considerazione un enunciato metaforico negativo come: “Jules non è un’aquila”. Senza dubbio un siffatto enunciato esprime una proposizione, vera letteralmente. Tuttavia si può supporre che, enunciando una tale proposizione, il locutore non voglia semplicemente esprimere un truismo. Piuttosto egli vuol far comprendere indirettamente al suo interlocutore che, a suo avviso, la persona denominata “Jules” non è caratterizzata da spiccata intelligenza. Ora, per comprendere ciò che ha voluto indirettamente significare il locutore, il destinatario deve sapere che si può comunicare indirettamente il concetto che una persona è di un’intelligenza eccezionale enunciando una proposizione falsa letteralmente (e che consiste nell’attribuire alla persona la proprietà dell’essere aquila). Egli deve infine comprendere che è questo concetto che il locutore nega. Dunque, per determinare quale proposizione il locutore vuole negare, il destinatario deve formulare un concetto falso letteralmente.
Il metodo scientifico può avvalersi di metafore? La questione è difficile. E’ innegabile che confronti e analogie congetturali giochino un ruolo centrale nella metodologia scientifica, come attestano gli esempi seguenti: nel XVII secolo i fisici meccanicisti paragonavano l’universo ad un orologio, in tempi più vicini a noi, Niels Bohr\ ha accostato le orbite degli elettroni attorno al loro nucleo atomico alla struttura del sistema solare, gli psicologi contemporanei confrontano volentieri il cervello umano con un computer digitale. Un confronto o un’analogia possono essere ritenuti letteralmente veri per certi aspetti e falsi per altri. Al pari dei pianeti del sistema solare che gravitano intorno al Sole, gli elettroni di un atomo gravitano intorno al suo nucleo. Ma, contrariamente al Sole, il nucleo di un atomo di idrogeno non emette fotoni. Ciò che limita il ruolo delle metafore propriamente dette in ambito scientifico è il fatto che chi usa una metafora sa di dire qualcosa di letteralmente falso. Ora, nelle scienze – ivi comprese le scienze umane, è raro che si esprima volontariamente una proposizione che si sa essere falsa.
In La Recherche, 299 (giugno 1997) e 304 (dicembre 1997), il fisico Jean-Marc Lévy-Leblond\ si è fatto difensore di una versione radicale del dualismo metodologico fra fisica e scienze umane. Per inciso, egli ritorce sui fisici l’accusa di “disinvoltura metodologica”: a suo parere, ì fisici non hanno che da prendersela con se stessi se gli umanisti fraintendono il significato di termini come “big bang”, “buchi neri” o “particelle incanto (charm)”, che ì fisici prendono a prestito senza pudore dal linguaggio ordinario. Alla semplicità dei problemi affrontati in fisica e alla banalità del suo metodo sperimentale, egli oppone la complessità “incommensurabile delle scienze umane. Di conseguenza la “testualità” delle scienze umane sarebbe “di natura diversa rispetto a quella della fisica. Agli studiosi di ambito umanistico, qualora il metodo sperimentale sembrasse loro inadeguato.
Lévy-Leblond consiglia di lavorare “al cuore della lingua”, di “mobilitare tutte le risorse dell’immaginario, tutti i riferimenti culturali, per tentare di far emergere effetti di senso ben più sottili” del “piatto consenso fra sperimentazione e teoria. Secondo Lévy-Leblond, Sokal e Bricmont sottovalutano gravemente queste difficoltà e “si ingannano totalmente sullo statuto del discorso nell’elaborazione del sapere”. Sorvoliamo sul disprezzo mostrato da Jean-Marc Lévy-Leblond nei confronti della sperimentazione dove essa è possibile. Egli ha l’aria di credere che si possa al tempo stesso aderire al dualismo metodologico radicale fra scienze umane e scienze sperimentali e assegnare come obiettivo alle scienze umane l'”elaborazione di un sapere”. Sapere significa avere ragioni fondate per reputare vera una proposizione (o un insieme di proposizioni). Jean-Marc Lévy-Leblond raccomanda che in ambito umanistico siano ” mobilitati tutti i riferimenti culturali”. Tutti? Quali sono i limiti di ciò che egli definisce “la cultura”? Crede davvero che mobilitando le risorse dell’astrologia, gli studiosi di discipline umanistiche contribuiranno all’elaborazione di un sapere? Dubito che l’astrologia possa partecipare all’elaborazione di un sapere umanistico e dubito che vi creda Jean-Marc Lévy-Leblond.
La “malafede” di Bouveresse
Prenderò ora come esempio la recensione del libro di Jacques Bouveresse e Jean-Jacques Rosat, Le philosophe e le réel (Bouveresse e Rosat, 1998) , apparsa in *Le Monde des livres* del 18 dicembre 1998 (p. ix), a firma di \Roland Jaccard\. In questa recensione, che ho letto non senza un certo disgusto, si parla a lungo del personaggio Wittgenstein, ma senza dire nulla delle sue idee. Nel seguito, le affermazioni gratuite e prive della benché minima giustificazione, fanno a gara con le insinuazioni gratuite e con il cinismo, Ora, per alcuni aspetti. questa recensione richiama in una certa misura un paragrafo della cronaca dedicata da Roger-Pol Droit a Sokal e Bricmont in Le Monde des livres del 2 ottobre 1998 (p. vi).
Cominciamo dalle affermazioni gratuite. Jaccard si dichiara “preoccupato”. Vediamo in cosa consiste la preoccupazione. Nel libro recensito da Jaccard, Jacques Bouveresse, che ha dedicato una parte importante del suoi scritti all’esegesi dell’opera dì Wìttgenstein, dichiara la sua diffidenza verso i rischi che la seduzione fa correre al filosofo. Ora, questa diffidenza sarebbe smentita da Wittgenstein stesso, il quale, afferma Jaccard, “ha saputo giocare l’arte della seduzione meglio di chiunque altro”. Si può forse contrapporre lo stile aforistico dell’opera di Wittgenstein allo sue più esplicitamente argomentativo di altri filosofi di questo secolo. Ma lo stile aforistico dell’opera di Wittgenstein non basta per giustificare questa frase. Per di più., Jaccard rimprovera a Bouveresse il fatto di non aver accordato alle opere cinematografiche di Welles, Hawks o Kurosawa tutta l’importanza che meritano, mentre. il cinema “esercitò [sic] una vera passione”‘ su Wittgenstein. Sembra di sognare: quale aspetto fondamentale dell’opera filosofica di Wittgenstein (morto, va ricordato, nel 1951) dovrebbe, secondo Jaccard, essere illuminato dal suo gusto accertato per i film western? Quali idee filosofiche di Wittgenstein sono rimaste incomprensibili a Bouveresse in virtù della sua presunta indifferenza all’opera dei succitati cineastí? Se Jaccard si desse la pena di considerare queste due domande, credo che la sua preoccupazione si dissiperebbe. Alle affermazioni gratuite su Wittgenstein, Jaccard aggiunge un’insinuazione alla quale conferisce, definendola “ipotesi”, una dignità del tutto superflua: ciò che sarebbe “mancato” a Bouveresse, è la “categoria del piacere”! Comunicando implicitamente al lettore la sua antipatia per il puritanesimo, Jaccard dà prova di un atteggiamento diffuso tra i cronisti di Le Monde. In effetti, nella sua cronaca del 2 ottobre 1998, tornando sull’affare Sokal, Roger-Pol Droit ha ritenuto illuminante l’istituzione di un accostamento fra il rapporto del procuratore americano Kenneth Starr sulle scappatelle di Bill Clinton e l’opera di Sokal e Bricmont: “Nel rapporto Starr e nell’accanimento Sokal” [sic], scriveva Roger-Pol Droit, si “possono vedere due facce del rigorismo puritano, due maniere di alimentare una certa immagine dell’odio”. “Per diventare Wittgenstein”, scrive quindi Jaccard, “bisogna correre dei rischi esistenziali”, Sia pure. Ma nel libro di conversazioni da lui recensito, Bouveresse non lascia adito a dubbi: in nessun momento si confonde con Wittgenstein. La recensione di Jaccard culmina nel cinismo (nel senso comune del termine e non in quello della scuola dei Cinici dell’antichità) quando non trova niente di meglio da rimproverare a Bouveresse che la sua mancanza di “malafede”.
Roland Jaccard può vantarsi di aver inventato un nuovo stile polemico. Prima di lui era una giusta contestazione rimproverare a un autore di essere in rnalafede. D’ora in poi – grazie a Roland Jaccard – si potrà rimproverare a un filosofo di mancare di rnalafede!
Derrida, Rorty e il realismo metafisico
Prenderò come ultimo esempio una recensione di buona qualità, che ho letto con piacere in Le Monde des livres del 27 novembre 1998: la recensione di Christian Delacampagne alla traduzione francese del libro di John Searle, La construction de la réalité socíale (1998). Fino al penultimo paragrafo. Christian Delacampagne informa chiaramente sull’opera di John Searle. Il penultimo paragrafo della recensione contiene, tuttavia, alcune singolari affermazioni.
La mia prima sorpresa è stata quella di apprendere che, per Christian Delacampagne, non si può che approvare Searle, quando afferma l’esistenza di una realtà indipendente dalla nostra coscienza, . ovvero quando difende la concezione classica secondo la quale la verità sarebbe il prodotto dell’adeguamento delle nostre rappresentazioni al mondo”. La tesi metafisica dell’indipendenza della realtà non mentale rispetto allo spirito umano e la concezione della verità-corrispondenza sono, come lascia intendere Christian Delacampagne, due tesi realiste solidali l’un con l’altra. E Searle aderisce innegabilmente a queste due concezioni. Ma – come dimostra ampiamente la letteratura filosofica contemporanea – è errato lasciar intendere che queste dottrine poggino su argomenti e giustificazioni talmente inoppugnabili che nessun filosofo degno di tale nome sia disposto a ripudiarle. Chiunque provi della simpatia per il realismo metafisico riconoscerà facilmente che i suoi avversari sono numerosi e non sprovvisti di risorse.
La verità è la proprietà espressa dal termine “vero”. A che genere di cose si riferisce la verità? A proposizioni, pensieri, credenze. teorie o enunciati che le esprimono, la verità possiede, come l’elettricità o l’eredità, una struttura profonda, misteriosa e nascosta che l’indagine scientifica sarà un giorno in grado di svelare? Tutte le proposizioni vere sono vere in virtù del fatto che esemplificano tutte una sola ed unica proprietà soggiacente più fondaimentale? Alcuni filosofi rispondono
categoricamente di no a questa domanda. Come Willard van Orman Quine e Paul Horwich, essi aderiscono ad una concezione della verità che definiscono “minimalista” o “deflazionista”. La verità non è altro per loro che un puro e semplice “strumento di ascensione” (o di generalizzazione) semantica che consente di enunciare comodamente una serie di leggi logiche. In luogo di enunciare una serie infinita di antitesi come “Il cielo è blu o il cielo non è blu”, si può formulare il principio del terzo escluso. dicendo: “Ogni proposizione è vera o falsa”. Al contrario. gli “inflazionasti” suppongono che tutte le proposizioni vere siano come gli esseri viventi. Per quanto diversi nella forma o nell’apparenza – che si tratti di vegetali o di animali – tutti gli esseri viventi sono viventi in quanto composti di cellule il cui nucleo contiene molecole di DNA (acido desossiribonucleico). Essere composti di DNA è dunque una proprietà soggiacente fondamentale che spiega perché un essere vivente qualunque è vivente. Per un filosofo “inflazionista”, ogni proposizione vera trae la sua verità dal fatto di esemplificare una proprietà soggiacente più fondamentale. Gli uni – i “verificazionisti” – suppongono che ciò che rende vera una proposizione è il fatto che essa è verificabile o compatibile con altre proposizioni. Gli altri – i realisti – suppongono che ciò che rende vera una proposizione è il fatto che essa corrisponde ad uno stato di cose. Contrariamente a ciò che suggerisce Christian Delacampagne, le possibilità di disaccordo non mancano dunque in materia di teoria della verità.
Dopo questa prima affermazione. sono stato ancora più sorpreso di apprendere dalla penna di Christian Delacampagne che sarebbe un errore attribuire “tesi diametralmente opposte a Jacques Derrida o a Richard Rorty -che non hanno mai sostenuto nulla di simile”. A rigore, Christian Delacampagne non afferma espressamente che Jacques Derrida e Richard Rorty aderiscono al realismo metafisico e alla concezione della verità-corrispondenza. Ma giacché egli scrive che “non si può che approvare queste due dottrine difese da John Searle, negando che Jacques Derrida e Richard Rorty vi si oppongano, lascia intendere innegabilmente che vi aderiscano. Dubito che egli abbia ragione.
Non avendo sufficientemente “visitato” i suoi scritti, per riprendere il termine adoperato dallo stesso Jacques Derrida in Le Monde del 20 novembre 1997, non so se Jacques Derrida aderisca alla tesi metafisica dell’indipendenza della realtà rispetto allo spirito umano e alla concezione della verità-corrispondenza. Ma, lo ripeto, ne dubito. In questo articolo di Le Monde intitolato “Sokal et Bricmont ne sont pas sérieux”, Jacques Derrida metteva in guardia coloro “che non hanno letto ciò che avrebbero dovuto leggere per misurare le (… ) difficoltà” celate dalla sua opera. Mi domando se Christian Delacampagne non abbia sottostimato queste difficoltà esegetiche quando lascia intendere che Jacques Derrida aderisce alla tesi metafisica dell’indipendenza della realtà non mentale rispetto allo spirito umano e alla concezione della verità-corrispondenza.
Ciò che so per certo, al contrario., è che Richard Rorty non prova alcuna simpatia per queste dottrine. L’opera di Rorty appartiene alla tradizione pragmatista i cui fautori si sforzano, in linea generale, di trovare una via intermedia fra il realismo metafisico e l’antirealismo, e per i quali la verità è imparentata con l’utile. Nei suoi scritti, Richard Rorty oscilla fra due inclinazioni. Talora cerca di confutare il realismo metafisico e la concezione della verità-corrispondenza. Talaltra, si sforza di superare l’antinomia fra realismo e antirealismo, e di dissolvere l’opposizione fra la concezione della verità-corrispondenza e la concezione della verità-coerenza, opposizione che reputa un contrasto sterile o un problema pseudo-metafisico.
Per mostrare l’ostilità di Richard Rorty verso il realismo metafisico e la concezione della verità-corrispondenza. , prenderò a prestito da lui tre brevi citazioni. Come lascia intendere la presenza del termine inglese “mirror” (specchio) nel titolo della sua celebre opera Philosophy and the Mirror of Nature, Richard Rorty si leva in questo libro contro l’idea realista secondo la quale lo spirito umano aspira a riflettere (o a corrispondere a) una realtà indipendente da se stesso. A pagina 308 del libro, Rorty afferma che, in sostanza, il termine francese “vrai” significa approssimativamente “ciò che può essere difeso contro ogni obiezione”. Ora, per l’appunto, un sostenitore della concezione realista della verità-corrispondenza obietterà a questa concezione d’ispirazione verificazionista del significato del termine “vero” che una proposizione può ben essere falsa se non corrisponde ai fatti, anche se nessun essere umano riuscirà mai a dimostrare che è falsa. Nel suo volume Consequences of pragmatism, Richard Rorty fa riferimento, per approvarla, alla concezione del pragmatista William James secondo cui il termine ‘vero’ somiglia al termine ‘buono’, nella misura in cui esso esprime una nozione normativa, vale a dire la nozione di un complimento reso agli enunciati che sono fonte di profitto e a quelli che sono compatibili con altri enunciati che sono fonte di profitto”. Infine, in un capitolo dei suoi Philosophical Papers, intitolato “Le pragmatisme, Davidson et la verité”, egli scrive, concordando nuovamente con William James: “Ai critici che gli obiettavano che una verità non è vera perché è utile, è utile perché è vera”, James rispondeva che non avevano compreso la sua tesi secondo la quale ‘vero’ è espressione di approvazione e non un’espressione descrittiva adoperata per far riferimento ad uno stato di cose la cui esistenza spiegherebbe il successo di coloro le cui convinzioni sono vere. Secondo James, c’è una morale da trarre dal ripetuto insuccesso dei filosofi che ricercano la microstruttura della relazione di corrispondenza: semplicemente, non c’è nulla da scoprire e la verità non è una nozione esplicativa”. E’ dunque evidentemente errato pensare che Richard Rorty aderisca al realismo metafisico e alla concezione della verità-corrispondenza. E’ azzardato attribuire a Jacques Derrida un’opinione determinata in proposito, ma è dubbio che egli vi aderisca. Perché un lettore attento come Christian Delacampagne ha dunque commesso questo errore? Lascerei da parte Richard Rorty ma per spiegare il fatto che Christian Delacampagne ha corso il rischio sconsiderato di attribuire a Jacques Derrida una dottrina cui è poco probabile che egli accordi la sua simpatia, presenterei la seguente congettura azzardata. La mia congettura si articola in due parti.
La prima parte ci riconduce a Sokal e Bricmont, i quali, come ho già detto, hanno efficacemente ridicolizzato certe tendenze di coloro che Christian Delacampagne si compiace di definire, a torto o a ragione, “i teorici della post-modernítà”. Nella sua beffa (riprodotta nel libro di Sokal e Bricmont), Sokal aveva spigolato un’osservazione isolata di Jacques Derrida concernente, forse, la teoria della relatività generale. Ma nel resto del libro, Jacques Derrida è appena menzionato. In primo luogo si dimostra quindi che la critica dei “teorici della post-modernità” effettuata da Sokal e Bricmont costituisce ancora, più di un anno dopo la pubblicazione del libro, un contesto giornalistico abbastanza appropriato perché Christian Delacampagne abbia corso un primo rischio: quello di includere Jacques Derrida fra “i teorici della post-modernità”. Jacques Derrida si riconosce fra “i teorici della ‘post-modernità”? Lo ignoro. Ma poiché non figura fra i bersagli di Sokal e Bricmont, si può a buon diritto dubitare che sia fra quelli che hanno ceduto alla tentazione “scientista” degli umanisti e che sia un seguace del relativismo epistemologico. Per inciso, si può forse includere Richard Rorty fra i fautori del relativismo epistemologico, ma egli non ha certo mai ceduto alla tentazione “scientista” degli umanisti. In secondo luogo, John Searle, che è l’autore del libro recensito da Christian Delacampagne, ha in passato espressamente discusso e criticato gli scritti di Derrida (particolarmente in “The Word Turned Upside Down”, nella New York Review of books del 27 ottobre 1983). Suppongo dunque che, in occasione di una recensione di un libro di John Searle, Christian Delacampagne abbia tenuto a dissociarsi dalle critiche di Searle e non abbia saputo trattenersi dall’esprimere la sua solidarietà a Derrida. A questo scopo, ha corso un secondo rischio: quello di prestare indirettamente a Jacques Derrida due dottrine metafisiche alle quali è poco probabile che egli aderisca: la tesi dell’indipendenza della realtà rispetto allo spirito umano e la concezione della verità-corrispondenza. Nel libro che Jaccard recensisce, Bouveresse scrive (p. 26): “”Non credo nella possibilità di conciliare le esigenze della produzione giornalistica con quelle del vero lavoro filosofico”. Innegabilmente, le recenti recensioni di filosofia su un giornale come *Le Monde* confermano la diagnosi d Bouveresse.
Il Sole 24 ore
16 maggio 1999
MAURIZIO FERRARIS IMPOSTURE INTELLETTUALI Che cosa insegnerà Sokal all’Italia? |
“Se si racconta una storia, per quanto assurda o impossibile a un bambino, e chi la racconta è qualcuno che lui considera infallibile. (generalmente un genitore), la accetterà come verità rivelata e ne conserverà un ricordo immutato fino al momento in cui non sarà portato a rifletterci su. Il che può anche non succedere mai”, scrive G.B. Shaw, nei suoi Scritti autobiografici (Archinto 1999). Non è detto che gli strutturalismi e post-strutturalisti presi di mira da Sokal e Bricmont fossero davvero in malafede; semplicemente, avevano delle idee confuse sulla matematica e la fisica, ed erano perciò le prime vittime della presunta impostura (si tenga presente che, ai suoi tempi come ai nostri, Kant è stato accusato di non intendersene di aritmetica, e Spinoza di geometria). Quello che è più interessante, semmai, è quanto spesso si abbia, tendenza a cercare il genitore infallibile nella Scienza (come se fosse una sola e cattiva, o almeno severa ma giusta, da blandire in qualche modo e da usare per i propri fini, fossero pure soltanto retorici o scettici).
Il vero problema è, allora, non tanto l'”impostura”, bensì la mancanza di fantasia e di autentica curiosità. filosofica por cui necessariamente la filosofia dovrebbe appellarsi alle scienze della natura (o alla matematica, che di per sé non è affatto una scienza della natura) per giustificare i propri asserti. In taluni casi è così, in altri no, e non c’è motivo per cercare a tutti i costi una complementarità (e non complementarietà come sistematicamente si legge nella traduzione italiana di Imposture intellettuali, Garzanti 1999, vedi Il Sole-24 Ore di Domenica scorsa). Un filosofo di formazione matematica come Husserl ha largamente fatto a meno della matematica nei suoi lavori, così come Derrida, che gli stessi Sokal e Bricmont mettono nel mazzo dei postmodernisti con motivato imbarazzo. Dentro al generale e irriflesso positivismo di chi cerca nella fisica e nella matematica una cauzione per la filosofia c’è però – e qui non si può non consentire con Sokal e Bricmont – una significativa differenza tra gli strutturalisti e i loro eredi post-strutturalisti. Per ì primi, richiamarsi a formalismi matematici equivaleva a dare peso scientifico alle argomentazioni; per i secondi, invece, si tratta di dimostrare la validità dì fondo del relativismo, di nuovo sulla scorta di un avallo scientifico che però in questo caso spiana la via a uno storicismo senza confini.
Questo possiamo constatarlo soprattutto in Italia, dove il formalismo ha attecchito poco e male, mentre lo storicismo e il relativismo sono di casa (sarà dunque interessante vedere gli effetti e le reazioni a Imposture intellettuali, che verrà presentato mercoledì prossimo a Milano presso la sala lauree della facoltà di scienze politiche, in via Conservatorio, alle ore 11, oltre che dallo stesso Sokal, da Gianni Vattimo, Alberto Martinelli e da Massarenti). Il ragionamento di fondo in Italia, è sempre quello: visto che “le ultime scoperte delle scienze dure” (ultime scoperte che il più delle volte risalgono agli inizi del secolo, che, fra pochissimo, diventerà il secolo scorso) avrebbero dimostrato che la realtà oggettiva è un mito, allora tutto si equivale, e per esempio, ribadire tesi scettiche come ai tempi di Berkeley o fare degli effettivi progressi in filosofia (chi ha detto che non è possibile?) sono la stessa cosa.
Questo, se vogliamo, è proprio il Paradosso: la comunità postmoderna risulta affetta dalla tendenza a dire cose eterne; che sono poi cose che avrebbero potuto essere scritte trenta o cinquanta anni fa (o persino, cento o duecento anni fa): Come ai tempi di Novalis, si dice che il mondo deve diventare una favola; come ai tempi di Nietzsche si dice che è diventato una favola. Uno potrebbe osservare: “Può darsi. Comunque, è vero che lo si può leggere sui manuali. E allora? Noi siamo mica nell’Ottocento”. Dal che si può trarre una morale: della scienza, soprattutto se relativistica, i postmodernisti finiscono per accettare tutto, tranne l’idea di progresso, che non è poi una mania, ma il semplice impegno di far compiere qualche passo in avanti alla propria disciplina.
Il Sole 24 ore
23 maggio 1999
ALAN SOKAL Filosofia, scienza e verità secondo i due fisici autori del pamphlet “Imposture intellettuali” Fatti per criticare l’esistente |
Poiché Gianni Vattimo è spesso considerato (a torto o a ragione) un filosofo di stampo “postmodernista”, ci si sarebbe forse aspettati da lui una reazione negativa al nostro libro Imposture intellettuali, da poco uscito in italiano per l’editore Garzanti. È stata, dunque, una felice sorpresa vedere la sua recensione apparsa sulla “Stampa” del 20 maggio, nella quale mostra di condividere pienamente la nostra denuncia degli abusi del linguaggio scientifico compiuti da Lacan, Kristeva, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio e altri. Se, nonostante ciò, ci sentiamo obbligati a dissentire su alcuni suoi commenti concernenti la parte filosofica del nostro lavoro, non è con il desiderio di scatenare polemiche superflue – meno che mai con una persona cortese com’è il professor Vattimo – ma con lo scopo di chiarire i punti di accordo e di disaccordo tra determinate posizioni epistemologiche.
Secondo Vattimo, “la tesi teorica di Sokal e Bricmont si limita a sostenere che “il miglior modo di spiegare la coerenza della nostra esperienza è di supporre che il mondo esterno corrisponda, almeno approssimativamente, all’immagine che di esso ci offrono i sensi””. Ma questa non è affatto la nostra tesi principale; è piuttosto un’osservazione preliminare, e peraltro banale, che riassume una breve analisi del solipsismo e dello scetticismo radicale, dottrine che consideriamo inconfutabili ma prive di interesse. Se qualcuno si accanisse a sostenere che l’unica cosa che esiste nell’universo è la propria mente, o che il mondo esterno esiste ma è impossibile averne una qualsiasi conoscenza (anche approssimativamente) affidabile, non ci sarebbe alcun modo di convincerlo del contrario. Ma non abbiamo mai incontrato un solipsista o uno scettico radicale sincero, e dubitiamo che ne esista uno. Il rifiuto pratico di queste dottrine è obbligatorio non solo per il fisico o il biologo, ma anche per lo storico, l’idraulico e per ogni essere umano nella sua vita quotidiana.
Siamo comunque d’accordo con Vattimo quando osserva che “la conoscenza non è mai puro rispecchiamento disinteressato del “dato””. Ma da qui all’affermazione che “sarà lecito legare la conoscenza alle aspettative, interessi pratici, modi di pensare sociali storicamente mutevoli” c’è un salto notevole, e inoltre una forte ambiguità: si tratta di un’osservazione descrittiva oppure normativa? Se Vattimo vuole asserire che studiamo il mondo naturale e sociale in parte motivati da scopi pratici, nessuno avrà da ridire. Ma se sostiene che la veridicità o la falsità delle nostre teorie scientifiche sia anch’essa legata a interessi pratici, non possiamo che essere in profondo disaccordo. La superconduttività ad alta temperatura ci interessa per diversi motivi – alcuni teorici, altri pratici – ma la validità delle nostre teorie della superconduttività è determinata dalla corrispondenza o meno delle loro previsioni con il comportamento dei materiali superconduttori, non dai nostri “interessi”. I militari hanno interesse al buon funzionamento delle loro armi nucleari; noi preferiremmo che non funzionassero mai. Ma questi interessi opposti sono irrilevanti per la questione della validità o invalidità delle teorie di fisica nucleare che sono alla base della progettazione delle armi.
Sono assai frequenti oggigiorno le proposte di ridefinire il concetto di “verità” – tradizionalmente intesa come corrispondenza tra affermazione e realtà – per significare semplicemente l’utilità oppure l’accordo intersoggettivo. Ma queste ridefinizioni radicali non funzionano. Sarebbe certamente utile far credere alle persone che se guidano in stato di ubriachezza andranno all’inferno o moriranno di cancro, ma questo non basta per rendere vere queste affermazioni (almeno nel senso in cui le persone di madrelingua italiana intendono abitualmente la parola “vero”). In altre epoche la gente concordava nel dire che la Terra fosse piatta, ma sappiamo ora che sbagliava. Né utilità né accordo intersoggettivo sono equivalenti a verità. Inoltre queste ridefinizioni non riescono neppure, come vorrebbero, a soppiantare la concezione tradizionale di verità. Dire che qualcosa è utile (per un determinato scopo) è già un’affermazione oggettiva (dev’essere realmente utile per lo scopo dichiarato) che si basa implicitamente sulla nozione di verità come corrispondenza. Lo stesso vale per l’accordo intersoggettivo: dire cosa pensano le (altre) persone è un’affermazione oggettiva che descrive una parte del mondo (sociale) “così come è”.
Se insistiamo tanto sulla distinzione analitica tra essere vero ed essere considerato vero, è appunto per condividere il desiderio di Vattimo che la scienza “non sia presa SEMPRE come la verità”. Ma per mettere in discussione le opinione prevalenti, è essenziale tenere a mente che anche un largo consenso può indurre in errore: che esistono fatti indipendenti dalle nostre affermazioni, e che è nel confronto con i fatti (nella misura in cui possiamo accertarcene) che queste ultime devono essere valutate.
Il Sole 24 ore
7 marzo 1999
UMBERTO BOTTAZZINI Una “beffa” contro il relativismo Dopo tre anni dallo scherzo orchestrato da Alan Sokal continua la polemica tra scienziati e umanisti con un libro |
Gabriele Lolli, “Beffe, scienziati e stregoni. La scienza oltre realismo e relativismo”. Il Mulino, Bologna 1998 L. 28.000. |
Pochi -tra gli intellettuali che frequentano le nostre contrade accademiche sembrano essersene resi conto o avervi prestato la dovuta attenzione. Eppure basta oltrepassare le Alpi per accorgersi che c’è una guerra in corso. Una vera e propria science war che ha per oggetto la conoscenza scientifica, la validità, l’affidabilità e unicità della scienza come strumento conoscitivo. Il libro di Lolli ha il merito di invitarci a riflettere sulle ragioni delle parti che si affrontano in quella guerra senza esclusioni di colpi. Del resto, il casus belli che ha portato allo scoperto divergenze tanto profonde quanto radicali è stata la beffa atroce messa a segno dal fisico americano Alan Sokal nel tempio accademico dei cultural studies, la rivista “Social Text”.
Nell’estate del 1996 Sokal pubblicò su quella rivista un articolo dal titolo “Transgressing the boundaries. Towards a transformative hermeneutics of quantum gravity”. Come un lettore accorto poteva intuire fin dal titolo, l’articolo che annunciava “la trasgressione dei confini” era un abile collage di enunciati scientifici sostanzialmente corretti e di veri e propri errori alla portata di uno studente di fisica del primo anno, accompagnati da affermazioni senza senso rivestite nel gergo dei filosofi postmoderni. “Il dogma imposto dalla lunga egemonia post-illuministica sulla visione intellettuale occidentale” secondo cui esiste un mondo esterno le cui proprietà sono indipendenti dagli esseri umani e dalle loro condizioni culturali e sociali e di cui gli uomini possono avere conoscenza, pur se provvisoria e perfettibile, solo “aderendo alle procedure oggettive e ai vincoli epistemologici imposti dal (cosiddetto) metodo scientifico”, affermava per esempio Sokal, -da tempo era stato scosso dalle fondamenta dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica. Nella nuova filosofia della scìenza postmoderna, “il pi greco di Euclide e la G dì Newton, una volta pensati costanti e universali, sono ora percepiti nella loro ineluttabile storicità”. I numeri complessi (noti in matematica dal Rinascimento) erano presentati da Sokal come un ramo nuovo e speculativo della fisica matematica ricco di promettenti potenzialità esplicative. L’ironia si spostava poi dal terreno scientifico a quello politico, privilegiato dai cultori dei “social studies”: Proprio come le femministe liberali si accontentano spesso di un programma minimo di uguaglianza liberale e sociale per le donne e si pronunciano a favore della possibilità di “scelta”, così i matematici liberali (e anche alcuni socialisti) si accontentano spesso di lavorare dentro il contesto egemonico” della teoria assiomatica degli insiemi “(che riflettendo la sua origine ottocentesca, già incorpora gli assiomi dell’uguaglianza) rafforzato solo dall’assioma di scelta. Ma questa cornice è del tutto insufficiente per una matematica liberatoria”.
A dare il senso beffardo della sua operazione provvedeva lo stesso Sokal, con un contemporaneo articolo in cui rivelava gli strafalcioni e le sciocchezze pubblicate senza batter ciglio dagli editors di “Social Text”. Da allora sono scesi in campo i filosofi e i sociologi americani punti sul vivo dalla beffa e, insieme a loro, la grande maggioranza degli intellettuali francesi che nel gesto di Sokal hanno letto un vero e proprio attacco alla cultura nazionale giacché francesi, da Bruno Latour a Jacques Derrida, sono i maitres a penser dei filosofi postmoderni americani. Dall’altra parte dello schieramento, a difesa dell’oggettività e della razionalità, si sono attestati i “guerrieri della scienza” guidati dal premio Nobel della fisica Stephen Weinberg.
Non si tratta di una querelle che riguarda solo i circoli intellettuali parigini e, al più, le loro propaggini sulla east coast americana. Così forse appare a una lettura superficiale. Ma quello che è in gioco è ben dì pìù. E’ lo statuto stesso della scienza, ridotta a essere, agli occhi dei “relativisti postmoderni”, una molteplicità di pratiche e di negoziazioni tra gruppi sociali storicamente e politicamente determinati. Una delle obiezioni opposte dai relativisti agli argomenti di Weinberg è infatti che essi non permettono di capire la storia della scienza. Lo stesso Lolli si affida alla storia, per rintracciare le radici del postmodernismo nella reazione al neopositivismo. Per quanto ravvivata ogni tanto da qualche acuta osservazione, la sua ricostruzione costituisce tuttavia la parte più scolastica e meno stimolante del libro. Lolli traccia una linea di pensiero che prende le mosse da Wittgenstein e passa attraverso l’opera di Hanson, Kuhn e Feyerabend per giungere al sociologismo di Bloor, il cui ruolo è anche troppo enfatizzato a scapito di altri autori, come Shapin e Shaffer la cui opera ha avuto un ruolo paradigmatico per i relativisti d’Oltreoceano.
Curiosamente, nel percorso delineato da Lolli non trovano alcuno spazio i pensatori francesi, da Foucault a Latour, che pure sono continuamente chiamati in causa nella polemica intorno a relativismo e realismo. “Quando si è abbandonato al relativismo”, osserva Lolli, Kuhn ha confessato che “quanto più cerchiamo di distinguere l’artista dallo scienziato, tanto più difficile diventa il nostro compito”. Agli occhi dello stesso Kuhn tale conclusione era “inquietante e poco gradita” tanto da chiedersi se l’analisi che fa apparire “arte e scienza così incomprensibilmente simili” non fosse dovuta “meno alla loro somiglianza intrinseca che al fallimento degli, strumenti da noi utilizzati per l’analisi approfondita”.
Da qui si potrebbe cominciare per una riflessione originale che vada “oltre realismo e relativismo” come promette il sottotitolo del volume. Lolli si limita invece a commentare l’affermazione di Kuhn con un prudente “sembra proprio di sì”, per affidare poi le conclusioni ad un artista come Victor Hugo. Di quella (anche troppo lunga) citazione è sufficiente ricordare la fine. “La poesia – dice Hugo – non può decrescere. Perché non può crescere”.
il manifesto
9 dicembre 1998
ANNA MARIA MERLO POLEMICHE: SCIENZE UMANE,TROPPO UMANE Quando la scienza giudica la filosofia in nome del buon senso. Ovvero l'”Affaire Sokal” secondo Yves Jenneret |
L'”affaire Sokal”, scoppiato due anni fa e che, da allora, continua ad essere all’origine di una valanga di interventi – sia negli Usa che in Europa – è stato ben di più di uno “scherzo” fatto da un fisico alle scienze umane. Dietro la “prova” fornita dal fisico statunitense Alan Sokal sul fatto che i cultural studies producono testi gratuitamente incomprensibili, che fanno ricorso a una terminolgia scientifica inappropriata e che, infine, diffondono pericolose idee di relativismo scientifico e ideologico, c’è un dibattito di fondo della nostra società: nato all’interno della sinistra americana, riguarda questioni come la democrazia, le relazioni tra i saperi, l’importanza della diffusione delle conoscenze nelle società contemporanee. E’ questo sfondo che Yves Jeanneret, specialista di scienze dell’informazione e della comunicazione (è professore all’università di Lilla), mette in luce nel suo libro, appena pubblicato dalle edizioni Puf, L’Affaire Sokal ou la querelle des impostures (274 pag., 148 FF).
In breve, ricordiamo che cosa è l'”affaire Sokal”: il fisico Alan Sokal, professore alla New York University, propone e fa pubblicare da una delle più prestigiose riviste di cultural studies – Social Text (primavera-estate 1996) – un articolo dal titolo “Trasgredire le frontiere. Verso un’ermeneutica trasformativa della gravitazione quantistica”.
Poco dopo, lo stesso Sokal pubblica su una rivista scientifica – Lingua franca (maggio-giugno 1996) – un secondo articolo, intitolato “Un fisico fa un esperimento con i Cultural Studies”.
Qui Sokal denuncia: nel primo articolo su Social Text ho scritto un saggio infarcito di citazioni scientifiche inappropriate, ho utilizzato concetti erronei presi in prestito alle scienze esatte, il tutto scritto in un gergo “postmoderno”.
In altri termini: ho prodotto un’impostura, per dimostrare che le scienze umane di oggi, dominate dai postmoderni, propongono una cultura fasulla. In seguito, Sokal pubblica in Francia, con il fisico belga Jean Bricmont, un libro che porta a fondo l’attacco (Impostures intellectuelles, Odile Jacob): presi di mira sono alcuni tra i principali studiosi francesi, Lacan, Foucault, Lyotard, Deleuze, Derrida, Kristeva. Il settimanale Le Nouvel Observateur pubblicherà una copertina dal titolo: “Gli intellettuali francesi sono degli impostori?”. A Yves Jenneret abbiamo rivolto alcune domande.
Come è stato possibile che a partire dallo scherzo di Sokal sia nato un caso mondiale? |
Ciò che ha di interessante l’affaire Sokal è il suo carattere di riscrittura permanente dell’avvenimento iniziale. La definisco una querelle più che una controversia, classica, accademica, su un problema preciso. Tutto parte qui dalla doppia pubblicazione di Sokal. Sokal trae una prima conclusione nel suo secondo articolo: se nel primo articolo sono state pubblicate delle stupidaggini, allora vuol dire che i curatori della prestigiosa rivista non sono seri. Bisogna prendere in considerazione il punto di partenza: il quadro universitario statunitense, in una disciplina – i cultural studies – che non ha equivalente in Europa occidentale (dove questo tipo di lavori vengono svolti nell’ambito della semiotica). Il dibattito si trasforma incessantemente e coinvolge tematiche numerose: il ruolo politico degli intellettuali, i mezzi per conoscere il mondo, il posto che ha la scienza nella società, la questione del “gergo”, cioè di cosa significa impiegare parole complicate, se si possono prendere a prestito i termini delle scienze esatte per le scienze umane. In altri termini: i fisici hanno il diritto di giudicare la filosofia? I filosofi di giudicare i fisici? La discussione va avanti in contesti diversi: sia nelle riviste accedemiche statunitensi che nella stampa a grande diffusione.
Poi si diffonde nella stampa europea, in particolare francese, perché gli autori francesi sono i più attaccati. Il tessuto connettivo del tutto è Internet. E, sia detto per inciso, in questo contesto, il ruolo di Internet non è stato altro che un appello al buon senso, a dimostrazione che un cittadino senza istituzioni non è altro che un semplice cliente.
Al centro c’è la questione del controllo della diffusione e della legittimazione dei saperi? |
Per Sokal lo scandalo non viene dal fatto che chi lo attacca ha torto, ma dal fatto che ha troppa influenza. Di conseguenza, è l’ignoranza che arbitra tra i diversi saperi. E’ un po’ brutale, ma è così. Sokal diffonde la sensazione che “esiste la prova”: in realtà, il suo articolo prova soltanto che esistono delle mode, che ci sono delle negligenze ecc. Ma lui vuole dimostrare, invece, che esiste una soluzione matematica all’influenza dei saperi. In questo contesto, si sogna un liguaggio civilizzato, trasparente. Una sorta di religione del sapere. Sokal fa una manovra editoriale, che però non ha lo stesso senso nelle scienze esatte e nelle scienze umane.
Lei sostiene che la querelle è nata all’interno della sinistra americana. |
La sinistra statunitense è dilaniata tra due tendenze: una razionalista e l’altra multiculturale. Era in realtà il problema che ha affrontato il ’68 in Francia. E’ anche una battaglia economica per avere più soldi per i rispettivi istituti universitari. In Usa i postmoderni hanno una posizione editoriale e universitaria relativamente forte, che alcuni giudicano troppo forte. Contro di essi, Sokal invoca l’Illumismo, il XVIII secolo, una concezione della sinistra fondata sulla scienza e accusa i postmoderni francesi di distruggere la credenza nella ragione. E’ evidentemente una lettura caricaturale della filosofia del XVIII secolo: certo, Diderot ha pubblicato l’Enciclopedia, capiva che la scienza era un elemento molto importante, ma al tempo stesso è stato anche un teorico della molteplicità delle culture. Nella stampa, poi, lo scontro di traduce semplicisticamente in una lotta tra la vera scienza e tra chi confonde tutto. Prendiamo Barthes e Foucault, su cui probabilmente si concentrerà nel futuro l’attacco: hanno cercato di fare un lavoro ad un tempo militante, letterario e scientifico. E’ la possibilità di questa triplice appartenenza che viene messa in questione. La tolleranza all’alterità viene negata. Di qui anche, il successo della polemica. Lo stesso è successo con il processo Clinton-Lewinsky: una precipitazione verso processi in impostura, odio dell’alterità, proprio in un periodo in cui non si sentono altro che discorsi sulla comprensione dell’altro.
La discussione sollevata dall’affaire riguarda soprattutto la questione del controllo dell’opinione pubblica, quindi tocca il cuore della democrazia? |
Sì, il fisico pretende di giudicare il filosofo in nome del buon senso. E’ molto pericoloso. Sta succedendo anche con il “caso Bourdieu“, c’è nell’opposione a Bourdieu una convergenza tra un certo scientismo e un certo anti-intellettualismo. Bourdieu è messo sotto accusa per aver invocato la scienza ma non essersi poi adeguato al metodo positivista. L’idea di fondo è: intellettuali, fate il vostro lavoro, ma non invadete il campo della politica. Diventa difficile difendere tutto ciò che è problematico, che rischia di mettere in questione lo statu quo.
L’affaire Sokal ha messo in luce la volontà di liquidazione del carattere instabile e imbarazzante della parola delle scienze umane quando entra nello spazio pubblico tanto più pericolosa, poi, quando è sotto forma di un testo letterario di qualità.
Viene anche usata una terminologia preocupante: il liguaggio postmoderno è “malattia”, esiste una “guerra”… |
C’è un ruolo centrale dell’odio. Se si analizzano i testi c’è da avere i brividi. Come mai in un momento in cui si parla con tanta insistenza dei diritti dell’uomo, cresce l’esclusione sociale e si pratica la retorica dell’anatema?
Corriere della Sera
31 luglio 1998
MASSIMO PIATTELLI PALMARINI Putnam: «Giù le mani dalla scienza» Il filosofo e matematico americano difende la razionalità illuministica contro il relativismo post-moderno. E propone una «terza via» della conoscenza «La rivoluzione del Settecento va completata non rinnegata se si vogliono combattere le tirannie» |
E’ in procinto di partire per l’Australia, per una serie di conferenze, proseguendo poi per Singapore, Londra, Praga e Karlovy Vary. Compie 72 anni in questi giorni. Nell’anno accademico appena terminato, a Harvard, dove è professore da oltre vent’anni, Hilary Putnam ha insegnato ben tre corsi curricolari e tenuto le Royce Lectures. Mi mostra, con una punta di divertita compiacenza, il suo ruolino di marcia per il prossimo anno accademico: una laurea honoris causa all’Università di Atene, poi in Israele in marzo, poi varie conferenze in università dell’Europa e degli Stati Uniti, ma soprattutto, essendo in sabbatico, completare una raccolta di saggi sulla causalità mentale, e un breve, innovativo lavoro sulla meccanica quantistica.
Ha appena ricevuto la versione italiana del suo Rinnovare la filosofia, che va ad aggiungersi alla nutrita serie di suoi libri tradotti in italiano. Uno di questi, sul pragmatismo, frutto delle sue Lezioni Italiane, tenute a Roma sotto l’egida della Fondazione Sigma Tau e della casa editrice Laterza, uscì addirittura prima in italiano che in inglese.
Cresciuto in Francia, Hilary parla correntemente il francese, e legge bene anche l’italiano, oltre, naturalmente, al tedesco, lingua obbligata per un logico e filosofo della sua generazione. Ricordo, anni addietro, quando mi mostrò con fierezza un suo articolo appena tradotto in tedesco. In inglese si intitola Truth and necessity in mathematics (verità e necessità in matematica, temi intorno ai quali è ruotata gran parte della sua prima produzione). In tedesco suonava assai piu poderoso. Me lo lesse ad alta voce, con suoni adeguatamente guttural-professorali Wahrheit und Notwendigkheit in Mathematik. Marcò bene tutte quelle «h» e quelle «k». Poi slittò, sornionamente, nell’americanissimo, colloquiale Wow! (accipicchia!). «Senti come suona profondo! Mi sembra di essere Kant!».
Putnam è un filosofo insieme rigorosissimo e soave, che potrei definire a tutto tondo, sia perché ha toccato con successo ogni branca della filosofia, lasciandovi un segno permanente, sia perché occupa una posizione di solido equilibrio tra la filosofia cosiddetta analitica e la filosofia teoretica tradizionale di stampo storicistico; due settori di solito armati l’uno contro l’altro. Nella sua stessa definizione, la filosofia analitica è il campo delle argomentazioni, mentre la filosofia teoretica (quella, tanto per intendersi, che si impara al liceo) è il campo delle grandi concezioni (in inglese visions). Il motto di Putnam, qualche anno fa, era: «Nessuna concezione, senza argomentazione». Come dire, va benissimo cercare di risolvere i grandi interrogativi, ma, please, corroborate le vostre concezioni con irreprensibili argomentazioni razionali. Gli chiedo se sposa ancora questo motto. Con la sua usuale saturnina dolcezza, sollevando asimmetricamente i sopraccigli e sorridendo, mi risponde: «Il compito della filosofia è quello di pensare a ciò che è giusto e a ciò che è sbagliato. Non è detto, però, che tutte le argomentazioni debbano essere espresse sotto forma di proposizioni, o, per meglio dire, in una sorta di calcolo delle proposizioni. Fu Iris Murdoch la prima a dire, giustamente, che un’argomentazione può anche assumere la forma di una descrizione. E spesso una buona descrizione si rivela di enorme utilità». Qualche esempio? «Prendiamo una certa filosofia della scienza, quella di autori come Thomas Kuhn, Norwood Russell Hanson, Imre Lakatos (non Paul Feyerabend, da cui dissente radicalmente). Ebbene, essi ci hanno offerto una descrizione dell’impresa scientifica, con aspetti che la filosofia della scienza aveva fino a quel momento trascurato. Io dissento da molte loro tesi specifiche, ma apprezzo la loro descrizione generale di questi importanti aspetti della scienza». Introduco lo spinoso tema del cosiddetto post-modernismo, quella concezione relativista della razionalità, che tende ad equiparare scienza e narrazione libera, oggi tanto in voga soprattutto in certi dipartimenti di letteratura nelle università americane, presa largamente in prestito ad autori francesi come Lacan, Derrida, Deleuze e compagnia, issata come vessillo liberatore da femministe, minoranze etniche e contestatori della scienza «canonica». Gli cito un libro vetriolico di un fisico americano, Alan Sokal, e di un fisico francese, Alain Bricmont, intitolato (si noti bene) Imposture intellettuali, pubblicato qualche mese fa in Francia, che distrugge questi autori e il post-modernismo. Con pazienza, gli autori hanno isolato, negli scritti dei guru del post-modernismo, soprattutto in quelli di Lacan, Deleuze e Guattari, Derrida, Irigaray e Serres, passaggi nei quali si parla a sproposito di teorie matematiche e fisiche, commettendo svarioni colossali. Putnam reagisce con vigore: «Questo è maccartismo intellettuale. È un atteggiamento terrorista. Non si ha il diritto di bollare come irrazionale un’intera cultura filosofica. Anche i filosofi analitici hanno commesso a volte errori dello stesso calibro. E con questo?». Si sofferma su aspetti, a suo giudizio molto interessanti, dell’opera di Lacan e di Derrida (degli altri autori francesi poco sembra importargli). Si noti che Putnam iniziò la sua lunga carriera come matematico dimostrando, con Miranda Robertson, un teorema fondamentale sulle cosiddette equazioni diofantine, poi dando contributi importanti alla logica simbolica e, come dicevo un momento fa, alla filosofia della fisica moderna.
Eppure gli svarioni di questi autori in materia di matematica e di fisica non gli sembrano peccati capitali. «Molti dei passaggi scelti da Sokal e Bricmont consistono in figure retoriche, in allegorie o metafore. Un autore ha ben diritto di prendere in prestito nozioni dalla matematica e dalla fisica e costruirci sopra delle immagini. Inoltre, se si guarda bene, alcune di quelle citazioni, soprattutto per Derrida, consistono in estratti da conversazioni libere, non da scritti pubblicati».
Ma Putnam non è certo un post-modernista. Qual è, allora, il suo punto di dissenso? «L’errore fondamentale di questi pensatori è di aver voluto sminuire, relativizzare, l’Illuminismo. Questo non si deve mai fare. Il metodo dell’Illuminismo è come una roccia al di sotto della palude. Senza questa roccia non esistono più argomenti convincenti e coerenti per combattere le disugaglianze, il razzismo, il maschilismo, la tirannide. Eliminare questa solida base di roccia significa sabotare le ragioni stesse della propria critica. L’Illuminismo rappresenta una rivoluzione non completata, che va, quindi, completata, non rinnegata».
Secondo Putnam occorre evitare sia la celebrazione trionfalista della razionalità scientifica, sia la critica auto-distruttiva della razionalità illuminista, bollata come il prodotto effimero di una certa cultura, di una certa epoca, di una certa etnia. Gran parte della sua filosofia più recente consiste, infatti, in una accorta navigazione tra opposti scogli: tra razionalita e irrazionalità, tra rigido metodo scientifico di stampo logico-positivista e il «tutto fa brodo» dei filosofi della scienza di stampo anarchico, tra materialismo e dualismo nella filosofia della mente. Più di tutto, va fiero del suo libro sul realismo, nel quale costruisce una terza via tra il relativismo concettuale e l’idea che il mondo esterno ci impone, alla lunga, un unico sistema di concetti. Esco dal suo ufficio, nell’austero edificio tardo ottocentesco chiamato Emerson Hall: il dipartimento di filosofia di Harvard. Sulle porte degli altri uffici, e sulle caselle della posta, si leggono i nomi di Quine, Goodman, Nozick, Cavell, Goldfarb. Non dovrebbe stupire che nel mondo della filosofia, a proposito di un autore, un lavoro, una corrente, una tendenza, si senta chiedere: «Che ne dice Emerson Hall?». In questo fine luglio, però, Emerson Hall tace. Uscendo nell’afa che abbaglia, dubito che i colleghi condividano con Putnam il benevolo giudizio su Lacan e Derrida.
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