IL NUCLEARE DI ISRAELE

Riporto una rassegna di articoli che fanno capire come Israele sia venuta in possesso di armamento nucleare. E’ indubbio che una gran quantità di scienziati ebrei fosse perfettamente in grado di realizzare armamento nucleare se non altro perché molti di loro avevano attivamente lavorato all’atomica degli USA (Progetto Manhattan). Ma ciò è solo teoricamente vero perché, dato il software, senza hardware non si fa nulla. Mancava cioè l’impiantistica, un impianto nucleare di partenza da cui partire per l’arricchimento dell’uranio, quello per intenderci che sta ora realizzando l’Iran. La cosa non si sarebbe potuta realizzare senza il sostegno materiale di un qualche Paese che già disponesse di tecnologia nucleare. Israele avviò relazioni molto strette con i Paesi che avevano interessi nella zona (Gran Bretagna e Francia) e si prestò ad importanti favori. Tra questi fondamentale fu la guerra di aggressione che Israele fece all’Egitto in occasione della nazionalizzazione del Canale di Suez (1956), realizzando in questo uno dei massimi desiderata delle potenze coloniali della zona. Con la Francia vi furono anche altri favori fatti dai governi di Israele all’insaputa degli israeliani: l’uso delle comunità ebraiche di Algeria e Tunisia a sostegno della Francia contro i movimenti di Liberazione di quei Paesi. E la Francia ricambiò assemblando un reattore nucleare in Israele (Dimona), copia di quello G 1 di Marcoule. Inizialmente gli USA erano contrari alla proliferazione nucleare e sembra che solo con i sorvoli degli aerei spia U2, nel 1960, si resero conto della realizzazione di Dimona. Ma non accadde nulla ed ancora oggi è così: ufficialmente Israele non è dotata di armamento nucleare e deve essere così perché una legge Usa (Symington Amendment del Arms Export Control Act, 1977) vieterebbe il commercio con Paesi che si dotano clandestinamente di armamento nucleare. Questa situazione impedirebbe i generosi aiuti USA ad Israele (92 miliardi di dollari negli ultimi decenni) che ritornano in una sorta di partita di giro alle floridissime fabbriche di armamenti USA (e ciò sarebbe intollerabile).

Dopo Vanunu, che denunciò al mondo che il re era nudo e che cioè Israele era dotata di armamento nucleare, l’ostacolo di tale legge è stato aggirato facendo riferimento ad una interpretazione della legge: la data di creazione di Dimona che è precedente a quello della legge (Israele non è più un problema attuale di proliferazione perché ha già proliferato, Seymour Hersh).

Un’ultima notiziola: il Sud Africa dell’Apartheid fu importante alleato di Israele sia per le forniture di uranio sia per alcuni tests esplosivi fatti congiuntamente nell’Oceano Indiano.

R.R.


Le Atomiche di Sharon

L’arsenale nucleare d’Israele che l’Aiea-Onu non ha mai controllato. Bush e i media internazionali nascondono, ipocritamente, che in Medio Oriente c’è già un paese che possiede armi nucleari

ROHAN PEARCE *

da: http://www.ilmanifesto.it/



Secondo la Federazione degli Scienziati Americani, il tentativo di Israele di accumulare un arsenale nucleare ebbe inizio nel 1948 con l’istituzione di un corpo scientifico (Hemed Gimmel) all’interno dell’esercito israeliano. Nel 1949 l’Hemed Gimmel ispezionò il deserto del Negev alla ricerca di riserve di uranio. Nel 1952 fu creata la Commissione israeliana per l’energia atomica. Nel 1956 la Francia accettò di fornire a Israele un reattore nucleare da 18 megawatt. Dopo l’invasione dell’Egitto da parte di Israele nel 1956, l’accordo fu rivisto per fornire un reattore da 24 megawatt. La Francia acquistò acqua pesante per il reattore dalla Norvegia, tradendo le assicurazioni fornite al governo norvegese che non avrebbe trasferito l’acqua a paesi terzi. I funzionari doganali francesi furono ingannati sulla destinazione di componenti del reattore.

Il complesso che doveva ospitare il reattore fu costruito a Dimona, nella regione settentrionale del deserto del Negev. Per proteggere il programma sulle armi nucleari di Israele e mantenere il segreto su di esso fu creata un’organizzazione apposita, l’Ufficio per le Relazioni Scientifiche. Fra gli stratagemmi adottati da Israele per nascondere la natura del progetto Dimona, vi era quello di descriverlo come un «impianto di manganese».

Nel 1960 i governi israeliano e francese ebbero un contrasto per via del progetto. La Francia chiedeva che Israele rendesse pubblico il progetto Dimona e autorizzasse ispezioni internazionali della struttura. Nonostante questo, la Francia accettò di terminare la spedizione dei componenti del reattore, e Israele assicurò Parigi che non avrebbe costruito armi nucleari. Nel 1964 il reattore divenne operativo.

Del progetto nucleare di Israele erano a conoscenza anche gli Stati uniti, cioè la sua principale fonte di aiuti militari. Secondo Sir Timothy Garden, docente presso l’Università dell’Indiana, nel 1954 Israele firmò un accordo di cooperazione nucleare con gli Usa. Nel 1958 aerei spia Usa fotografarono il complesso di Dimona. Israele acquistò dagli Usa un reattore più piccolo (che difficilmente sarebbe stato utile nella produzione di armi nucleari). Tale reattore divenne operativo nel 1960.

Il ruolo degli Stati uniti

Verso la fine degli anni `60 le ispezioni della Commissione Usa per l’energia atomica negli impianti di Dimona furono ostacolate dall’atteggiamento di non-cooperazione del governo israeliano. Oltre a controllare la tempistica delle ispezioni e la loro estensione, Israele fabbricò falsi pannelli di controllo e murò corridoi per ingannare gli ispettori.

Significativamente, un promemoria del governo Usa dell’ottobre 1969, che riferiva di discussioni tra funzionari del Dipartimento di Stato e un rappresentante della Commissione per l’energia atomica, faceva intendere che il possesso da parte di Israele di impianti per la fabbricazione di armi nucleari non costituiva un problema per il governo Usa. Secondo il promemoria, «il team [della Commissione per l’energia atomica] è giunto alla conclusione che il governo Usa non è intenzionato a sostenere un vero sforzo di `ispezione’, in cui gli ispettori del team possano sentirsi autorizzati a porre direttamente domande pertinenti e/o a insistere che venga loro consentito di visionare documentazioni, materiali e simili. Agli ispettori è stato raccomandato di non causare controversie, comportarsi da `gentiluomini’ e non manifestare disaccordo con la volontà degli ospiti. In un’occasione sembra che i membri del team siano stati criticati duramente dagli israeliani per essersi `comportati come ispettori’».

Alla fine del 1964 l’impianto di Dimona produceva circa 8 chilogrammi di plutonio all’anno, abbastanza da consentire a Israele di costruire da una a due armi nucleari una volta che il plutonio fosse stato ulteriormente trattato. In Can Deterrente Last? (Buchan & Enright, Londra, 1984) Garden ha scritto che «avendo messo in piedi un sistema stabile di produzione di plutonio fissile, si rendeva necessario un impianto di trattamento che rendesse rapidamente il plutonio utilizzabile per le armi. […] Israele non ne costruì alcuno. La ragione di questa omissione sembra risiedere nel fatto che Israele riuscì ad acquisire illegalmente uno stock significativo di uranio arricchito. Rapporti della Cia hanno rivelato che Israele ottenne grandi quantità di uranio arricchito con mezzi clandestini’. A questo proposito il New York Times ricordava ai lettori la perdita di uranio altamente arricchito dalla Nuclear Materials and Equipment Corporation ad Apollo, Pennsylvania, nel 1965… Se Israele nel 1965 riuscì a ottenere materiale per armi nucleari, questo spiegherebbe perché non sia stato costruito alcun impianto per la lavorazione del plutonio. Essendosi assicurata una scorta di uranio poteva usare il metodo più lento, ma non controverso politicamente, della separazione del plutonio mediante `laboratorio a caldo’, così da accrescere gradualmente la sua scorta».

Alleati dell’apartheid

Dal 1967 fino agli anni `80 Israele ha potuto contare sul Sudafrica dell’apartheid per la fornitura di circa 550 tonnellate di uranio per l’impianto di Dimona. Si dice che nel settembre 1979 i due paesi abbiano tenuto un test congiunto sulle armi nucleari nell’Oceano Indiano. Un articolo apparso su Ha’aretz il 20 aprile 1997 sosteneva che all’inizio degli anni Ottoanta Israele avrebbe aiutato il governo del Sudafrica a sviluppare armi nucleari. Constand Viljoen, ex capo di stato maggiore dell’esercito sudafricano, ha detto a Ha’aretz: «Volevamo acquisire conoscenze sul nucleare da chiunque potessimo, anche da Israele».

La conferma pubblica della produzione di armi nucleari da parte di Israele giunse nel 1986, quando Mordechai Vanunu fornì al britannico Sunday Times fotografie di impianti nucleari israeliani. Vanunu era stato un tecnico presso la struttura di Dimona “Machon 2” dal 1976 al 1985, prima di essere allontanato per il suo coinvolgimento in una politica di sinistra, a favore dei palestinesi. “Machon 2” produce plutonio e componenti per bombe nucleari.

Secondo le rivelazioni di Mordechai Vanunu, nel 1986 Israele possedeva già 200 armi nucleari. Prima che il Times pubblicasse la notizia, Vanunu fu attirato a Roma da un agente del Mossad, la polizia segreta di Israele. A Roma egli fu rapito e riportato in Israele, dove fu condannato con un processo segreto e imprigionato. Le trascrizioni del processo di Vanunu sono rimaste classificate finché alcune sezioni non sono state rese pubbliche dal governo israeliano nel novembre 1999, dopo che il giornale israeliano Yediot Ahronot si era rivolto alla Corte distrettuale di Gerusalemme.

Vanunu è stato condannato a 18 anni di carcere. Ha trascorso i primi 11 anni e mezzo in isolamento. Secondo il fratello di Vanunu, Asher, la prigione di Ashkelon dove Mordechai è detenuto non lo rilascerà fino al 22 aprile 2004, solamente cinque mesi prima del suo fine-pena.

Dopo aver scontato i due terzi della pena, Vanunu ha chiesto la libertà vigilata. La sua richiesta è stata rigettata una prima volta, e poi di nuovo ogni sei mesi. La corte distrettuale di Be’er Sheva doveva esaminare la richiesta di Vanunu alla fine dello scorso ottobre. Secondo Ha’aretz del 9 ottobre, «[Vanunu] intende sostenere che nel 2001 [il ministro degli esteri israeliano Shimon] Peres in un documentario della rete israeliana Channel Two ha rivelato sulla capacità nucleare di Israele molto più di quanto Vanunu non abbia mai rivelato [al Sunday Times]».

Il «dibattito» alla Knesset

La controversia su Vanunu e l’arsenale segreto di armi nucleari di Israele ha portato, all’inizio del 2000, al primo dibattito mai avvenuto alla Knesset sulla politica nucleare.

Il 3 febbraio 2000 Yediot Ahronot ha descritto così il dibattito che riportiamo letteralmente per la sua importanza storica: «L’On. Issam Makhoul (Hadash) ha fatto la storia quando ha dichiarato: `Israele possiede 200-300 bombe atomiche’.

Il ministro Ramon, che rispondeva per il governo, ha ripetuto l’affermazione. `Israele non sarà il primo paese a introdurre armi nucleari in Medio Oriente’. `Non è il messaggero Vanunu ad essere il problema, ma piuttosto la politica di tutti i governi israeliani, che hanno trasformato questa piccola porzione di terra in una discarica nucleare avvelenata e velenosa, che potrebbe portarci tutti in cielo in un fungo nucleare’ ha ammonito Issam Makhoul ieri alla Knesset. Makhoul ha fatto la storia quando ha ottenuto il permesso di discutere una proposta sulla politica nucleare di Israele che ha portato al primo dibattito aperto di questo tipo.

Proprio quando Makhoul ha cominciato a parlare, membri del Likud, del Partito religioso nazionale, dello Shas e altri hanno scelto di lasciare l’assemblea in segno di protesta. Makhoul ha affermato che Israele è al sesto posto al mondo per quanto riguarda la quantità di plutonio di alta qualità in suo possesso. ‘L’intero mondo sa che Israele è un grande deposito di armi nucleari, biologiche e chimiche, che serve come pietra angolare per la corsa alle armi nucleari in Medio Oriente’ ha accusato Makhoul. Secondo lui, Israele ha `200-300 bombe atomiche’.

Membri della Knesset hanno reagito urlando al discorso di Makhoul: `Lei oggi sta commettendo un crimine contro gli arabi israeliani’ ha gridato l’On. Ophir Pinnes, capo della coalizione. `Se qualcuno aveva bisogno di una giustificazione sul perché i membri arabi della Knesset non dovrebbero partecipare alla commissione affari esteri e sicurezza, lei l’ha appena fornita’, ha concluso l’On. Yosef Pritzky (Shinui)».

* Da: Green Left Weekly – Traduzione di Marina Impallomeni


A cura di Silvia Cattori per Réseau Voltaire.

Intervista esclusiva a Mordechaï Vanunu

Ingegnere al centro di Dimona, Mordechaï Vanunu rivelò al Sunday Times nel 1986 l’esistenza del programma nucleare militare israeliano. Rapito in Italia dal Mossad quando aveva appena preso contatti coi giornalisti britannici e prima che il loro articolo venisse pubblicato, fu giudicato a porte chiuse e imprigionato per diciotto anni. Nonostante gli fosse vietato di avere contatti con la stampa, Mordechaï Vanunu ha risposto alle domande.

25 novembre 2005

Silvia Cattori: Che lavoro faceva in Israele prima che gli agenti del Mossad la rapissero a Roma nell’ottobre del 1986?



Mordechaï Vanunu: Lavoravo da nove anni al centro di ricerca in armamenti di Dimona, nella regione di Beer Sheva. Proprio prima di lasciare questo lavoro nel 1986, avevo preso delle foto all’interno dello stabilimento per dimostrare al mondo che Israele nascondeva un segreto nucleare. Il mio lavoro a Dimona consisteva nel produrre elementi radioattivi utilizzabili per la fabbricazione di bombe atomiche. Sapevo esattamente quali quantità di materie fissili venivano prodotte, quali materiali venivano utilizzati e che tipo di bombe veniva fabbricato.

Silvia Cattori: Rivelare – da solo – al mondo che il suo paese deteneva segretamente l’arma nucleare, non voleva dire rischiare moltissimo?

Mordechaï Vanunu: Se l’ho fatto è stato perché le autorità israeliane non dicevano la verità. Si profondevano ripetendo che i responsabili politici israeliani non avevano assolutamente l’intenzione di dotarsi di armi nucleari. In realtà, però, producevano molte sostanze radioattive che potevano servire solo ad un unico scopo: costruire bombe nucleari. Notevoli quantità: ho calcolato che avevano già all’epoca – nel 1986! – più di duecento bombe atomiche. Avevano anche iniziato a costruire bombe a idrogeno molto potenti. Così ho deciso di far sapere al mondo intero cosa tramassero nel più assoluto segreto. E poi, volevo in questo modo impedire agli israeliani di utilizzare le bombe atomiche, per evitare una guerra nucleare in Medio Oriente. Volevo contribuire a portare la pace in questa area.
Avendo già delle armi superpotenti, Israele poteva fare la pace: non doveva più temere alcuna minaccia palestinese, né tanto meno araba, poiché possedeva tutto l’armamento necessario alla sua sopravvivenza.

Silvia Cattori: Era preoccupato per la sicurezza dell’intero paese?

Mordechaï Vanunu: Sì. Certamente. Intendiamoci, non ho fatto tutto questo per il popolo israeliano. Gli israeliani avevano eletto questo governo, e questo governo aveva deciso di dotarli di armi nucleari. Tutti gli israeliani seguono la politica del governo israeliano da molto vicino . ma, per quanto mi riguarda, riflettevo considerando il punto di vista dell’umanità, il punto di vista di un essere umano, di tutti gli esseri umani che vivono in Medio Oriente, e anche di tutti gli esseri umani in tutto il mondo. Perché quello che aveva fatto Israele, potrebbero farlo molti altri paesi. Così’, nell’interesse dell’umanità, ho deciso di far conoscere a tutto il mondo il pericolo che rappresentavano le armi nucleari segrete di Israele.

Silvia Cattori: Nel 1986, eravamo in piena Guerra fredda e le armi nucleari proliferavano. Si stavano diffondendo in molti paesi che non avevano ancora il nucleare, come il Sudafrica e altri. Il pericolo rappresentato dalle armi nucleari era reale. Ai giorni nostri, questo pericolo è diminuito.
Sapeva a cosa andava incontro? Perché era lei in particolare, e nessun altro, che doveva rischiare molto?

Mordechaï Vanunu: Certamente, sapevo che stavo rischiando. Ma quello che potevo fare, non avrebbe potuto farlo nessun altro a parte me. Sapevo che avrei avuto a che fare col governo israeliano. Non è come prendersela con degli interessi privati; sapevo che me la stavo prendevo direttamente col governo israeliano e con lo Stato ebreo israeliano. Sapevo quindi che avrebbero potuto punirmi, uccidermi, che avrebbero potuto fare di me quello che volevano. Ma avevo la responsabilità di dire la verità al mondo. Nessuno altro tranne me era in grado di farlo: era dunque mio dovere farlo. Qualunque fossero i rischi.

Silvia Cattori: La sua famiglia l’ha quindi sostenuta?

Mordechaï Vanunu: I miei familiari non hanno capito la mia decisione. Per loro è stato più brutto scoprire di essermi convertito al cristianesimo. Per loro era più dannoso, più doloroso dell’aver rivelato i segreti nucleari di Israele. Li rispetto e loro rispettano la mia vita. Siamo rimasti in buoni rapporti, ma non ci frequentiamo più.

Silvia Cattori: Si sente solo?

Mordechaï Vanunu: Sì. Certo, sono solo qui, alla cattedrale di Saint-Georges. Ma ho molti amici che mi sostengono.

Silvia Cattori: In che condizioni è stato processato e imprigionato?
Vanunu ammanettato
Mordechaï Vanunu: Il mio processo si è tenuto nel segreto più assoluto. Ero solo col mio avvocato. Sono stato condannato per spionaggio e tradimento. Le autorità israeliane si sono vendicate lasciandomi in isolamento e per tutta la durata del processo. Nessuno era autorizzato a vedermi né a parlarmi, mi vietavano di rivolgermi ai media. Hanno pubblicato molta disinformazione sul mio conto. Il governo israeliano ha utilizzato tutto il suo potere mediatico per fare un lavaggio del cervello all’opinione pubblica. Per lavare anche il cervello dei giudici al punto da convincerli della necessità di mettermi in prigione. Così il mio processo è stato tenuto segreto e i media non hanno avuto la possibilità di accedere alla verità; non hanno potuto sentirmi. Le persone erano convinte che fossi un traditore, una spia, un criminale. Non c’è stato un briciolo di giustizia nello svolgimento. Non c’era solo il processo: la cosa più crudele è stata isolarmi, in prigione. Mi hanno punito non solo tramite la detenzione ma anche isolandomi completamente, spiandomi continuamente, con trattamenti malvagi particolarmente viziosi e crudeli: hanno cercato di farmi arrabbiare, hanno cercato di farmi rimpiangere ciò che avevo fatto. Sono stato tenuto nella cella di segregazione durante diciotto anni di cui dodici anni e mezzo in isolamento totale. Il primo anno hanno messo delle videocamere nella mia cella. Mi hanno lasciato la luce accesa tre anni di fila! Le loro spie mi picchiavano continuamente, mi impedivano di dormire. Sono stato sottomesso ad un barbaro trattamento; hanno tentato di sfiancarmi. Il mio obiettivo era di resistere, di sopravvivere. E ci sono riuscito.

Silvia Cattori: Fortunatamente non hanno cercato di impiccarla, come voleva il ministro della Giustizia di allora, Tommy Lapid. Ha retto bene, ed è stato rilasciato il 21 aprile del 2004. Aveva giusto 50 anni!

Mordechaï Vanunu: Se mi hanno rilasciato è stato perché avevo scontato i diciotto anni di prigione ai quali mi avevano condannato. Volevano uccidermi. Ma, in fin dei conti, il governo israeliano ha deciso di non farne nulla.

Silvia Cattori: Nell’aprile del 2004, le televisioni hanno mostrato la sua scarcerazione. Il mondo ha allora scoperto quello che le era successo. Lei è apparso davanti alle telecamere felice, determinato, combattivo: l’esatto contrario di un uomo distrutto

Mordechaï Vanunu: Uscire di prigione, andare a parlare a tutto il mondo, festeggiare quel momento.dopo diciotto anni di prigionia, di proibizione di tutto. è stato un grande momento.

Silvia Cattori: I suoi carcerieri non sono riusciti a stroncarla mentalmente?

Mordechaï Vanunu: No, assolutamente no. Il mio obiettivo era di uscire e di parlare al mondo intero, di far capire alle autorità israeliane che avevano fallito. Il mio scopo era di sopravvivere e questa è stata la mia più grande vittoria su tutte quelle organizzazioni di spionaggio. Sono riusciti a rapirmi, a trascinarmi davanti al loro tribunale, a mettermi in prigione, in un posto segreto durante diciotto anni. e io sono sopravvissuto a tutto ciò.
Ho sofferto, naturalmente, ma sono sopravvissuto. Nonostante tutti i loro crimini, sono ancora vivo e sono anche in ottima salute! Sono di forte costituzione, e grazie a questa caratteristica ho superato la prova.

Silvia Cattori: Cosa l’ha aiutata a tenere duro?

Mordechaï Vanunu: La mia fermezza. Il fatto di continuare ad essere convinto che avevo avuto ragione nel fare ciò che avevo fatto. La volontà di far loro capire che, qualunque cosa facessero per punirmi, io avrei continuato a restare in vita.

Silvia Cattori: Qual è l’ostacolo più grande che ha dovuto fronteggiare, attualmente?

Mordechaï Vanunu: Mi hanno vietato di lasciare Israele. Sono stato liberato dalla prigione, ma qui, in Israele, sono in una grande prigione. Vorrei lasciare questo paese, godere della libertà nel vasto mondo. Ne ho abbastanza del potere israeliano. L’esercito può venire ad arrestarmi in qualsiasi momento, punirmi. Sento di essere alla loro mercé. Mi piacerebbe così tanto vivere lontano, molto lontano da qui.

Silvia Cattori: Quando Israele le permetterà di lasciare il paese?

Mordechaï Vanunu: Non ne so nulla. Mi hanno vietato di lasciare il paese per un anno. Passato un anno, mi hanno rinnovato il divieto per un nuovo anno che finirà ad aprile prossimo. Ma possono ancora prolungarmi il divieto tutto il tempo che vorranno.

Silvia Cattori: Che ne pensa del Trattato di non proliferazione nucleare quando, nel caso di Israele, si tollera “l’ambiguità nucleare”, mentre si mette costantemente sotto pressione l’Iran – un paese che, tra l’altro, si sottomette alle ispezioni?

Mordechaï Vanunu: Tutti i paesi dovrebbero consentire le ispezioni internazionali e dire la verità su ciò stanno facendo, segretamente, in tutti gli impianti nucleari di cui dispongono. Israele non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare. Centottanta paesi l’hanno firmato, tra cui tutti i paesi arabi. L’Egitto, la Siria, il Libano, l’Iraq, la Giordania. Tutti i paesi vicini a Israele hanno aperto le loro frontiere alle ispezioni dell’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica, n.d.t.). Israele è peggiore esempio. E’ l’unico paese che ha rifiutato di firmare il Trattato di non proliferazione nucleare. Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero cominciare a risolvere il caso di Israele; Israele deve essere considerato come qualsiasi altro paese. Dobbiamo finirla con l’ipocrisia e obbligare Israele a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare. Bisogna imporre a Israele il libero accesso degli ispettori dell’AIEA al centro di Dimona.

Silvia Cattori: L’Iran, che adempie ai propri obblighi e accetta le ispezioni dell’ONU, è pur minacciato da sanzioni. Israele, che dispone dell’arma nucleare rifiuta ogni ispezione dell’AIEA, non è oggetto di alcuna azione. Perché “due pesi, due misure” da parte degli Stati Uniti, ma anche dell’Europa?

Mordechaï Vanunu: Va anche peggio di ciò che lei dice: non solo non ce la prendiamo con Israele, ma per giunta aiutiamo segretamente questo paese.
Esiste una cooperazione segreta tra Israele e la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti. Questi paesi hanno deciso di contribuire alla potenza nucleare di Israele per fare di questo paese uno Stato coloniale nel mondo arabo. Aiutano Israele perché vogliono che sia al loro servizio, in quanto paese colonialista che controlla il Medio Oriente, ciò che permette loro di impossessarsi degli introiti provenienti dal petrolio e di mantenere gli arabi sottosviluppati e all’interno di conflitti fratricida. E’ questo il motivo principale di questa cooperazione.

Silvia Cattori: L’Iran non rappresenta una minaccia, come affermano Israele e gli Stati Uniti?

Mordechaï Vanunu: Essendo sotto il controllo degli ispettori dell’AIEA, l’Iran non rappresenta alcun pericolo. Gli esperti occidentali sanno perfettamente qual è la natura del programma nucleare iraniano. Contrariamente a Israele, che non lascia accedere nessuno ai suoi impianti nucleari. Questo è il motivo per cui l’Iran ha deciso di agire con risolutezza e di dire al mondo intero: “Non potete esigere più trasparenza da noi, mentre continuate a chiudere gli occhi su quello che accade in Israele!”. Tutti gli arabi si rendono conto, dopo quaranta anni, che Israele ha delle bombe atomiche e che nessuno fa nulla a riguardo. Finché il mondo continuerà ad ignorare le armi atomiche di Israele, non potrà permettersi di dire qualunque cosa all’Iran. Se il mondo è davvero preoccupato, e se vuole sinceramente porre fine alla proliferazione nucleare, che cominci dall’inizio, vale a dire con Israele!

Silvia Cattori: Deve averle dato fastidio quando ha sentito Israele, che non è in regola, dire che è pronto a bombardare l’Iran, che, a questo punto, non ha assolutamente infranto alcuna regola!

Mordechaï Vanunu: Sì, mi fa uscire di senno. Non abbiamo nulla da rimproverare all’Iran: prima di fare qualsiasi cosa contro un qualunque altro paese, bisogna occuparsi del caso israeliano. Se qualcuno vuole prendersela con l’Iran, deve, innanzitutto, prendersela con Israele. Il mondo non può ignorare quello che fa Israele, in proposito, da più di quaranta anni. Gli Stati Uniti dovrebbero obbligare Israele a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare. Ed è arrivato il momento anche per l’Europa di riconoscere ufficialmente che Israele possiede delle bombe atomiche. Tutto il mondo arabo dovrebbe essere estremamente preoccupato sentendo tutti questi discorsi che incriminano l’Iran, che non possiede alcuna arma atomica, e che continuano ad ignorare Israele.

Silvia Cattori: Quali sono gli stati che hanno cooperato con Israele?

Mordechaï Vanunu: Israele ha aiutato la Francia e la Gran Bretagna nella campagna contro l’Egitto nel 1956. Dopo l’operazione di Suez, la Francia e la Gran Bretagna hanno iniziato a cooperare al programma nucleare israeliano, per ringraziare Israele per il sostegno che ha loro fornito durante quella guerra.

Silvia Cattori: Il Sudafrica non ha aiutato Israele fino al 1991?

Mordechaï Vanunu: E’ stato effettivamente in Sudafrica, nel deserto, che Israele ha proceduto ai suoi test nucleari.

Silvia Cattori: Sembra che negli anni sessanta il presidente Kennedy avrebbe chiesto che venissero effettuate delle ispezioni a Dimona in Israele. Lei vede un legame tra questa richiesta e il suo assassinio?

Mordechaï Vanunu: Credo che all’epoca di Kennedy gli Stati Uniti si fossero opposti al programma nucleare israeliano. Kennedy ha cercato di fermare Israele, a riguardo, ma il suo assassinio non gli ha lasciato il tempo. Secondo me, il momento dell’assassinio di Kennedy è legato alla diffusione delle armi nucleari in Israele e in altri paesi. Quelli che l’hanno assassinato erano favorevoli all’espansione nucleare. Grazie all’eliminazione dell’importuno Kennedy, la proliferazione ha potuto continuare. Di fatto, i presidenti Johnson e Nixon [che sono succeduti a Kennedy, ndt] non hanno creato alcun inconveniente: hanno lasciato fare Israele. Constatiamo semplicemente che, dopo l’assassinio di Kennedy, si è manifestato un cambiamento che andava in quella direzione.

Silvia Cattori: La sua denuncia non ha impedito a Israele di mantenere tabù questa questione: è riuscito a non inimicarsi le grandi potenze. La sua strategia poco trasparente non si sarebbe dunque accertata efficace?

Mordechaï Vanunu: E’ meglio riconoscere la forza che dire di sì. Israele è un caso che fa scuola. Come può un piccolo paese sfidare il mondo intero e seguire una politica aggressiva senza preoccuparsi affatto degli altri? Gli israeliani sono riusciti a farlo all’epoca. Ma oggi, il mondo è cambiato. La Guerra fredda è finita, il comunismo è sconfitto, il mondo si orienta verso la pace: si capisce, le armi nucleari non aiuteranno Israele in niente.
Adesso che Israele deve mostrare che desidera la pace, e in che modo intende contribuirvi, per questo paese, che utilità potrebbero avere le armi nucleari? La politica nucleare israeliana era possibile nel contesto della Guerra fredda. Ma oggi, dobbiamo far sì che Israele adotti una nuova politica, che dimostri al mondo intero che vuole la pace e che riconosca di non aver assolutamente bisogno delle armi atomiche.

Silvia Cattori: Negli anni cinquanta Israele già disponeva di un considerevole armamento. Che motivo aveva quindi di dotarsi dell’arma nucleare?

Mordechaï Vanunu: Un paese anche piccolo come Israele non ha alcun valido motivo di detenere un numero così vasto di armi atomiche. E’ un po’ come se il programma di armamento nucleare di Israele gli avesse montato la testa. Non si può in alcun caso usare l’arma atomica nella regione: tutte le bombe atomiche che verrebbero utilizzate contro la Siria, l’Egitto o la Giordania avrebbero effetti radioattivi e renderebbero la vita impossibile anche in Israele. Ogni bomba danneggerebbe anche Israele. Fino a qui, gli israeliani non hanno neanche il diritto di discutere tra loro. Tuttavia, questo problema preoccupa tutti. Attendiamo la risposta di Israele su questo problema.

Silvia Cattori: Per Israele non si tratta di un’arma che gli permette di mantenere lo status quo? Di uno strumento di ricatto politico? E’ per poter discutere coi grandi allo stesso livello – Stati Uniti in testa – e non concedere nulla agli arabi, che Israele ha defraudato e che sono deboli militarmente?

Mordechaï Vanunu: Sì, è proprio così. Israele usa la potenza delle armi nucleari per assestare le sue politiche. Israele ha molto potere, annienta i suoi vicini con l’arroganza. Gli Stati Uniti – anche loro! – non sono nella condizione di dire agli israeliani quello che devono fare. L’Europa, oggi, si rende conto della potenza di Israele. Anche senza usare la bomba atomica, anche senza brandire la minaccia che gli farebbero, gli israeliani possono imporre il loro potere, posso fare assolutamente ciò che vogliono: possono innalzare muraglie, possono edificare colonie in Palestina, nessuno è nella condizione di dire loro che non hanno il diritto di farlo perché sono estremamente potenti. Si tratta del risultato dell’ uso delle armi atomiche a scopi di ricatto politico. Possono usare la bomba atomica contro ogni paese che vorrebbe fermare la loro politica aggressiva verso i palestinesi. Questa è la situazione oggi. Il mondo intero lo sa, tutto il mondo lo sa. C’è un’altra ragione per cui né gli Stati Uniti né l’Europa fanno nulla: loro sanno fino a che punto Israele è potente. Di conseguenza, il modo migliore di neutralizzare Israele consiste nel far sapere la verità al mondo e nel studiare quello che succede, nel campo dell’armamento atomico, finché vi rinuncia.

Silvia Cattori: Israele ha pensato di ricorrere all’arma nucleare contro i suoi vicini arabi nel 1973?

Mordechaï Vanunu: Sì. Nel 1973, Israele era pronto a utilizzare delle armi atomiche contro la Siria. E contro l’Egitto.

Silvia Cattori: Per aver rivelato un segreto di Stato, lei ha molto sofferto. Alla fine, per quale risultato?

Mordechaï Vanunu: Innanzitutto, il mondo ha adesso la prova che Israele possiede delle armi atomiche. Nessuno, oramai, può più ignorare la verità per quanto riguarda il progetto nucleare di Israele. Detto questo, Israele si è trovato nell’impossibilità di ricorrere a queste armi. Un altro risultato della mia azione riguarda il fatto che il mondo ha preso coscienza di ciò che ha fatto questo piccolo Stato ebreo, nel segreto più assoluto. E il mondo ha anche scoperto su quali menzogne e su quale disinformazione è stato edificato questo Stato. Il fatto di sapere che un paese così piccolo sia stato capace di fabbricare segretamente duecento bombe atomiche ha contribuito ad allettare l’opinione pubblica mondiale sul suo comportamento.
La paura che un altro piccolo paese possa fare la stessa cosa e fabbricare delle armi atomiche ha stimolato il mondo a riflettere sulla maniera di fermare la proliferazione nucleare e di impedire ad Israele di aiutare altri paesi ad usare queste armi, in futuro. Quando il mondo è venuto a conoscenza di ciò che Israele ha fatto nel più grande segreto, si è manifestata la paura per la proliferazione nucleare. Il mondo ha preso coscienza del potere di Israele e ha iniziato ad esercitare delle pressioni su questo paese per costringerlo a fare la pace coi palestinesi e col mondo arabo. Israele non aveva più alcun motivo di affermare che temeva i suoi vicini arabi dal momento che disponeva, dalla fine degli anni cinquanta, di una quantità di armi sufficiente per assicurare la sua sicurezza.

Silvia Cattori: Per quale ragioni Israele continua a perseguitarla?

Mordechaï Vanunu: Quello che ho fatto ha irritato molto gli atteggiamenti politici israeliani! Gli israeliani hanno dovuto cambiare i loro piani. La politica nucleare segreta di Israele è l’opera di Shimon Pérès. Ed ecco che è stata distrutta questa politica che consiste nel fabbricare armi atomiche clandestinamente. A causa di questa rivelazione, Israele ha dovuto prendere una nuova direzione, definire nuovi piani e quello a cui assistiamo oggi è la conseguenza delle mie rivelazioni. Hanno dovuto inventare nuovi tipi di armi. Oggi, costruiscono il muro, i check-point, le colonie e hanno fatto in modo di rendere la società ebrea più religiosa, più nazionalista, più razzista. Invece di andare in un’altra direzione, invece di comprendere che esiste anche la soluzione della pace, invece di riconoscere ai palestinesi gli stessi diritti e di porre fine al conflitto. Israele non vuole porre fine al conflitto. Ciò che vuole Israele è continuare a costruire la sua muraglia e le sue colonie.

Silvia Cattori: Lei ha compiuto una vera e propria impresa!

Mordechaï Vanunu: In qualità di essere umano, ho fatto qualcosa per la sicurezza e il rispetto dell’umanità. Ogni paese ha il dovere di rispettarci, tutti, in quanto esseri umani, qualunque sia la nostra fede religiosa, ebrei, cristiani, musulmani, buddisti. Israele ha un grosso problema: non rispetta gli esseri umani. Quello che ha potuto fare, perchè non considera gli esseri umani uguali, è assolutamente terribile. Per l’immagine di Israele, il risultato è devastante; lo Stato di Israele non è in nessun caso una democrazia. Lo Stato di Israele è razzista. Il mondo dovrebbe sapere che Israele mette in pratica una politica di apartheid: se si è ebrei, si ha il diritto di andare dove si vuole e di fare ciò che sembra giusto; se non si è ebrei, non si ha alcun diritto. Questo razzismo è
il vero e proprio problema con quale Israele si confronta. Israele è assolutamente incapace di dimostrare di essere una democrazia. Nessuno può accettare questo Stato razzista: né gli Stati Uniti né l’Europa. Le armi nucleari israeliane, potrebbero, a rigore, accettarle . Ma come potrebbero giustificare questo Stato di apartheid fascista?

Silvia Cattori: Sembra che lei si rifiuti di riconoscere la legittimità di questo Stato?

Mordechaï Vanunu: Certamente. E’ quello che ho detto quando sono uscito di prigione: noi non dobbiamo accettare questo Stato ebreo. Lo Stato ebreo di Israele è l’opposto della democrazia; noi abbiamo bisogno di uno Stato per tutti i suoi cittadini, a prescindere dalla fede religiosa. La soluzione è uno Stato unico per tutti i suoi abitanti, di tutte le religioni come succede nelle democrazie quali la Francia o la Svizzera, e non uno Stato solo per gli ebrei. Uno Stato ebreo non ha assolutamente alcun motivo di esistere. Gli ebrei non hanno bisogno di un regime fondamentalista come quello che regna in Iran. Le persone hanno bisogno di una vera e propria democrazia che rispetti gli esseri umani. Oggi, in Medio Oriente abbiamo due Stati fondamentalisti: l’Iran e Israele. Ma in materia di fondamentalismo, Israele è molto in anticipo, anche sull’Iran!

Silvia Cattori: Secondo lei, Israele è, quindi, una grande minaccia più dell’Iran?

Mordechaï Vanunu: Intendiamoci: sappiamo ciò che gli israeliani fanno subire al popolo palestinese da più di cinquanta anni! E’ arrivato il momento di ricordarsi dell’olocausto palestinese e di preoccuparsene. I palestinesi hanno sofferto così tanto, e da tantissimo tempo, per questa oppressione. Gli ebrei non li rispettano affatto, non li considerano esseri umani; non riconoscono loro alcun diritto e continuano a perseguitarli, a mettere in pericolo la vita dei palestinesi e, di conseguenza, anche il loro stesso avvenire.

Silvia Cattori: Cosa ha da dire al mio paese, la Svizzera, che è depositaria delle Convenzioni di Ginevra?

Mordechaï Vanunu: La Svizzera dovrebbe condannare chiaramente e ad alta voce la politica razzista di Israele, vale a dire tutte le violazioni dei diritti dei palestinesi, così come dei musulmani e dei cristiani. Ogni paese deve esigere dal governo israeliano che vengano rispettati coloro che non sono ebrei in quanto esseri umani. Di fatto, io non ho il diritto di parlarle, non sono autorizzato a parlare a degli estranei; se lo faccio comunque, è a mio rischio e pericolo. Israele ha utilizzato i risarcimenti dell’Olocausto per fabbricare armi, per distruggere case e beni dei palestinesi. Sarei molto contento se il suo paese mi rilasciasse un passaporto e mi aiutasse a lasciare questo paese, Israele. Qui la vita è molto dura. Se si è ebrei, non si ha alcun problema; se non lo si è (o non lo si è più), si è trattati senza il minimo rispetto.

Note:

Silvia Cattori è una giornalista svizzera
Fonte : http://www.voltairenet.org
Link : http://www.voltairenet.org/article129626.html
14.10.05
Traduzione per http://www.comedonchisciotte.org a cura di FLORIANA FIGURA

Testo diffuso dalla Lista_di_Geopolitica@yahoogroups.com
24novembre 2005 9:15 AM
Subject: [Geopolitica] Intervista a Vanunu


Mordechai Vanunu spiega perché ha rivelato al mondo i segreti nucleari dello stato ebraico

«Ho parlato per salvare Israele»

Restrizioni: ieri la Corte suprema di Israele ha confermato: dopo 18 anni di carcere per il tecnico vietati viaggi all’estero e contatti con stranieri

FREDRIK S. HEFFERMEHL

Fonte: Il Manifesto – 27 luglio 2004

27 luglio 2004

Ieri la Corte suprema israeliana ha confermato le restrizioni imposte a Mordechai Vanunu, che nel 1986 rivelò al mondo l’esistenza del programma nucleare segreto dello stato ebraico. Il tecnico, che ha finito di scontare 18 anni di carcere per spionaggio, sostiene di non avere più segreti da rivelare e aveva quindi presentato ricorso contro il divieto di espatriare e di contattare stranieri. In realtà Vanunu non ha mai rivelato segreti, né collaborato con potenze straniere, ma ha semplicemente reso publico il pericolo che Israele potesse auto-infliggersi un Olocausto. Quando, nel 1986, fornì al Sunday Times fotografie del reattore di Dimona ha rivelato al grande pubblico quanto già era noto nei circoli d’affari e negli ambienti militari internazionali. Ha inferto così un duro colpo all’ambigua politica nucleare di Israele e ruppe un tabù dello stato ebraico.

Abbiamo parlato con lui prima dell’udienza della Corte suprema israeliana. «Questo stato ha uno strano concetto di giustizia», ci ha detto. «L’udienza è stata pubblica 20 minuti all’inizio e 15 minuti alla fine. In circa due ore e mezza, i tre giudici hanno ascoltato a porte chiuse prove e testimoni – in modo talmente segreto che né io né i miei avvocati siamo stati autorizzati ad assistere».

Nella sessione di 15 minuti con Vanunu e i suoi avvocati, i giudici si sono concentrati sul diario che Vanunu ha scritto in carcere nel 1991, in cui forniva una precisa ricostruzione del reattore di Dimona. «Si trattava solo di un modo per tenere la mente in allenamento in anni di totale isolamento – ha spiegato Vanunu – ma lo stato continua a sottolineare che io posso riprodurre informazioni sul programma atomico in ogni momento. Quello che non dicono è che ciò che io posso riprodurre non è segreto e non può danneggiare la sicurezza nazionale israeliana. Non può quindi costituire la base per ulteriori restrizioni. Se i giudici continueranno ad applicare questa ragion di stato, vorrà dire che non potrò ottenere piena libertà finché non avrò perso la memoria, un’idea un po’ assurda di giustizia. E anche senza senso, dal momento che non vedo molta gente a cui poter rivelare i miei segreti – se mai ne ho. Al contrario, lo stato ha potuto vedere quali sono le mie idee. Sono stati i miei studi di questioni morali e filosofiche a spingermi a fare un atto di coscienza. Hanno letto le lettere che ho scritto negli ultimi 17 anni e mezzo. Forse non sono stato completamente leale ai miei superiori, ma la mia intenzione era proteggere Israele e il mondo da un immenso pericolo, una potenziale ecatombe. Sfido il governo a mostrare un solo caso in cui ho agito in modo sleale o volto a danneggiare Israele».

Secondo il diritto internazionale, Israele deve restituire a Vanunu i suoi pieni diritti di cittadino. L’unica eccezione a questa regola possono essere motivi di «sicurezza nazionale». Nella prima breve udienza i giudici hanno sottolineato che la questione della sicurezza era un elemento chiave nel caso. Esperti sia israeliani che stranieri sostengono che Vanunu non ha segreti interessanti. Se uno stato vuole invocare la sicurezza nazionale, deve specificare quali sono queste ragioni. I segreti che Vanunu potrebbe rivelare sono già ampiamente disponibili al grande pubblico. Oggi, su Internet è possibile trovare molte più informazioni sulle armi nucleari di quante ne abbia mai avute Vanunu.

Vanunu è orgoglioso di aver fatto da battistrada per molti altri: «Negli ultimi tempi, gli informatori sono usciti allo scoperto rapidamente, senza aspettare decenni per rivelare ciò di cui sono a conoscenza. La guerra in Iraq è piena di esempi di soffiate, che hanno prodotto notevole imbarazzo al presidente Bush e al premier britannco Tony Blair. Mi piacerebbe vedere qualcuno che fornisse rivelazioni su come i servizi di sicurezza stanno montando questa storia di Vanunu come persona pericolosa e nemico principale dello stato».

Gli ho domandato cosa lo avesse spinto a fare la sua soffiata. La sua risposta è stata sorprendente: «Hollywood! Ho visto film sulla devastazione nucleare come Sindrome cinese e The Day After. Nel 1986 c’è anche stato il disastro di Chernobyl. Tutti questi impulsi, insieme alle mie ricerche in filosofia, mi hanno spinto a mettere in guardia il grande pubblico e a cercare di avviare un dibattito democratico sul rischio nucleare».

E in effetti, dopo il rilascio di Vanunu il dibattito sul nucleare sta montando in Israele. Il tecnico pensa che lo stato dovrebbe ringraziarlo invece di punirlo a vita.

Note:

FREDRIK S. HEFFERMEHL: Avvocato norvegese, vice-presidente dell’International Peace Bureau e membro dell’International Free Vanunu Committee.


Quanto affermato da Vanunu  nell’articolo che precede trova sostanziali conferme in alcuni brani di Paolo Barnard che riporto (Paolo Barnard, Perché ci odiano, BUR 2006; pagg. 226-229):

L’armamento nucleare non conviene ad Israele

L’arsenale nucleare dello Stato ebraico fu svelato con certezza al mondo intero solo nel 1986, quando il tecnico nucleare israeliano dissidente Mordechai Vanunu raccontò al «Sunday Times» di Londra dell’esistenza di circa 200 testate atomiche in Israele, fornendo prove fotografiche concernenti gli impianti di produzione. Vanunu divenne all’istante il ricercato numero uno da Tel Aviv, e in una sporca vicenda da film di spionaggio su cui grava il sospetto della complicità del nostro Paese, il tecnico fu irretito da una bella spia, attirato a Roma per poi essere sequestrato dai Servizi segreti israeliani che lo riportarono in patria. Fu condannato a diciotto anni di carcere, di cui undici passati in isolamento, che sconterà interamente per poi subire ulteriori vessazioni appena liberato. Akiva Orr, l’ex partigiano d’Israele della guerra del 1948 e oggi uno dei più sagaci e colti intellettuali israeliani viventi, ha commentato nel corso di una nostra recente conversazione l’odissea di Vanunu sottolineandone un lato grottesco: «Il suo processo fu una farsa, perché Israele non ha mai ammesso di avere armi nucleari e dunque Mordechai fu condannato per aver rivelato un segreto che coloro che lo hanno processato sostengono non esista neppure».
Dunque nel 1986 il mondo ebbe la certezza che Israele era a tutti gli effetti una potenza nucleare, e gli Stati arabi reagirono di conseguenza. Spiega Orr: «Quella data coincide con l’accelerazione fra i Paesi arabi della gara per acquisire armi di distruzione di massa, soprattutto biologiche e chimiche, da contrapporre all’arsenale israeliano. Nacque così la corsa agli armamenti non convenzionali nel Medioriente, per colpa di Israele». Ma sempre secondo l’intellettuale ebreo, la miopia di Ben Gurion finì per trasformare quello che secondo le intenzioni dello statista doveva essere un deterrente contro la minaccia di distruzione dello Stato d’Israele per mano araba, nell’esatto contrario: «L’aver portato la competizione al livello più alto, e cioè quello del confronto atomico, ha paradossalmente indebolito il nostro Paese come mai prima. Per comprenderlo basta un semplice ragionamento: poniamo che Israele attacchi per primo l’Iran. Teheran avrebbe sicuramente il tempo di reagire e di lanciare i suoi ordigni, poiché la sua superficie è talmente vasta che è impossibile neutralizzarlo in un colpo solo. Al contrario la superficie di Israele è assai piccola ed è densamente popolato, in particolare i due centri urbani di lei Aviv e Haifa. Ciò significa che in pratica può essere distrutto da appena due bombe H, una su ciascun centro, poiché la loro devastazione significherebbe l’annientamento dei gangli nevralgici della nazione. Ammesso anche che Israele fosse poi in grado di lanciare un secondo attacco, a che servirebbe visto che sarebbe già sostanzialmente distrutto». La conclusione di Akiva Orr è che l’unica strada affidabile sarebbe un trattato di denuclearizzazione di tutto il Medioriente iniziando proprio dal disarmo di Israele. Ma sappiamo bene che gli Stati Uniti hanno da tempo cessato di esercitare pressioni affinché Tel Aviv firmi il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, e tacciono sull’opportunità che gli ispettori internazionali visitino i suoi centri di ricerca atomica, in una palese e ipocrita contraddizione con quanto invece hanno fatto nei confronti dell’Iran o, ancor di più, dell’Iraq.
Teheran, come è ormai più che ovvio, altro non vuole se non tutelarsi dal dilagante e unilaterale espansionismo militare degli Stati Uniti e soprattutto dalla minaccia nucleare originata da Israele nell’area mediorientale, e dunque l’unica via per fermare gli Ayatollah sembra essere proprio quella suggerita da Orr.
Una sorprendente conferma di queste tesi si trova in un rapporto americano commissionato dal Pentagono nel 2005 e intitolato Getting Ready for a Nuclear-Ready Iran, i cui curatori sono gli strateghi Henry Sokolsky e Patrick Clawson, che hanno lavorato sotto la supervisione del U.S. Army War College’s Strategie Studies Institute.
Si tratta di pensatori di tendenza conservatrice, e nel caso di Clawson decisamente prò-Israele essendo vicedirettore dell’Institute for Near Easf Policy, una delle potenti lobby di cui ho trattato in precedenza. Eppure persino questi falchi americani sono giunti alla conclusione che «… se Israele possiede un arsenale nucleare segreto, gli arabi penseranno che sia giusto bilanciarlo con programmi di armamento atomico segreti in Iran, in Arabia Saudita o in Egitto, e altri. È per caso giusto che gli Stati Uniti e l’Europa pretendano che gli Stati musulmani mediorientali frenino le loro “pacifiche” ambizioni nucleari quando Israele stesso possiede la bomba e pubblicamente sostiene che non arriverà secondo nell’introdurre armi atomiche nella regione? Non avrebbe più senso forzare Israele ad ammettere che possiede questi armamenti nucleari e poi pretendere che vi rinunci nel contesto di un negoziato di disarmo regionale?».
La proposta concreta di Sokolsky e Clawson è che «… Israele dovrebbe annunciare che congelerà unilateralmente Dimona e che porrà l’istallazione sotto la tutela della IAEA (Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica). Allo stesso tempo dovrebbe annunciare che (in teoria) è pronto a smantellare Dimona e a riporre il materiale nucleare che ha prodotto sotto la supervisione di una patema atomica di sua fiducia, come ad esempio gli Stati Uniti. Ma questo secondo passo avrà una con-, dizione: che almeno due su tre nazioni mediorientali (es. Alge-. ria, Egitto o Iran) seguano Israele nel congelamento da qui ai prossimi tre anni delle loro installazioni nucleari in grado di produrre plutonio e uranio arricchito in quantità sufficienti per una bomba».19
Trovo rimarchevole che persino all’interno dell’establishment militare statunitense vi sia chi si è arreso di fronte all’insostenibilità del nostro sistema di due pesi e due misure applicato alla questione nucleare in Medioriente, ma ancor più degno di nota è scoprire che tali posizioni erano mainstream (dominanti) fra i conservatori americani già più di quindici anni fa, quando il dibattito era ancora allo stadio larvale. Lo dimostra un articolo pubblicato nell’estate del 1989 dall’autorevole «Foreign Affairs», un periodico organo del Council On Foreign Relations di Washington, che si può definire la regina incontrastata delle fondazioni dedite agli studi di strategia internazionale in America e la cui opinione è tradizionalmente considerata «il Verbo» alla Casa Bianca. Gli autori, Gerard C. Smith e Helena Cobban, dopo aver sottolineato che fra le nuove sfide poste al blocco occidentale dal crollo dell’Impero sovietico vi era proprio l’impegno a impedire una disordinata proliferazione nuclea-i re, si permettevano di criticare gli Stati Uniti perché «… hanno frequentemente adottato un atteggiamento permissivo soprattutto verso due Jolly atomici come il Pakistan e Israele…», una doppiezza morale che avrebbe potuto giocargli un brutto scherzo in futuro, poiché «… il fatto che gli USA chiudano un occhio quando ad acquisire armi nucleari sono i suoi amici finirà per andare contro ai suoi interessi, e deve assolutamente cessare»20

19 Getting Ready for a Nuclear-Ready Iran, Henry Sokolsky e Patrick Claw-son, October 2005. Strategie Studies Institute, U.S. Army War Colleges, 122 Forbes Ave, Carlisle, PA 17013-5244.


20 «Foreign Affairs», A Elind Eye to Nuclear Proliferation, Gerard C. Smith e Helena Cobban, 1989. .


Proliferazione nucleare in Asia

(dell’intero articolo riporto solo la parte riguardante Israele; ndr)

G.Devoto, P.Farinella, G. Nardulli

preparato per
Forum Per i Problemi della Pace e della Guerra, Firenze, 1995

ISRAELE

Il 30 settembre 1986 il tecnico nucleare israeliano Mordechai Vanunu scomparve subito dopo essere giunto a Roma con un volo da Londra. Per sei settimane di lui non si seppe piu’ nulla; le autorita’ israeliane ammisero successivamente di aver effettuato il suo arresto, senza pero’ chiarirne le circostanze. In seguito, Vanunu fu detenuto nel carcere di Ashkelon, presso Tel Aviv, in una piccola cella sempre illuminata dalla luce elettrica, sorvegliata da una telecamera e con un regime di isolamento quasi totale. Cio’ nonostante, Vanunu riusci’ durante un trasferimento su un cellulare a mostrare a un fotografo un palmo della mano aperto, con un breve messaggio in cui rivelava di essere stato rapito a Roma. Nel marzo del 1988, il processo: un processo a porte chiuse, da cui fu escluso qualsiasi osservatore esterno, e durante il quale allo stesso Vanunu fu fisicamente impedito di parlare su argomenti “proibiti”, che si concluse rapidamente con una condanna a 18 anni di reclusione per spionaggio aggravato e tradimento in tempo di guerra. Due anni dopo, la condanna fu confermata in appello, e attualmente Vanunu resta isolato in carcere.

Qual e’ il crimine di cui e’ stato accusato Vanunu ? 40 anni, tecnico, egli ha lavorato dall’agosto 1977 al novembre 1985 nell’impianto nucleare di Dimona nel deserto del Negev, nel sud di Israele, ufficialmente una centrale nucleare di ricerca fornita a Israele dalla Francia alla fine degli anni ’50. Dopo una lunga crisi di coscienza ed una fase di crescente impegno politico pacifista negli anni dell’invasione israeliana del Libano, Vanunu lascio’ il suo impiego ed intraprese un lungo viaggio all’estero (in Australia e negli USA). Nel settembre del 1986, egli decise di rivelare al “Sunday Times” di Londra tutte le informazioni in suo possesso sull’impianto di Dimona, comprese una sessantina di fotografie che aveva ripreso clandestinamente al suo interno. Sottoposte dal giornale all’esame di alcuni esperti autorevoli (Frank Barnaby e Theodor Taylor, entrambi in passato impegnati nella ricerca e sviluppo di armi nucleari britanniche ed americane), tali informazioni rivelarono che a Dimona, sotto il reattore, un grande edificio sotterraneo a sei piani contiene tutti gli impianti necessari per “riprocessare” il materiale fissile, separare e purificare il plutonio e costruire ordigni nucleari. Secondo Vanunu, la produzione di plutonio sarebbe di circa 40 kg all’anno, parecchie volte superiore a quanto si supponeva in precedenza e sufficiente (secondo l’analisi condotta da Taylor sulle foto di componenti nucleari riprese dal tecnico) per produrre circa otto bombe l’anno. Israele possiederebbe cosi’ un arsenale dell’ordine di 200 testate — una cifra significativamente piu’ alta delle stime (50-100 testate) basate sulla potenza presunta del reattore di Dimona.

Vanunu dichiaro’ inoltre che Israele produceva bombe a fusione, portando indizi convincenti sulla produzione a Dimona di componenti di deuteruro di litio, un materiale tipico degli ordigni a fusione (si tratta probabilmente di bombe del tipo “boosted”, in cui deuterio e trizio vengono posti al centro di una sfera di plutonio, aumentando cosi’ la potenza dell’esplosione fino ad alcune centinaia di kton). Per quanto riguarda i sistemi di lancio, va ricordato che le bombe israeliane possono venir lanciate non soltanto da aerei, ma anche da missili terra-terra sia di corta gittata, sia di gittata “intermedia”, superiore ai 1000 km . Quest’ultimo missile, il Jericho 2, e’ stato sperimentato per la prima volta il 14 settembre 1989 con un lancio di 1300 km, dalla base di Palmikin in Israele sino ad una localita’ a Ovest di Creta.

La storia del programma nucleare israeliano e’ stata ricostruita negli ultimi 15 anni da vari esperti indipendenti, quali gli americani Leonard Spector e Gary Milhollin e il francese Pierre Pean. Sebbene non basata su informazioni “ufficiali”, questa storia ha avuto numerose conferme da sorgenti molto credibili, ed e’ quindi da considerare ragionevolmente ben conosciuta. Anche se non tutti i dettagli riportati in libri di taglio giornalistico, come ad esempio quello di Hersh [1], sono storicamente accertati, il quadro d’assieme risulta tuttavia sufficientemente chiaro (una analisi sufficientemente aggiornata del programma nucleare di Israele e degli altri paesi asiatici e’ contenuta in [2]).

Sebbene fin dal 1954 Israele avesse costruito un impianto pilota per la produzione di acqua pesante (necessaria per i reattori utilizzati per produrre plutonio), un programma su vasta scala ebbe inizio solo alla fine del 1956, quando il governo socialista francese di Guy Mollet – di fronte alla crisi di Suez e alla dirompente guerra civile algerina – accentuo’ il proprio orientamento filoisraeliano, e sottoscrisse un accordo segreto per la fornitura a Israele di un grosso reattore in grado di produrre plutonio da installare a Dimona, nel deserto del Negev, a circa 60 km da Beersheba. Come ha confermato nel 1986 Francis Perrin, direttore scientifico della Commissione Francese per l’Energia Atomica dal 1951 al 1970, nonostante la caduta del governo Mollet nel 1957 e la salita al potere di De Gaulle nel 1958, il progetto si sviluppo’ rapidamente. Con l’autorizzazione della Commissione per l’Energia Atomica, fu affidata alla ditta St. Gobain Techniques Nouvelles la costruzione di parecchi impianti supplementari nel sito di Dimona, compreso quello chiave (in cui Vanunu avrebbe lavorato 20 anni dopo e che resto’ segreto per lungo tempo) per l’estrazione del plutonio dalle barre di combustibile usate nel reattore. Quest’ultimo, ufficialmente di tipo sperimentale e della potenza (gia’ considerevole per un reattore di ricerca) di 24 MW, era probabilmente in realta’ almeno due o tre volte piu’ potente, o per lo meno subi’ in seguito trasformazioni atte a renderlo tale. Non vi sono dubbi che la scelta francese fosse motivata dal desiderio di vedere Israele sviluppare armi nucleari: nello stesso periodo, la Francia forni’ a Israele informazioni importanti sui piani costruttivi delle bombe stesse, collaboro’ allo sviluppo di un missile a corta gittata, e probabilmente passo’ anche agli esperti israeliani dati sul primo test nucleare francese, che risale al 1960. La relazione non fu a senso unico: Israele contraccambio’ fornendo ai francesi assistenza tecnica nel campo della produzione dell’acqua pesante e della realizzazione di simulazioni al calcolatore.

Una prima crisi avvenne alla fine del 1960, quando il governo statunitense scopri’, probabilmente tramite un aereo spia U-2, l’installazione del reattore a Dimona, ed espresse preoccupazione e protesta per essere stato tenuto all’oscuro dell’accordo franco-israeliano (va ricordato che nel 1960 gli USA avevano a loro volta fornito un piccolo reattore di ricerca a Israele, sottoposto pero’ a severe salvaguardie anti-proliferazione). Il primo ministro israeliano Ben Gurion ammise l’esistenza del reattore di produzione francese, ma dichiaro’ ufficialmente alla Knesset che esso aveva esclusivamente scopi di ricerca civile, e non sarebbe stato usato per fini militari; il governo israeliano si impegno’ anche a permettere ad esperti americani di visitare periodicamente il reattore (queste visite, protrattesi fino alla fine degli anni 60, confermarono in sostanza la versione israeliana, e non rivelarono neppure mai l’esistenza dell’impianto sotterraneo per la separazione del plutonio; secondo Pean e Vanunu, cio’ fu il risultato di una vera e propria opera di “camuffamento”). In seguito alle reazioni americane, De Gaulle ordino’ comunque l’arresto dei lavori condotti dalla St. Gobain sull’impianto per la separazione del plutonio, pur permettendo il completamento del reattore; tuttavia, dopo una temporanea sospensione, il governo israeliano fu in grado di assicurarsi di nuovo le prestazioni di molte imprese sottocontrattrici francesi. Il reattore entro’ in funzione a pieno regime nel 1962, e nel 1965 inizio’ la produzione di plutonio per uso bellico.

Israele inoltre dovette risolvere il problema della materia prima: da una parte l’uranio per alimentare il reattore, e dall’altra l’acqua pesante necessaria per moderare la reazione che porta a trasformare uranio in plutonio. L’uranio fu probabilmente acquisito in parte sul mercato internazionale (dalle colonie o ex-colonie francesi in Africa, dalla Repubblica Sudafricana e dall’Argentina); in parte fu prodotto in Israele, dalle miniere di fosfati del Negev; e in parte fu acquisito illegalmente, con un carico di circa 200 tonnellate di “yellowcake” (minerale di uranio gia’ processato) acquistato da intermediari, ed inviato da agenti israeliani da Anversa a Genova su una nave che poi “scomparve” misteriosamente nel Mediterraneo. Vi sono anche indizi consistenti che almeno un quintale di uranio gia’ altamente arricchito (abbastanza per costruire diverse bombe) sia stato trafugato da un impianto americano situato ad Apollo, Pennsylvania, alla meta’ degli anni 60, e sia finito in Israele.

L’acqua pesante (22 tonnellate, sufficienti per le necessita’ del reattore di Dimona) fu fornita nel 1959 dalla Norvegia. Nel 1986, il governo norvegiese dichiaro’ che la fornitura era legata a una clausola sull’uso per scopi esclusivamente pacifici del materiale, e sulla possibilita’ norvegese di condurre ispezioni; ma l’unica ispezione avvenne nel 1961, prima dell’entrata in funzione del reattore, e alla fine degli anni 80 il governo israeliano rifiuto’ di rendere conto ai norvegesi sull’uso che era stato fatto dell’intero stock di acqua pesante. Forniture supplementari di acqua pesante provennero probabilmente dalla Francia e dagli Stati Uniti (ma quest’ultimo materiale, attualmente sottoposto alle salvaguardie dell’ Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, la IAEA, non venne usato a Dimona).

Durante il conflitto arabo-israeliano del 1973 sembra che Israele non solo possedesse gia’ testate missilistiche nucleari, ma anche ne abbia considerato seriamente l’impiego bellico come “extrema ratio” contro l’offensiva portata su due fronti da Siria ed Egitto nel Golan e nel Sinai. Sei anni dopo, prese corpo pure l’ipotesi di un test nucleare condotto in collaborazione fra Israele e Sudafrica: nel settembre 1979, un satellite da sorveglianza americano di tipo “Vela” aveva osservato sull’Atlantico Meridionale un “flash” di radiazione simile a quello di un’esplosione nucleare di piccola potenza. Una commissione di esperti (senza accesso alle fonti di informazione che non fossero i dati ottenuti dal satellite) si espresse in seguito negativamente su questa ipotesi, ma la parola definitiva sulla natura dell’evento non e’ mai stata detta. In generale, e nonostante le reiterate smentite dei due governi, molti indizi indicano una prolungata collaborazione in campo nucleare tra Israele e Sudafrica, basata essenzialmente sullo scambio fra il “know-how” israeliano e le materie prime sudafricane.

Negli anni ’80 un’ulteriore operazione clandestina israeliana ebbe per oggetto l’acquisto illegale, negli Stati Uniti, di 810 “critroni”, dispositivi elettronici necessari per l’innesco della carica convenzionale che, in una bomba nucleare, comprime il materiale fissile; sebbene i critroni siano stati in seguito restituiti, sembra probabile che altre componenti nucleari e missilistiche possano essere state acquisite in maniera analoga. La situazione negli anni 80 veniva cosi’ riassunta da Leonard Spector: “Pur in presenza di diverse incertezze, vi e’ ragione di ritenere che, durante i primi anni ’80, Israele abbia sviluppato un arsenale nucleare cosi’ diversificato e cosi’ numeroso da qualificarsi come la sesta potenza nucleare, senza che i propri cittadini ne siano consapevoli e mentre il governo americano, almeno in parte al corrente dello svolgersi degli avvenimenti, chiudeva un occhio” [3].

La valutazione di Spector, e anche il caso Vanunu, sottolineano un aspetto preoccupante del programma nucleare israeliano: la mancanza di discussione pubblica – nei media e nel mondo politico israeliano – sulle caratteristiche e gli scopi del programma, sulle opzioni di strategia nucleare privilegiate dai dirigenti del paese, sulla catena di comando e controllo. Il governo israeliano fin dagli anni 70 ripete da sempre l’ambigua formula ufficiale di non voler essere “il primo paese a introdurre armi nucleari in Medio Oriente”, sebbene negli ultimi anni alcuni esponenti governativi e militari israeliani (non di primo piano) abbiano in diverse occasioni fatto aperta allusione all’esistenza dell’arsenale israeliano, e ad un suo ruolo di deterrenza rispetto a un’aggressione convenzionale, chimica o missilistica.

Che la dottrina nucleare israeliana sia prevalentemente di tipo dissuasivo puo’ ricavarsi non solo da dichiarazioni di questo genere ma anche da una analisi dei siti che compongono l’infrastruttura nucleare israeliana e della loro ubicazione. Questa analisi e’ stata svolta di recente da Hough [4] ed e’ basata sullo studio di immagini ad alta risoluzione prese da satelliti commerciali francesi e russi. Oltre a Dimona, l’ infrastruttura nucleare di Tel Aviv comprende il laboratorio di ricerca di Soreq, la gia’ citata base per test missilistici di Palmikin, appena a Nord di Soreq, e soprattutto la base missilistica di Kefar Zekharya, nelle colline della Giudea, base divenuta operativa negli anni ’70, ed ospitante anche depositi per bombe nucleari di gravita’ (per i bombardieri israeliani a capacita’ nucleare F-4 e F-16) e 50 bunker per i missili Jericho 2. Completano il quadro la fabbrica di Be’er Yaakov, a 15 km a Nord di Zekharya, nella quale si costruiscono i Jericho 2, il sito di Yodefat, nel quale vengono assemblate e smontate le armi nucleari, e il deposito di armi nucleari tattiche (presumibilmente proiettili di artiglieria e mine nucleari) di Eilabun. Il fatto che le armi nucleari strategiche (i 50 missili nucleari Jericho 2, le testate per i bombardieri) siano concentrate a Zekharya, al centro di Israele, in un’area ben difesa, induce a pensare che la dottrina militare israeliana ne preveda l’ impiego non come armi da primo colpo, ma piuttosto come un’arma estrema, da utilizzare solo in assenza di alternative. D’altra parte, come si e’ detto, questo ruolo di deterrente non e’ esclusivo, e si puo’ valutare che su di un totale di circa 200 testate, una meta’ sia di tipo tattico.

Il fatto che Israele non riconosca apertamente le proprie capacita’ nucleari si spiega con ragioni di opportunita’ politica: da una parte per non legittimare un’eventuale “bomba islamica”, dall’altra perche’ da tempo il Congresso degli Stati Uniti ha posto severe restrizioni per gli aiuti militari ai paesi non aderenti al Trattato di Non-Proliferazione (TNP) e aventi programmi nucleari militari in corso. Queste restrizioni non vengono applicate, per ora, a Israele, nonostante che, presumibilmente, il programma nucleare israeliano utilizzi in parte anche tecnologia statunitense: ad esempio nella fabbrica di Be’er Yakov vengono costruiti non solo i Jericho 2, ma anche i missili terra-aria Arrow. Questi ultimi sono fabbricati con l’ assistenza tecnica degli USA, e sussistono vari sospetti che una parte della produzione degli Arrow venga in realta’ utilizzata per i missili nucleari israeliani.

Israele ha sempre rifiutato di aderire al Trattato di Non Proliferazione Nucleare, sostenendo in particolare che le ispezioni realizzate dall’IAEA non sarebbero sufficienti a garantire la non proliferazione da parte dei governi arabi. Questa motivazione e’ stata naturalmente rafforzata dalla scoperta del programma nucleare segreto iracheno dopo la guerra del Golfo. La posizione israeliana era favorevole invece alla creazione in Medio Oriente di una zona denuclearizzata sul modello di quella realizzata con il trattato di Tlatelolco in America Latina: cio’ avrebbe richiesto accordi diretti con gli stati arabi (e quindi un loro riconoscimento “de facto” dello stato israeliano), e soprattutto avrebbe permesso di realizzare ispezioni reciproche per garantire il mutuo rispetto di tali accordi. Fino all’apertura delle trattative arabo-israeliane nel 1992, questa proposta era sempre stata rifiutata dagli stati arabi, che insistevano in alternativa su di un’adesione israeliana al Trattato di Non Proliferazione.

A lungo termine, la situazione di “monopolio nucleare” israeliano nel Medio Oriente favorisce l’instabilita’, specialmente se nell’area si riacutizzassero le tensioni politiche. In questo senso il caso dell’ Iraq e’ illuminante: se il programma nucleare iracheno non fosse stato interrotto dalla sconfitta di Bagdad nella guerra del Golfo, saremmo probabilmente in presenza oggi in Medio Oriente di un pericoloso “equilibrio del terrore”, tra due potenze nucleari. C’e’ da aggiungere che l’arsenale nucleare israeliano, realizzato al di fuori del regime internazionale di non proliferazione, spesso attraverso operazioni illegali e in violazione di impegni internazionali assunti da Tel Aviv, rappresenta un esempio assai negativo che potrebbe incentivare alla proliferazione nucleare altri stati che, come Israele, operino in un ambiente internazionale ostile. Per questi motivi, l’obiettivo di arrivare allo smantellamento di questo arsenale e alla denuclearizzazione dell’area mediorientale appare come una delle chiavi per consolidare il processo di disarmo nucleare nei prossimi decenni.

…….

RIFERIMENTI

[1] S. H. Hersh, The Samson Option, Random House, New York (1991).

[2] D. Albright, F. Berkhout, W. Walker, World Inventory of Plutonium and Highly Enriched Uranium, Sipri, Oxford University Press, 1993.

[3] L. Spector, Going Nuclear, Ballinger (1986).

[4] H. Hough, Israel’s Nuclear Infrastrucure, Jane’s Intelligence Review, November 1994 – Middle East, p. 508.

……..


Nazione Nucleare; le armi di distruzione di massa in Israele

di John Steinbach
tratto da CovertAction Quarterly
n. 70 Aprile-Giugno 2001

Nei primi mesi del 2001, gli sforzi per trovare la pace in Medio Oriente hanno dovuto subire due colpi molto forti. Il leader della destra israeliana Ariel Sharon è stato eletto capo del governo di Israele, la nazione nucleare “tralasciata”. Ed il primo bombardamento dell’Iraq da parte di forze USA/UK del presidente George W. Bush, che è stato giustificato come atto “difensivo”.

Dalla guerra del Golfo nel 1991, molta attenzione è stata dedicata sulla presunta minaccia da parte delle armi di distruzione di massa irachene, mentre il maggior imputato nella regione, Israele, è stato ampiamente trascurato.
Con un arsenale di 200-500 armi termonucleari e un sofisticato sistema di lancio, Israele, con una popolazione di 6 milioni di persone, ha recentemente preso il posto della Gran Bretagna come quinta potenza nucleare mondiale. Può ora rivaleggiare con Francia e Cina per la consistenza e il livello tecnologico del suo arsenale nucleare.

Possedendo armi chimiche e biologiche, un arsenale atomico molto sofisticato e una strategia aggressiva per il loro uso effettivo, Israele fornisce il maggior impeto regionale per lo sviluppo di armi di distruzione di massa e rappresenta una grande minaccia alla pace e alla stabilità in Medio Oriente.

L’ipocrisia implicita nella condanna dell’Iraq per le sue armi di distruzione di massa e l’attenzione ossessiva verso “stati fuorilegge” come la Corea del Nord, unite al fatto che si ignori il provocatorio arsenale israeliano, è davvero sbalorditiva.
L’esistenza del programma nucleare israeliano è un serio impedimento alla non-proliferazione e al disarmo.
E’ arrivato il momento per chi si occupa delle sanzioni contro l’Iraq, della pace giusta in medio Oriente e del disarmo nucleare, di affrontare direttamente il problema delle armi di distruzione di massa detenute da Israele.


——————————————————————————–

LA BOMBA ISRAELIANA
Il programma nucleare israeliano iniziò negli ultimi anni ’40. Fu stabilito dal Dipartimento di Ricerca sugli Isotopi al Weissman Institute of Science, sotto la direzione di Bergmann, il “padre della bomba israeliana”, che nel 1952 fondò la Commissione israeliana per l’Energia Atomica.
Sin dall’inizio, gli USA sono stati pesantemente coinvolti nello sviluppo della capacità nucleare israeliana, addestrando scienziati nucleari israeliani e fornendo tecnologia nucleare incluso un piccolo reattore per la “ricerca” nel 1995 nell’ambito del programma “Atomi per la pace”.

E’ stata la Francia, comunque, a fornire il grosso dell’assistenza nucleare ad Israele, culminata con la costruzione di Dimona, un pesante reattore ad uranio naturale e a riprocessamento di plutonio, situato vicino Bersheeba, nel deserto del Negev.
Israele è stato attivo nel programma di armi nucleari francese dal suo inizio e ha fornito fondamentali competenze tecniche. Dimona diventò operativa nel 1964 e il riprocessamento del plutonio cominciò subito dopo. Nonostante le affermazioni israeliane che Dimona fosse una “fabbrica di manganese o un’industria tessile”, le misure di sicurezza estreme che sono state impiegate, hanno smascherato queste falsità.
Nel 1976 Israele ha abbattuto uno dei suoi aerei Mirage e nel 1973 un aereo civile libico che si era avvicinato troppo a Dimona, uccidendo 104 persone.

Ci sono ipotesi credibili sul fatto che Israele abbia fatto esplodere almeno uno e forse diversi ordigni nucleari a metà degli anni ’60 nel deserto del Negev, vicino alla frontiera egiziana, e che abbia partecipato attivamente ai test nucleari francesi in Algeria.
Dal tempo della guerra dello Yom Kippur nel 1973, Israele ha avuto un arsenale di forse diverse dozzine di atomiche pronte ed arrivò allo stato di pieno allarme nucleare.

Possedendo un’avanzata tecnologia nucleare e il meglio degli scienziati nucleari, Israele ha dovuto presto affrontare un grosso problema – come ottenere l’uranio necessario. La fonte propria di uranio erano i depositi di fosfati nel Negev, totalmente inadeguati per il fabbisogno del programma in rapida crescita. La risposta a breve termine furono i raid in Francia e Gran Bretagna per appropriarsi delle spedizioni di uranio di contrabbando e nel 1968 con il “Plumbatt Affair” collaborò con la Germania occidentale per appropriarsi i 200 tonnellate di yellowcake (ossido di uranio).

Queste acquisizioni clandestine di uranio per Dimona furono successivamente coperte dai paesi coinvolti.
Ci fu anche l’ipotesi che una Società USA, Nuclear Material and Equipment Corporation (NUMEC), ha deviato centinaia di libbre di uranio arricchito a Israele dalla metà degli anni ’50 alla metà dei ’60. Nonostante inchieste della CIA e dell’FBI e udienze del Congresso, nessuno èstato perseguito.
Alla fine degli anni ’60 Israele risolse il problema dell’uranio sviluppando stretti legami con il Sud Africa con degli accordi per cui Israele forniva la tecnologia e le competenze per la “Bomba dell’Apartheid” mentre il Sud Africa provvedeva all’uranio.
——————————————————————————–

IL SUD AFRICA E GLI USA
Nel 1977 l’Unione Sovietica avvertì gli USA che delle foto satellitari indicavano che il Sud Africa stava progettando un test nucleare nel deserto del Kalahari. Il regime di apartheid tornò indietro, sotto le pressioni dell’amministrazione Carter.
Il 22 settembre 1979, un satellite USA captò un test in atmosfera di una piccola bomba termonucleare nell’oceano Indiano, al largo delle coste sudafricane, ma dato il coinvolgimento israeliano, il rapporto fu prontamente insabbiato. Più tardi si è appreso da fonti israeliane che erano effettivamente avvenuti tre test di ordigni nucleari di artiglieria israeliani miniaturizzati.

La collaborazione israelo-sudafricana non si concluse con i test ma è continuata fino alla caduta dell’apartheid, specialmente con lo sviluppo e i test di missili a medio raggio e artiglieria avanzata. Oltre ad uranio e test il Sud Africa ha fornito ad Israele grossi capitali da investire, mentre Israele metteva a disposizione la sua capacità commerciale per permettergli di aggirare le sanzioni internazionali imposte al regime di apartheid.
Nonostante la Francia e il Sud Africa sono stati i primi responsabili dello sviluppo del programma nucleare israeliano, gli USA conservano la maggior parte delle colpe. Un osservatore ha rimarcato che il programma nucleare israeliano “è stato possibile solo per un raggiro calcolato da parte israeliana e un’attiva complicità da parte americana”. Iniziando con la fornitura di un piccolo reattore a metà degli anni ’50, l’America ha giocato un ruolo critico nei piani nucleari israeliani.

Gli scienziati israeliani sono stati ampiamente addestrati nelle università USA e nei laboratori militari. Nei primi anni ’60, i controlli per il reattore di Dimona sono stati ottenuti clandestinamente da una società chiamata Tracer Lab, la pincipale fornitrice dei pannelli di controllo per i reattori militari USA, comprati attraverso una sussidiaria belga.
Nel 1971 l’amministrazione Nixon approvò la vendita a Israele di centinaia di Kryton, un apparecchio necessario allo sviluppo di sofisticate bombe nucleari. E nel 1979 il presidente Carter fornì a Tel Aviv foto ad altissima risoluzione del satellite spia KH-11, che furono poi usate due anni dopo per bombardare il reattore iracheno Osirak. Con l’amministrazione Nixon e Carter, accelerando poi drammaticamente sotto Reagan, i trasferimenti di tecnologia avanzata a Israele continuarono e continuano fino ad oggi.
——————————————————————————–

LE RIVELAZIONI DI VANUNU
Dopo la guerra del 1973 Israele ha intensificato il suo programma nucleare, continuando la sua politica di oscuramento. Alla metà degli anni ’80 molte stime dell’arsenale nucleare israeliano erano dell’ordine di due dozzine ma le esplosive rivelazioni di Mordechai Vanunu, un tecnico nucleare che lavorava nel complesso di riprocessamento di uranio di Dimona, ha cambiato tutto.

Un sostenitore di sinistra dei diritti dei palestinesi, Vanunu credeva che fosse un dovere verso l’umanità divulgare il programma nucleare israeliano al mondo. Ha esportato clandestinamente dozzine di foto e dati scientifici fuori da Israele e nel 1986 la sua storia fu pubblicata dal londinese Sunday Times.

Rigorose valutazioni scientifiche delle rivelazioni di Vanunu portarono alla scoperta che Israele possedeva la bellezza di 200 bombe termonucleari miniaturizzate e altamente sofisticate. Le sue informazioni rivelavano che la capacità dell reattore di Dimona si era ampliata e che Israele produceva 1.2 chili di plutonio a settimana, abbastanza per fabbricare 10-12 bombe all’anno e che stava producendo armi nucleari avanzate. Appena prima della pubblicazione, Vanunu fu rapito a Roma da una agente segreta israelo-americana del Mossad, fu picchiato, drogato e rapito in Israele. Dopo una campagna di disinformazione e diffamazione sulla stampa israeliana, Vanunu fu processato per tradimento da una corte di sicurezza segreta e condannato a 18 anni di prigione. Ha scontato più di 12 anni in isolamento in una cella di 6 piedi per 9 e, secondo Amnesty International è il prigioniero conosciuto della nostra epoca che ha scontato il più lungo periodo di isolamento. Dopo un anno di trattamento speciale rispetto alla popolazione carceraria – non gli era permesso avere contatti con arabi – Vanunu è stato soggetto, dal 2000, a periodi di punizione in isolamento e deve ancora scontare tre anni di prigione. Le rivelazioni di Vanunu sono state ampiamente ignorate dalla stampa internazionale, specialmente in USA e Israele continua a godere di campo libero riguardo al suo status nucleare.

——————————————————————————–

L’arsenale nucleare
I prodotti principali dell’arsenale nucleare israeliano sono bombe al neutrone, bombe termonucleari miniaturizzate destinate a massimizzare l’irradiazione di raggi gamma, minimizzando gli effetti esplosivi e le radiazioni a lungo termine (in pratica destinate ad uccidere le persone, lasciando intatte le cose).
Le armi comprendono missili balistici e bombardieri capaci di raggiungere Mosca, missili da crociera, mine terrestri (negli anni ’80 Israele ha impiantato mine terrestri nucleari lungo le alture del Golan) e ordigni di artiglieria con una gittata di 45 miglia.

Il Sunday Times (Londra) riporta nel Giugno 2000 che un sottomarino israeliano ha lanciato un missili cruise, colpendo un obiettivo a 950 miglia. Israele è la terza nazione dopo USA e Russia ad avere questa capacità. Quest’anno dispiegherà` tre di questi sottomarini, virtualmente imprendibili, di cui ognuno equipaggiato con 4 missili Cruise.

Lo stesso arsenale nucleare schiera dalle “bombe che distruggono città” più potenti di quella di Hiroshima a mini-bombe tattiche. L’arsenale israeliano di armi di distruzione di massa fa impallidire il potenziale effettivo o virtuale di tutti gli stati mediorientali messi insieme ed è sproporzionato per ogni ragionevole bisogno di “deterrenza”.

Israele possiede anche un completo arsenale di armi chimiche e biologiche. Secondo il Sunday Times, Israele ha prodotto sia armi chimiche e batteriologiche con un sofisticato sistema di lancio. Un alto ufficiale dei servizi israeliani ha ammesso: “c’è a malapena una singola arma biologica o chimica che non sia stata prodotta nell’Istituto Biologico di Nes Tziyona”. Lo stesso rapporto descrive Jet F-16 destinati specificatamente ad armare armi chimiche e biologiche, con personale addestrato ad essere operativo in pochi istanti.

Nel 1998 il Sunday Times ha scritto che Israele, usando ricerche sudafricane, stava sviluppando una “bomba etnica”. Nello sviluppo di quest’arma, gli scienziati israeliani stavano sfruttando i progressi medici identificando un gene distintivo degli arabi, creando un batterio o virus geneticamente modificato Gli scienziati stavano provando a costruire microorganismi mortali che potessero attaccare solo coloro con il gene distintivo nella loro mappa genetica.
Dedi Zucker, membro di sinistra della Knesset, il parlamento israeliano, ha denunciato questa ricerca dicendo: “Moralmente, e sulla base della nostra storia, delle nostre esperienze e delle nostre tradizioni, tale arma è mostruosa e deve essere bloccata”.
——————————————————————————–

L’AGGRESSIONE NUCLEARE
Nell’immaginario popolare, la bomba israeliana è l’arma come “ultima risorsa”, da essere usata all’ultimo momento per evitare la distruzione. Questa strategia, descritta dal giornalista USA Seymour Hersh come “l’opzione Samson” è sottoscritta da molti sostenitori di Israele.

“GLI ARABI POSSONO AVERE IL PETROLIO, MA NOI ABBIAMO I FIAMMIFERI” – Ariel Sharon

Per quanto questa formula possa essere stata vera nelle menti dei primi strateghi nucleari israeliani, oggi l’arsenale nucleare israeliano è legato inestricabilmente ed integrato con la strategia militare e politica globale israeliana. Come dice Hersh: “l’opzione Samson non è più l’unica opzione nucleare che Israele ha a disposizione.”

Israele ha fatto un numero infinito di velate minacce contro le nazioni arabe e contro l’Unione Sovietica prima e la Russia poi. Un esempio lampante viene da Ariel Sharon, ora primo ministro israeliano: Gli arabi possono avere il petrolio, ma noi abbiamo i fiammiferi”.
In un altro esempio, l’esperto nucleare Oded Brosh affermò nel 1992: “non dobbiamo vergognarci del fatto che l’opzione nucleare sia il mezzo più importante per la nostra difesa e un deterrente contro chi ci attacchi.”

L’accademico israeliano Israel Shahak ha commentato nel 1997: “la speranza per la pace, così spesso assunta come scopo per Israele, non è secondo il mio punto di vista, un principio della politica israeliana come invece è l’estensione della dominazione e dell’ influenza israeliana.” Ha poi aggiunto: “Israele si sta preparando ad una guerra, nucleare se necessario, per impedire cambiamenti nell’area che non corrispondono alle sue volontà`, come quelli che riguardino qualche stato mediorientale Israele chiaramente si prepara ad usare tutti i mezzi a sua disposizione, inclusi quelli nucleari.”

Israele usa il suo arsenale nucleare non solo nel contesto della deterrenza o della guerra diretta ma anche in modi più sottili ma non meno importanti. Per esempio, il possesso di armi di distruzione di massa può essere una potente leva per mantenere lo status quo o per influenzare gli eventi secondo il suo vantaggio, come proteggere i cosiddetti paesi arabi moderati da insurrezioni interne o per intervenire in guerre inter-arabe.

Nel gergo politico-militare israeliano questo concetto è chiamato “coercizione non convenzionale” ed è semplificato da una citazione del 1962 di Shimon Peres: “Acquisire un sistema d’arma superiore (leggi nucleare) significa la possibilità di usarlo come mezzo di coercizione, in modo che costringa l’altra parte ad accettare le richieste politiche israeliane come quella del mantenimento dello status quo tradizionale e la firma di trattati di pace.”

Un altro tra gli usi principali della bomba israeliana è di coercizione nei confronti degli USA per farla agire in favore di Israele, anche andando contro i propri stessi interessi strategici. Addirittura nel 1956 Francis Perrin, capo del progetto atomico francese scriveva : “Pensiamo che la bomba israeliana sia indirizzata agli americani, non per lanciargliela contro ma per dire ‘Se voi non ci aiutate in una situazione critica, vi obbligheremo a farlo, altrimenti useremo la bomba atomica.”

Durante la guerra del 1973 Israele ha usato il ricatto nucleare per costringere Henry Kissinger e il presidente Richard Nixon ad inviargli massicci aiuti militari. Come l’allora ambasciatore israeliano Simcha Dinitz affermava: “se non ci verranno inviati aiuti militari massicci immediatamente, allora sapremo che gli USA non rispettano le loro promesse e dovremo trarre conclusioni molto serie”
Un esempio di questo scenario è illustrato nel 1987 da Amos Rubin, consigliere economico dell’allora primo ministro Yitzhak Shamir. “Se lasciato a se stesso Israele non avrà altra scelta se non cadere in un livello di difesa più rischioso che metterà in pericolo se stesso e il mondo in generale. Per impedire che Israele dipenda dall’uso di armi nucleari chiediamo 2-3 miliardi di dollari all’anno in aiuti USA.” Da allora l’arsenale nucleare israeliano è stato enormemente incrementato, quantitativamente e qualitativamente, mentre il borsellino americano è stato sempre aperto.
——————————————————————————–

IMPLICAZIONI
E’ chiaro che Israele non è interessato alla pace se non quella dettata dai suoi propri termini, e non ha alcuna intenzione di negoziare lealmente per tagliare il suo programma nucleare o discutere seriamente su un medioriente libero dal nucleare.
Seymour Hersh scrive: “l’entità` e la raffinatezza dell’arsenale nucleare israeliano permette a uomini come Ariel Sharon di sognare il ridisegnamento della mappa del Medioriente, aiutato dall’implicita minaccia della forza nucleare.”

C’è un’abbondanza di prove a sostegno di questa analisi. Ezer Weizman, l’ex presidente israeliano, afferma: ” L’opzione nucleare guadagna attualità` e la prossima guerra non sarà convenzionale.”
Ze’ev Shiff, un esperto militare israeliano che scrive su Ha’aretz dice: “chiunque creda che Israele firmerà la Convenzione ONU contro la proliferazione di armi nucleari sta sognando ad occhi aperti.”

E Munya Mardoch, direttore dell’Istituto Israeliano per lo sviluppo dei sistemi d’arma dice nel 1994: “Il significato morale e politico delle armi nucleari è che gli stati che rinunciano al loro uso si mettono nella situazione di vassalli. Tutti questi stati che si sentono soddisfatti dal possesso di armi convenzionali sono destinati al ruolo di vassalli.”
Nel momento in cui la società` israeliana diventa sempre più polarizzata, l’influenza della destra radicale si rafforza sempre di più. Secondo Shahak: ” La prospettiva che gruppi come il Gush Emunin o altri fanatici israeliani di destra o qualcuno dei deliranti generali dell’esercito israeliano prendano il controllo delle armi nucleari non è da escludersi nel momento in cui la società ebraica israeliana segue una solida polarizzazione, il sistema di sicurezza si affida sempre più al reclutamento tra le fila dell’estrema destra.”

In una futura guerra mediorientale – che non si può del tutto escludere stanti le asserzioni di Ariel Sharon, un criminale di guerra con un passato di sangue che va dal massacro di civili palestinesi a Quibya nel 1953 al massacro di Sabra e Chatila nel 1982,e via discorrendo – il possibile uso di armi nucleari da parte israeliana non può essere escluso.

Seymour Hersh avverte: “Se scoppierà una nuova guerra in medioriente o se qualche nazione araba lancerà missili contro Israele, come ha fatto l’Iraq, un’escalation nucleare, una volta impensabile se non come ultima risorsa, non sarebbe una probabilità remota.”

Molti pacifisti mediorientali hanno esitato a discutere sul monopolio nucleare israeliano nella regione e questo ha portato ad analisi incomplete e non uniformi e a strategie d’azione sbagliate. Ma rimettere al centro dell’attenzione il problema delle armi di distruzione di massa di Israele avrà diversi effetti salutari.

Primo, metterà in luce la dinamica di destabilizzazione che porta gli eserciti mediorientali a costringere gli stati della regione a cercare ognuno il proprio “deterrente”.

Secondo, metterà in luce il doppio standard grottesco che vede gli USA e l’Europa da un lato condannare l’Iraq, la Siria e la Corea del Nord per lo sviluppo di armi di distruzione di massa mentre contemporaneamente proteggono e legittimano il principale colpevole.

Terzo, scoprire la strategia nucleare israeliana, aiuterà a focalizzare l’attenzione internazionale.e ci saranno maggiori pressioni per farne smantellare l’arsenale e negoziare lealmente.

Infine, un’Israele non nuclearizzata, darebbe luogo ad un Medioriente non nuclearizzato, rendendo molto più probabile un accordo di pace complessivo nella regione.

Finchè la comunità internazionale non affronterà Israele rispetto al suo programma nucleare segreto, è improbabile che si sarà alcuna soluzione del conflitto Israelo-arabo, un fatto su cui conta con tutta evidenza Israele, come l’era Sharon fa presagire.


Nucleare israeliano: l’opacità dell’ossessione difensiva
di Annamaria Medri

http://www.universitadelledonne.it/nucleare.htm

La “scoperta” del nucleare israeliano


Il 5 Ottobre 1986 l’opinione pubblica mondiale venne a conoscenza dell’entità dell’armamento nucleare di Israele – 100 / 200 bombe atomiche comprese quelle termonucleari e a neutroni – dal giornale London Sunday Times attraverso l’intervista, e le foto scattate, rilasciata da Mordechai Vanunu, un ex tecnico israeliano della centrale nucleare di Dimona costruita nelle vicinanze della città di Beer Sheba, nel deserto del Negev.

A seguito di tali rivelazioni, Vanunu fu rapito a Roma, il 30 settembre dello stesso anno, da agenti del Mossad, i servizi di sicurezza israeliani, e rispedito in Israele dove fu processato per spionaggio e tradimento verso lo Stato; condannato a 18 anni di reclusione, di cui dodici passati in stretto isolamento, è stato rilasciato nel 2004 pur se sottoposto a stretta sorveglianza. 

La centrale nucleare di Dimona

La scelta dell’opzione militare nucleare parte fin dai primi mesi del 1948 quando un gruppo di scienziati ebrei visitò, su ordine del Ministero della Difesa, il deserto del Negev, per valutare la possibilità di costruirvi una centrale nucleare; quattro anni dopo, nel 1952, nacque la Israel Atomic Energy Commission (IAEC).

David Ben Gurion diede il via alla costruzione di Dimona nel 1958, ma già nel 1957 Israele aveva firmato, con il primo ministro francese Guy Mollet, un accordo in vista della realizzazione “a fini militari ” di tecnologia nucleare. Nel 1960, un aereo americano di ricognizione U2 rivela che ciò che si sta fabbricando a Dimona non è uno “stabilimento tessile”, come pretendevano gli israeliani, ma un reattore nucleare.

Il programma Newsnight trasmesso dalla BBC il 3 agosto 2005 ha confermato che la Gran Bretagna ha fornito ad Israele “acqua pesante” (D2O, con 2 atomi di deuterio al posto dell’idrogeno), l’ingrediente fondamentale per trasformare il reattore nucleare di Dimona in una vera e propria centrale nucleare per la produzioni di armi atomiche. Secondo la BBC il contratto segreto con Israele venne dissimulato come una restituzione alla Norvegia da parte della Gran Bretagna di una partita di 20 tonnellate di acqua pesante non più utilizzata. Il materiale, invece, venne poi spedito allo stato ebraico che nel 1961 lo aveva praticamente esaurito: possedeva bombe atomiche.

Alla fine degli anni ’60 Israele ebbe una proficua collaborazione nell’ambito della ricerca nucleare con il Sud Africa dell’apartheid. Da semplice fornitore di uranio (almeno 550 tonnellate), il governo sudafricano divenne poi il principale partner di Gerusalemme nello sviluppo di armi nucleari ed il culmine di questa partnership fu raggiunto nel 1979, quando vi fu il cosiddetto “incidente di Vela”. Il 22 settembre 1979, un satellite USA captò un test in atmosfera di una piccola bomba termonucleare sull’oceano Indiano, al largo delle coste sudafricane. Più tardi si apprese da fonti israeliane che erano effettivamente avvenuti tre test di ordigni nucleari miniaturizzati.

L’arsenale nucleare

Israele è così riuscito a costruire un arsenale valutato in circa 400 armi nucleari con una potenza complessiva di 50 megaton, equivalente a 3.850 bombe di Hiroshima.

Come vettori nucleari, i militari usano una parte degli oltre 300 caccia F-16 e F-15 potenziati, forniti dagli Usa, armati anche di missili israelo-statunitensi Popeye a testata nucleare. Un’altra versione, il Popeye Turbo, è installata su tre sottomarini Dolphin, forniti dalla Germania. Si aggiungono a questi vettori nucleari circa 50 missili balistici Jericho II, su rampe di lancio mobili, e i razzi Shavit utilizzabili anche come missili balistici a lunga gittata

Nei mesi di marzo e aprile del presente anno, è apparsa sui giornali la notizia dell’acquisto da parte d’Israele di 500 bombe GBU-28 americane prodotte dalla Lockheed Martin – le cosiddette bunker busters progettate per la penetrazione di strutture sotterranee – capaci di attraversare un muro protettivo in cemento armato spesso sei metri e profondo trenta. Tutto ciò alimenta i sospetti che lo stato ebraico stia preparando un attacco aereo contro i siti nucleari iraniani di Busher, Natazan e Arek, riproducendo l’azione attuata nel 1981 contro il reattore iracheno Tammuz I di Osiraq

19 novembre ’05


http://www.paginedidifesa.it/2005/caparrini_050119.html

Israele, il programma nucleare risale agli anni ’50

Rudy Caparrini, 19 gennaio 2005


La recensione del libro di Zaki Shalom “Between Dimona and Washington: The Development of Israel’s Nuclear Option, 1960-68“, pubblicata sul quotidiano israeliano Ha’aretz venerdì 14 gennaio, offre l’occasione per approfondire la questione, delicata e controversa, del programma nucleare israeliano.

A parte la poca attenzione prestata in Italia, del tutto normale considerando la scarsità della ricerca storica sul Medio Oriente contemporaneo nel nostro paese, ciò che sorprende è l’assoluto silenzio su detto argomento a livello europeo. Viene spontaneo chiedersi come mai certi Stati amici del mondo arabo, la Francia in particolare, non hanno mai posto l’accento sullo sviluppo del programma per l’energia atomica in Israele.

L’atteggiamento di Parigi è comprensibile solo dopo avere letto il libro “Israel and the bomb” di Avner Cohen, pubblicato nel 1998. Lo studio attento svolto dall’autore, basato su documenti fino ad allora inediti, ha contribuito a fornire notizie storiche di immenso valore.

Nel suo libro Cohen conferma che Israele già negli anni Cinquanta sviluppò un programma per realizzare armi nucleari. Il progetto prese avvio nel 1955 per volontà di Ben Gurion, convinto che il possesso dell’arma atomica fosse vitale per garantire la sicurezza del suo Stato. Per l’avvio del programma fu decisivo l’accordo siglato con gli Usa il 12 luglio 1955, in base al quale Washington si impegnava a sostenere i piani israeliani nell’ambito dell’iniziativa “Atoms for peace”, lanciata dal presidente Eisenhower l’anno precedente. Dopo la crisi di Suez del 1956 il rapporto tra Usa e Israele conobbe un brusco raffreddamento. Di conseguenza Washington bloccò gli aiuti per l’avanzamento della ricerca nucleare.

Israele riuscì ugualmente a portare avanti il programma grazie al sostegno di un’altra grande potenza occidentale: la Francia. Col supporto di scienziati e tecnici francesi fu iniziata nel 1958 la costruzione del reattore di Dimona, nel sud del paese. Ben Gurion affidò il coordinamento dell’iniziativa a Shimon Peres, giovane direttore generale del ministero della Difesa. Ben Gurion e Peres percorsero con convinzione la via della collaborazione privilegiata con la Francia a discapito della intesa con gli Usa. Parigi divenne la principale fornitrice di armi a Tel Aviv. L’aeronautica militare israeliana poté contare sui sofisticati modelli di aerei da combattimento di produzione francese: Mirages, Mystères, Ouragan.

Gli americani, tenuti all’oscuro delle reali funzioni della centrale di Dimona, vennero a conoscenza della capacità nucleare israeliana solo nel dicembre 1960, quasi tre anni dopo l’inizio dei lavori. Solo la testimonianza di Henry Gomberg (fisico nucleare docente all’università del Michigan nonché consulente della Commissione Israeliana per l’energia atomica) mise la Cia al corrente dei progressi compiuti dallo Stato ebraico in materia di ricerca nucleare. Le amministrazioni americane – prima Eisenhower poi Kennedy – reagirono con durezza ma Israele andò avanti nel suo progetto, forte del pieno appoggio francese.

Conoscendo con esattezza questa pagina di storia si capisce perché molte potenze hanno interesse a non indagare sullo sviluppo di quello che fu chiamato il “Progetto Dimona”. La Francia, che dopo il 1967 divenne ottima amica del mondo arabo, si troverebbe in grosso imbarazzo in caso di pubblicazione dei documenti di archivio. Parigi adotta da sempre una tattica difensiva sul Medio Oriente, badando a evitare la diffusione di atti compromettenti. Non a caso, solo per i fatti accaduti nella regione viene posto un limite speciale (sessanta anni) per poter accedere ai documenti dell’archivio francese. Una disposizione restrittiva, che evidenzia il timore di svelare retroscena imbarazzanti.

Gli Usa, da parte loro, non hanno alcun interesse ad approfondire la materia, poiché dopo il 1967 hanno fornito a Israele supporto politico, economico e tecnologico. Il tema del programma nucleare di Israele, che pure sarebbe argomento di grande attualità, non ha mai scatenato battaglie politiche di particolare gravità. L’opinione pubblica mondiale se ne è ricordata solo di recente, quando è stato scarcerato Mordechai Vanunu, il tecnico israeliano che svelò i segreti di Dimona.

La questione è troppo compromettente per essere affrontata e così Israele, certo della neutralità benevola da parte della Francia, sa bene che potrà continuare la sua ricerca in materia atomica. Lo Stato ebraico è cosciente che potrà beneficiare di una sorta di deroga speciale rispetto ad altri Stati del Medio Oriente, che si vedono bloccati nello sviluppo del programma nucleare.

Non intendiamo esprimere alcun giudizio di merito su tale delicato argomento. Lo Stato ebraico può avere tutte le ragioni per affermare che il progetto nucleare è decisivo per garantire la sicurezza. Crediamo soltanto che all’opinione pubblica mondiale si dovrebbero raccontare con esattezza i fatti storici. Si dovrebbe semplicemente ammettere che Israele ha avviato il programma atomico fin dagli anni Cinquanta.


http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Febbraio-1999/

pagina.php?cosa=9902lm12.01.html&titolo=Israele%20esce%20dall’ambiguit%C3%A0%20nucleare

Disarmo o proliferazione?

Israele esce dall’ambiguità nucleare

Il prossimo 17 maggio gli israeliani saranno chiamati alle urne per decidere della sorte di Benyamin Netanyahu e dell’avvenire dei negoziati israelo-palestinesi. Più generalmente, gli elettori dovranno pronunciarsi sulla collocazione di Israele in Medioriente: integrarsi pacificamente nella regione o, al contrario, restare una”fortezza assediata”? Il mantenimento e lo sviluppo di un armamento nucleare potente hanno simbolizzato finora questa seconda opzione. Ma nel momento in cui, dall’Iran all’Egitto, passando per l’Iraq, si assiste alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, questa scelta potrebbe rivelarsi catastrofica.

di Amnon Kapeliouk*

Gli esperimenti nucleari condotti dai due giganti asiatici, il Pakistan e l’India, hanno fatto volgere lo sguardo di tutti verso Israele, considerato come una potenza nucleare a pieno titolo la sesta per ordine d’importanza anche se teoricamente”non dichiarata”. Tuttavia, la persistente ambiguità del governo israeliano a proposito della”bomba ebraica” si va via via sciogliendo e non si tratta più ora di chiedersi se Israele possiede armi nucleari ma quale posto tale arsenale occupa nella sua strategia regionale. In Israele le autorità usano sempre il condizionale per parlare della bomba o di armi chimiche e biologiche. Parlano dell'”opzione nucleare” e ripetono fino alla nausea che”Israele non introdurrà per primo le armi nucleari in Medioriente”, pur aggiungendo che”lo stato ebraico non sarà neanche il secondo a farlo”… e lasciando a tutti il compito di indovinare il significato di queste parole enigmatiche. Questa ambiguità non è scomparsa nemmeno dopo le allarmanti rivelazioni di un tecnico israeliano che aveva lavorato nella sezione in cui viene prodotto il plutonio alla centrale nucleare di Dimona (nel Negev). Dopo le rivelazioni di Mordechai Vanunu sul Sunday Times, ricercatori ed esperti valutarono che Israele possedeva effettivamente da 100 a 200 bombe atomiche, comprese quelle termonucleari e a neutroni (1). Vanunu sarebbe poi stato prelevato dai servizi segreti israeliani in Italia e condannato a diciott’anni di detenzione. Come ha dichiarato nel corso del processo, egli intendeva allertare l’opinione pubblica israeliana ma quest’ultima non ha voluto recepire il messaggio e ha preferito considerarlo un traditore. In Israele il nucleare rimane uno degli ultimi tabù. Vari miti sono crollati”la purezza delle armi di Tsahal”,”Il Mossad, migliore servizio segreto del mondo”, l’occupazione”dal volto umano” della Cisgiordania e di Gaza, etc.Varie istituzioni si sono banalizzate come l’Histadrout, diventato in realtà un sindacato-padrone, o il kibbutz, che non è più sinonimo di uguaglianza. In compenso, un consenso incrollabile permane nel campo del nucleare e si va rafforzando lungo gli anni: il 92% degli israeliani sostiene oggi che il paese deve dotarsi di armi nucleari contro il 78% nel 1987; l’80% ne accetta l’uso in determinate circostanze, contro il 36% nel 1987; il 67% approva la politica di ambiguità in materia contro il 78% nel 1987 (2). Tale consenso si verifica mentre le armi nucleari e le sue molteplici implicazioni strategiche, politiche ed economiche, ambientali e morali non sono mai state oggetto di pubblico dibattito. Il governo non si è mai pronunciato chiaramente e nessuno fra i grandi partiti politici ha affrontato questo argomento, nemmeno durante le campagne elettorali. I deputati hanno deliberatamente rinunciato al proprio diritto di intervento e di controllo. Neanche la distruzione della centrale nucleare di Osirak, vicino a Baghdad, nel 1981, da parte dell’aviazione israeliana ha suscitato la minima controversia. Chi decide di questa politica? Come sono trattati i rifiuti?
Quali sono i problemi di sicurezza legati all’uso di un reattore vecchio di quarant’anni? Sono davvero necessari tutti gli ordigni nucleari di cui disporrebbe Israele secondo la stampa internazionale e i ricercatori? Sono domande che una docile opinione pubblica non si pone e alle quali il potere si guarda bene dal fornire la minima risposta. Ambiguità e vaghezza s’impongono lasciando mano libera al governo ma esponendolo a pressioni pericolose in occasione di crisi regionali.
Soprattutto quando l’esecutivo è guidato da ultra-nazionalisti quali Benyamin Netanyahu o Ariel Sharon. Soltanto una minuscola frangia dell’opinione pubblica raccomanda la denuclearizzazione. Per i governi, questa sarà concepibile solo vent’anni dopo l’avvio di una pace duratura fra tutti gli stati della regione, dal Pakistan alla Libia, dopo la distruzione di tutte le armi di annientamento di massa e… dopo l’avvio della democrazia ovunque nella regione. Il controllo dovrà essere effettuato dagli stessi paesi interessati, con ampie possibilità di reciproca ispezione. In altre parole, il governo israeliano rimanda la soluzione del problema alle calende greche e respinge gli appelli dei paesi arabi, in particolare dell’Egitto, in vista dell’adesione al trattato di non proliferazione nucleare (Tnp). Gli esperimenti nucleari pakistani compiuti nel 1998 in risposta a quelli indiani, non hanno destato particolari preoccupazioni in Israele. L’ingresso di un paese musulmano nel”club” delle potenze nucleari legittima lo stato ebraico e la moderazione con cui gli Stati uniti hanno reagito a questi sviluppi ha rassicurato i responsabili. Il fondatore dello stato, David Ben Gurion, che non credeva nella pace con i vicini arabi, aveva deciso durante la prima guerra israelo-araba nel 1948 di esplorare l’opzione nucleare.
Chiese ai geologi di trovare l’uranio nel Negev ma le quantità reperite erano insignificanti per le esigenze della centrale di Dimona, la cui costruzione iniziò nel 1958. L’uranio verrà per la maggior parte dal Sudafrica, dove era allora al potere il regime dell’apartheid. Nel 1952, Ben Gurion creò il Comitato per l’energia atomica, i cui membri si dimisero in maggioranza quando seppero, nel 1957, che Israele aveva firmato con il primo ministro francese Guy Mollet un accordo in vista della costruzione”a fini militari” del reattore di Dimona. Nel 1960, un aereo americano di ricognizione U2 scopre che ciò che si sta costruendo a Dimona non è uno”stabilimento tessile”, come pretendevano gli israeliani, ma un reattore nucleare. Sebbene Ben Gurion assicuri immediatamente davanti ai deputati che si tratta di una centrale con obiettivi esclusivamente pacifici, scoppia una grave crisi nelle relazioni fra Israele e gli Stati uniti. Nel 1963, il presidente John Kennedy esercita forti pressioni per imporre una visita di esperti americani a Dimona. Ben Gurion, che è contrario il reattore è già in funzione preferisce dare le dimissioni piuttosto che cedere alle pressioni della Casa bianca. I suoi successori, Levy Eshkol e Golda Meòr, autorizzano alcune visite con delle restrizioni l’ultima si svolse nel luglio 1969. Un anno prima, il direttore della Cia aveva informato il presidente Johnson:”Israele è una potenza nucleare a tutti gli effetti”. Nel 1969 il presidente Johnson e il primo ministro Golda Meòr giungono a un accordo: Washington non farà più pressioni per indurre lo stato ebraico a firmare il Tnp a condizione che Israele s’impegni a mantenere scrupolosamente l’ambiguità sulle sue attività nucleari. Questi impegni saranno rispettati da entrambe le parti. Al momento della sua più severa prova militare, la guerra dell’ottobre 1973, secondo fonti concordanti Israele ha segretamente posto in stato di allarme parte del suo arsenale atomico. Anche nel corso della guerra del Golfo, nel 1991, dodici missili del tipo Gerico 2 (con una portata di 1.500 km) furono messi in stato d’allerta. Ma l’avvertimento pubblico nei confronti dell’Iraq fu lanciato dal segretario americano alla difesa Richard Cheney che evocò sulla Cnn il possibile uso, da parte di Israele, di queste armi non convenzionali se Baghdad avesse utilizzato missili con testate chimiche contro lo stato ebraico. Washington dispone di mezzi di pressione su Israele. Nell’agosto 1998, lo stato israeliano ha cessato di opporsi all’apertura di negoziati in vista di un trattato sull’arresto delle produzioni di materiali fissili (uranio, plutonio) che congelerebbe la capacità dei paesi firmatari. Israele sarebbe stato l’ultimo dei sessantuno stati membri della commissione di disarmo dell’Onu ad esservisi opposto. Come contropartita a questa sua accettazione, gli Stati uniti hanno promesso di appoggiare Israele nel caso in cui i suoi”interessi vitali” fossero minacciati. Questo trattato dovrebbe sfociare nell’apertura di Dimona (3) agli ispettori internazionali, ma il rappresentante israeliano ai negoziati di Ginevra, l’ambasciatore Joseph Lamdan, ha rassicurato gli spiriti inquieti:”I lavori della commissione sul trattato si protrarranno per almeno cinque anni”… Altri hanno aggiunto:”Si può sempre tornare indietro (4)“.
Due mesi dopo, il 23 ottobre 1998, in margine all’accordo israelo-palestinese di Wye Plantation, il presidente degli Stati uniti e il primo ministro israeliano hanno firmato un importante memorandum che prevede il”rafforzamento della capacità difensiva e dissuasiva d’Israele”. Gli esperti hanno spiegato che la formula impiegata riconferma l’accordo pubblico degli Stati uniti con la dissuasione strategica”ambigua” di Israele (5), accordo reso possibile dal fallimento degli sforzi di Washington per porre termine alla diffusione dei missili balistici nella regione. L’ambiguità è una componente della difesa nazionale del paese, e il suo compito è essenzialmente dissuasivo, accanto a un esercito forte e ad armi ultramoderne. Essa fu rispettata nel corso degli anni, tranne in alcuni casi. Ad esempio, dopo la guerra dell’ottobre 1973, il presidente Ephraim Katzir dichiarava:”Israele possiede un potenziale nucleare”. Quando diventò primo ministro in seguito all’assassinio di Yitzhak Rabin, Shimon Peres, il padre della bomba, si rivolse al mondo arabo:”Datemi la pace e io rinuncio al nucleare (6)“. Nel suo libro, Il nuovo Medioriente, si allontana dalla posizione ufficiale israeliana e afferma che la centrale di Dimona è stata costruita a scopo dissuasivo. Sebbene i paesi arabi siano consapevoli delle potenzialità israeliane, la politica della vaghezza affievolisce la loro determinazione di procurarsi l’arma atomica. D’altro canto, una dichiarazione che riconosca che Israele possiede la bomba rischierebbe di provocare sanzioni e il blocco degli aiuti economici e militari degli Stati uniti, in conformità all’emendamento Symington del 1977 (7). Il memorandum strategico israelo-americano dell’ottobre scorso tendeva a rassicurare Israele, preoccupato dalla presenza di missili iraniani a lungo raggio e dall’intenzione di Tehran di fabbricare armi nucleari. Queste informazioni sono state amplificate dalla stampa israeliana, anche se gli esperti americani ed europei assicurano che ci vorrà ancora molto tempo prima che la Repubblica islamica possa disporre di una capacità nucleare. Ciononostante, certi”falchi” come il deputato laburista Ephraòm Sneh hanno già lanciato appelli a favore di un”colpo preventivo contro l’Iran (8)“. Si tratterebbe di applicare”la dottrina Begin” attuata durante il bombardamento di Osirak in Iraq: impedire la produzione della bomba nucleare a tutti i paesi del Medioriente. Ma, forte della lezione del raid, l’Iran ha disperso le sue istallazioni nucleari nel paese e in rifugi sotterranei. Parallelamente, Israele sta predisponendo, con i sommergibili, i mezzi per il”secondo colpo” che è alla base dell’equilibrio nucleare della dissuasione. All’inizio del 1999, la marina militare israeliana riceverà il primo sommergibile di tipo Delfino costruito nei cantieri di Kiel in Germania (9). Finora, la forza d’urto israeliana era composta di missili terra-terra e di bombardieri.
Israele aveva davvero bisogno di un arsenale nucleare per dissuadere i paesi arabi ed evitare l’annientamento? Si sa adesso con certezza che mai, dal 1948, i paesi arabi hanno avuto questa possibilità. La capacità nucleare di Israele non ha dunque svolto alcuna funzione dissuasiva, come si è visto del resto con la guerra dell’ottobre 1973. Il monopolio nucleare israeliano non potrà durare in eterno e la proliferazione delle armi non convenzionali in Medioriente costituisce una minaccia per la pace. Di fronte a questo equilibrio della paura, il dibattito sulla denuclearizzazione deve essere avviato all’interno di Israele la cui opinione pubblica è male informata, e parallelamente con gli altri paesi della regione. Ma questo processo richiede un pensiero politico nuovo e un diverso potere in Israele. All’indomani della guerra del Golfo, David Kay, capo della delegazione degli ispettori nucleari dell’Onu in Irak, esprimeva un augurio alla presenza di un giornalista israeliano:”Le rivelazioni degli ispettori dell’Onu in Iraq devono fare capire a Israele e ad altri paesi che occorre fermare la corsa agli armamenti nucleari e giungere a un accordo di denuclearizzazione, che includa Israele. Mi auguro che Israele apra le sue porte agli ispettori dell’Onu. Spero proprio che sia questo il mio prossimo compito, dopo l’Iraq (10)“.

note:
* Giornalista, Gerusalemme.
(1) Sunday Times, Londra, 5 ottobre 1986.
(2) Strategic Assessment, n&oord 3, Jaffee Center for Strategic Studies, Università di Tel-Aviv, novembre 1998.
(3) Haaretz, 2 ottobre 1998, che cita Guideon Frank, presidente del Comitato per l’ energia atomica di Israele.
(4) Maariv, 12 agosto 1998.
(5) Haaretz, Tel-Aviv, 3 novembre 1998.
(6) Jerusalem Post, Gerusalemme, 24 dicembre 1995.
(7) L’emendamento Symington (1976) sancisce il blocco dell’aiuto militare nei confronti di ogni paese che importi o esporti attrezzature o tecnologie nucleari di ritrattamento o arricchimento.
(8) Titolo a caratteri cubitali sulla prima pagina di Yedioth Aharonoth del 27 settembre 1998.
(9) Los Angeles Times, 9 giugno 1998. Lo stesso giorno usciva su Haaretz un articolo analogo scritto dal giornalista israeliano Yossi Melman, con il titolo”I sottomarini israeliani del tipo Delfino introdurranno una nuova dimensione nucleare in Medioriente”.
(10) Yedioth Aharonoth, 4 ottobre 1991. (Traduzione di M.G.G.)


http://www.intermarx.com/ossinter/recLorentz.html

Dominique Lorentz, 

Affaires Atomiques

Les Arènes, Parigi, 2001

Questo è decisamente un libro da leggere! L’autrice riscrive letteralmente (ma non certo nella filosofia di Baldassarre!) la storia dell’ultimo mezzo secolo alla luce degli “affari nucleari”, pilotati dagli Stati Uniti, tra manovre losche e tortuose, triangolazioni, alleanze segrete e ricatti di ogni tipo, tra i quali l’esplosione del terrorismo islamico.
Tutta la storiografia esistente, compresa la più autorevole, ha interpretato la storia della Guerra Fredda alla luce del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (TNP): Dominique Lorentz rovescia completamente questa interpretazione e propone una lettura assai più convincente delle vicende internazionali, la quale approda ad un quadro della situazione presente enormemente più limpida (se “limpidi” si possono chiamare i giochi sporchi tramati in tutti questi decenni dalla Casa Bianca in combutta con i loro mandatari, in primis Israele e la Francia, ma in secondo luogo Germania Federale, Argentina, Canada, Sud Africa, Cina, Brasile, Pakistan, ed altri). L’asse conduttore delle relazioni mondiali del secondo dopoguerra diventa così la proliferazione nucleare, e il TNP la copertura per questi disegni, uno “specchietto per le allodole, coperto ed avallato dai benevoli e complici controlli dell’Agenzia per l’Energia Atomica” (pp. 37-8). Del resto, le tecnologie nucleari sono per loro natura intrinsecamente “duali”, cioè adatte per fini sia civili che militari, ed è impossibile tracciare una distinzione netta tra queste due valenze: i paesi che si sono materialmente dotati di armi nucleari lo hanno sempre fatto dietro la copertura di un programma nucleare “civile”. E questo ha dotato del know how necessario per fabbricare la bomba anche quei paesi che non l’hanno realmente costruita (come potrebbero essere la Germania e il Giappone), ma potrebbero chiaramente farlo immediatamente (qualora, come appare più probabile, non l’abbiano già testata nelle collaborazioni fornite a paesi nucleari): come avrebbero, altrimenti, paesi come la Germania Federale o l’Argentina potuto fornire ad altri paesi impianti di arricchimento o di ritrattamento, con inequivocabile valenza militare?
Gli “affari nucleari” sono stati condotti dietro le quinte, eludendo le leggi e i controlli ufficiali, all’insaputa o contro la volontà dei Parlamenti: gli stessi deputati e senatori americani sono stati sistematicamente ingannati dalla Casa Bianca, o tenuti all’oscuro, sulla natura dei commerci nucleari e sugli impegni ufficiali dei partner di sviluppare solo programmi “civili (alcuni esempi pp. 48, 77, 304-19, 340-6, 351-3, 480, 486, 512); e quando non è stato possibile aggirare le leggi americane, si è ricorsi all’intervento di altri paesi, i quali hanno commercializzato impianti su licenza americana. Questi affari si svolgevano spesso in contrasto con le relazioni ufficiali, o apparenti: un esempio eclatante è costituito dalla Cina, il cui accesso agli armamenti nucleari è stato voluto dalla Casa Bianca appoggiandosi alla Francia, e che poi è stata utilizzata a sua volta per proseguire le forniture nucleari all,Iran, oltre che al Pakistan, ma sorprendentemente anche al nemico regionale indiano (pp. 354, 510); l’Iraq è un altro esempio significativo, se si pensa che appena dieci mesi prima della guerra del Golfo furono intercettati all’aeroporto di Londra 41 detonatori nucleari di fabbricazione americana destinati a Baghdad (p. 332).
L’aspetto più sorprendente del libro è che l’autrice non è giunta a questa ricostruzione attraverso l’esame di chissà quali documenti segreti, o desecretati recentemente. Le sue fonti sono sempre state alla portata di chiunque volesse leggere veramente i fatti (e in questo senso tutti dovremmo in un certo senso fare autocritica): gli articoli ed i commenti apparsi regolarmente su Le Monde; le memorie pubblicate dai personaggi che hanno deciso le sorti del mondo intessendo e reggendo questi intrighi, Truman, Eisenhower, Kissinger, de Gaulle, il suo ministro Alain Peyrefitte, Shimon Peres, Giscard d,Estaing, lo Scià di Persia Reza Pahlevi; saggi e storie “ufficiali” del nucleare scritte da autorevoli personaggi che ne hanno retto le sorti (tra i quali Goldshmidt, direttore delle relazioni internazionali del Commissariat à l’Énergie Atomique francese; Le Guelte, aggiunto alla stessa direzione; Girard, vicepresidente di Framatome e di Techniatome; un’opera collettiva diretta da Paul-Marie de la Gorce), le memorie pubblicate da dirigenti di Servizi Segreti, saggi sulle relazioni internazionali e il terrorismo. Dominique Lorentz ha semplicemente (si fa per dire) fatto una lettura attenta, critica e soprattutto incrociata, registrando resoconti e dichiarazioni espliciti e inequivocabili curiosamente passati sotto silenzio dagli storici, svelando le contraddizioni, le mistificazioni dei fatti consegnate alla storia da alcuni protagonisti per coprire gli scacchi o le manovre losche. Il solo appunto che farei all’autrice è di avere fatto le numerosissime citazioni e gli abbondantissimi rimandi alle opere ed agli articoli senza citare la pagina.
Questa ricostruzione della storia recente in termini di proliferazione nucleare è un saggio voluminoso, ma costituisce una lettura lineare ed avvincente, oltre che convincente: non è forse del tutto immune da alcune ingenuità o semplificazioni eccessive, rimangono ancora molti nessi da chiarire, ma la logica complessiva e la documentazione su cui si basa sembrano difficilmente attaccabili. Si spiegano anzi in modo molto più logico molti momenti cruciali delle vicende di questi decenni. Sembra incredibile, ad esempio, che di solito non si sia osservato che molti dei paesi che hanno voluto far credere di volere sviluppare un programma nucleare per fini civili siano tra i maggiori produttori mondiali di petrolio e gas naturale, o comunque ben lontani dall’avere qualsivoglia preoccupazione di tipo energetico! Del resto, quasi tutti gli accordi e i trattati di cooperazione nucleare siglati dagli Stati Uniti, o dai loro mandatari, non contemplavano solo la fornitura di reattori nucleari, ma anche di impianti di ritrattamento del combustibile esaurito (dal quale notoriamente si estrae il plutonio, che costituisce l’esplosivo nucleare per eccellenza) e/o di impianti di arricchimento dell’uranio: impianti la cui vocazione militare è evidente! Del resto, non occorre un’eccessiva perspicacia, dato che lo stesso CTBT (Comprehensive Test Ban Treaty) e l’ONU riconoscono ufficialmente che ben 44 paesi “dispongono delle capacità tecniche per sviluppare un armamento atomico” (Le Monde, 15/10/99; si veda la mappa alle pp. 24-25 del libro). Almeno i 35 paesi con l’asterisco hanno avuto la tecnologia, direttamente o indirettamente, da Washington: Algeria*, Argentina*, Australia*, Austria*, Bangladesh*, Belgio*, Brasile*, Bulgaria, Canada*, Cile*, Cina*, Colombia*, Corea del Nord, Corea del Sud*, Egitto*, Finlandia*, Francia*, Gran Bretagna*, Germania*, Giappone*, India*, Indonesia*, Iran*, Israele*, Italia*, Messico*, Norvegia*, Olanda*, Pakistan*, Peru*, Polonia, Repubblica del Congo*, Romania, Russia, Slovacchia, Spagna*, Stati Uniti*, Sud Africa*, Svezia*, Svizzera*, Turchia*, Ucraina, Ungheria, Vietnam.
Nel 1976 l’autorevole Le Monde rilevava che “se il TNP (proibiva) il possesso di armi nucleari, non impediva di percorrere tranquillamente tutto il cammino che conduce ad esse, e questo fino agli ultimi cinque minuti” (12/08/76); e denunciava l’evidenza che “la proliferazione delle centrali nucleari, degli impianti di arricchimento dell’uranio e delle installazioni di ritrattamento del combustibile provocherà, senza alcun dubbio, la proliferazione delle armi nucleari” (8.9.10/06/75). Del resto le autorità indiane hanno candidamente dichiarato allo stesso Le Monde che il TNP “costituisce più un trattato di proliferazione nucleare che di non-proliferazione” (16/05/98).
Questa storia comincia subito al finire del secondo conflitto mondiale. Gli Stati Uniti decidono, per i propri disegni geopolitici, che una serie di stati devono essere dotati di armamenti nucleari, ma non possono farlo alla luce del sole. Questa politica è risultata decisiva nello sviluppo degli avvenimenti e delle relazioni mondiali, e chiarisce molti punti oscuri nelle ricostruzioni storiche ufficiali. Non sempre l’intenzione di Washington è giunta a buon fine; a volte è cambiata a causa degli sviluppi delle relazioni con i paesi designati. Spesso, come dicevamo, ha condotto i paesi all’acquisizione del know how per la fabbricazione delle armi nucleari, o alla loro sperimentazione nell’ambito delle collaborazioni nucleari con altri paesi, anche se esse non sono state materialmente realizzate (ad esempio, la Germania Federale e il Giappone hanno la proibizione di dotarsi di questi armamenti, anche se possono farlo in brevissimo tempo: è ben nota la polemica sul Giappone, che ritratta il combustibile esaurito delle sue centrali in Gran Bretagna e dispone di ingenti quantitativi di plutonio, il cui trasporto viene puntualmente contestato da Amnesty International; la Germania ritratta il proprio combustibile in Francia, e se anche non dispone di testate nucleari, questo non le ha impedito di collaborare alla loro realizzazione e sperimentazione in altri paesi).
Tra i fisici che avevano lavorato al “Progetto Manhattan” vi era un’altissima percentuale di ebrei, in maggioranza fuggiti dai paesi nazisti e fascisti: il neonato stato di Israele disponeva dunque di tutte le conoscenze necessarie a realizzare armi nucleari, ma non delle necessarie strutture industriali. La Gran Bretagna, che aveva partecipato al programma nucleare americano durante la guerra, era autorizzata ad avere la bomba, ma non poteva svolgere nessun commercio nucleare con stati terzi. La prima operazione pilotata dagli Stati Uniti consistette allora in una collaborazione sinergica, quanto segreta, in cui, con un accordo di cooperazione del 1952, i fisici israeliani realizzarono l’armamento nucleare francese (la force de frappe non fu affatto un’invenzione di de Gaulle, Washington fornì l’esplosivo nucleare) e la Francia, con l’accordo di reciprocità del 1956, dotò poi Israele delle capacità necessarie a realizzarlo a sua volta, usufruendo direttamente dei test nucleari francesi nel Sahara del 1960 (i parametri della bomba furono calcolati dai fisici israeliani con un computer americano, p. 167). Risulta davvero sorprendente che fino a non molti anni fa si sia parlato dell’arsenale israeliano come ipotetico, quando la sua realizzazione era ben nota sul finire degli anni 60. L’autorevole e insospettabile Le Guelte, che abbiamo citato, scrive a p. 40 della sua memoria del 1997 “La Francia … (diede) nel più grande segreto il suo aiuto a Israele … per la realizzazione a Dimona di un grande reattore di ricerca … e di un impianto di ritrattamento” (p. 153). De Gaulle ha sempre fatto credere di avere interrotto ogni collaborazione nucleare con Israele quando giunse al governo, ma l’autrice smaschera acutamente questa fandonia (egli non poteva farlo per la semplicissima ragione che il programma nucleare francese dipendeva da Israele). Alain Peyrefitte riporta un’esclamazione del Generale “Israele ha la sua bomba; anche se non l’ha testata, la possiede; e siamo noi che gliela abbiamo fornita!”, datandola al 1963, mentre l’autrice appura che deve essere stata successiva (p. 150: l’impianto israeliano cominciò a produrre plutonio nel 1965). Le ricognizioni sovietiche rivelarono immediatamente gli enormi lavori a Dimona; il 18 luglio 1960 ne parlò esplicitamente il New York Times (p. 175). Del resto, nel 1981 il Ministro degli Esteri iracheno, dopo il raid israeliano sulla centrale che i francesi costruivano a Tamouz, dichiarò davanti all’Assemblea dell,ONU: “Nel 1953 (Israele) concluse un accordo di cooperazione nucleare con la Francia … Nel 1956 si decise di costruire un reattore ultra-segreto a Dimona … Nel 1964 il reattore entrò in funzione con … una produzione che poteva raggiungere tra 5 e 7 kg di plutonio all’anno … Si deve notare che il reattore di Dimona è stato ottenuto dalla Francia” (pp. 142-3; anche pp. 187-88: si osservi che Israele ordinò missili destinati ad essere dotati di testata nucleare all’impresa francese Marcel Dassault). L’acquisizione da parte di Israele della bomba H può venire fissato senza errore al 1968, quando avvennero i primi test termonucleari francesi (p. 203).
La nuclearizzazione della Francia doveva costituire una difesa dell’Europa Occidentale contro la pretesa superiorità convenzionale del Blocco di Varsavia, e doveva coprire anche la nuclearizzazione della Germania Federale, che non è poi stata realizzata materialmente. L’autrice smaschera puntigliosamente la pretesa “grandeur” di de Gaulle: formalmente la Francia uscì dalla NATO, ma non ruppe mai con Washington, ed anzi divenne il principale esportatore delle tecnologie nucleari americane della Westinghouse (che ha detenuto il 45 % delle azioni di Framatom fino al 1975), essendo la Casa Bianca fortemente condizionati dalle proprie leggi e dal controllo del Congresso. [Chi scrive era in Francia nel 1971 e ricorda le accese polemiche per la decisione di abbandonare le tecnologie nucleari che, almeno apparentemente, il paese aveva sviluppato, per ripiegare interamente sulla filiera americana per il programma “civile” francese]
Quando, nel 1963, divenne difficile nascondere la collaborazione franco-israeliana, gli americani decisero di proseguirla in un paese terzo, il Sud Africa, a cui Washington aveva già fornito un reattore di ricerca, ma con cui non poteva proseguire la collaborazione fino alla realizzazione della bomba H alla luce del sole. Si sviluppò così il programma nucleare militare sud-africano: Pretoria divenne il principale fornitore di uranio di Israele e della Germania Federale. Quest’ultima aveva appreso così bene la lezione (a dispetto dei divieti ufficiali) che venne incaricata a sua volta di altre collaborazioni nucleari, in particolare con l’Argentina. Negli anni 90 il Sud Africa ha smantellato le proprie testate nucleari, ma non ha certo smantellato i cervelli degli scienziati e dei tecnici che ne detengono il know how.
La crisi di Berlino del 1961 fu motivata anche dall,opposizione dell,URSS alla nuclearizzazione della Germania Federale, che Washington voleva come sbarramento verso Est. Per questo aveva dislocato missili nucleari in Turchia. Il dispiegamento dei missili nucleari sovietici a Cuba nel 1962 ristabiliva un equilibrio: la crisi apparentemente superata grazie alla fermezza di Kennedy, segnò in realtà la vittoria di Kruscev, il quale ottenne lo smantellamento di tutte le basi nucleari delle due super-potenze in paesi stranieri (Capitolo 3).
Il libro ricostruisce puntigliosamente la storia e le vicende, spesso contorte, dei progetti nucleari voluti da Washington e realizzati attraverso i suoi partner: dopo il conflitto sino-indiano del 1962 fu la volta dell’India (il test del 1974 era addirittura una bomba H, ed era stata fornita dagli USA, p. 267); poi dell’Argentina (a cui i tedeschi avevano venduto un reattore di potenza nel 1968, mentre un piccolo impianto di estrazione del plutonio entrò in funzione verso il 1970, p. 249), del Brasile della dittatura militare; poi della Cina, dell’Egitto, dell’Iraq, dell’Iran. “Così, la logica infernale della dissuasione nucleare conduceva gli Americani a dotare l’India della bomba atomica perché non fosse minacciata dalla Cina; a fornire un’arma nucleare al Pakistan perché si proteggesse dall’Afganistan; a rafforzare il potenziale nucleare della Cina perché non fosse aggredita dai sovietici; a fornire la bomba atomica a Taiwan per bilanciare la potenza della Cina; a fornirla al Giappone per proteggerlo dalla Cina, dalla Corea del Sud e dalla Corea del Nord; a fornirla alla Corea del Sud per metterla al riparo dalla Corea del Nord” (pp. 169-70). È veramente il corollario della strategia ossessiva e proterva di Washington!
Molto interessante è la ricostruzione documentata della guerra del Kippour del 1973 (Capitolo 8), dove Nixon aveva architettato una complessa tattica per riequilibrare i poteri in Medio Oriente: l’Egitto, armato da Washington (che voleva fornirgli anche la bomba atomica), doveva attaccare di sorpresa, prendendo alla sprovvista Israele: quest’ultimo si trovò effettivamente all’inizio a mal partito, finché non indusse Washington a rifornirla di ingenti armamenti con un gigantesco ponte aereo, brandendo la minaccia di una risposta nucleare. Fu così che si rovesciarono le sorti del conflitto.
La Francia (che non aderiva al NPT) partecipò al programma nucleare del Pakistan dal 1976, così come a quello dell’Iraq e dell’Iran.
Data la drammatica attualità dell’Iraq, vale la pena ricordare che fin dagli anni ’80 (quando lo stesso regime di oggi faceva comodo per la guerra all’Iran e non faceva ancora parte dell’asse del male) Washington e i suoi accoliti hanno fatto di tutto per fornirgli tutte le armi di distruzione di massa. La Francia costruiva il reattore Osirak a Tamouz, che proprio per questo Israele bombardò nel 1981 (dopo averlo addirittura ancor prima boicottato in territorio francese); La Francia ne riprese la costruzione; già nel 1980 Parigi aveva fornito a Baghdad un primo quantitativo di 12 kg di uranio altamente arricchito; la tecnologia della centrifugazione per l’arricchimento dell’uranio è di origine tedesca, e veniva collaudata dai nazisti già durante la seconda guerra mondiale; Saddam fu armato in funzione anti-ayatollah negli anni 80 (la lunga, sanguinosa, inutile, dimenticata guerra tra Iraq e Iran) da Washington e dai suoi accoliti, i quali gli fornirono evidentemente anche le tecnologie per gli aggressivi chimici che usò contro gli iraniani ed i kurdi (come denunciò lo stesso New York Times il 18.0.02, smentito dal Dipartimento di Stato con parole “impubblicabili”); Washington gli fornì anche le armi batteriologiche, come l’antrace e il botulino (come provano documenti a disposizione del Congresso); appena dieci mesi prima della guerra del Golfo furono intercettati all’aeroporto di Londra 41 detonatori nucleari di fabbricazione americana destinati a Baghdad.
I corposi capitoli finali del libro ricostruiscono la storia veramente tortuosa e complessa degli “affari nucleari con l’Iran. Lo Scià aveva contrattato con gli USA e la Francia un ambizioso programma nucleare e l’Iran era entrato con il 10 % di capitale nel consorzio europeo Eurodif di arricchimento dell,uranio: ma le pretese egemoniche avevano reso lo Scià scomodo a Washington, che insieme a Parigi preparò il suo rovesciamento. Fu allora che la CIA scelse di giocare la carta dell’islamismo radicale dei mullah contro il comunismo e le correnti laiche alleate dell’URSS: subito dopo la firma degli accordi di Camp David, Khomeiny, allora un oscuro personaggio, fu portato a Parigi per venire formato e lanciato politicamente. Ma l’illusione di Carter di poterlo controllare e manovrare durò poco: si aprì così uno dei decenni più convulsi ed intricati del dopoguerra, che non è possibile sintetizzare in poche righe. Dalla vicenda degli ostaggi americani del 1979 come pressione di Teheran per la ripresa delle forniture militari e del programma nucleare, alla disastrosa operazione per liberarli che segnò la fine di Carter, all’Irangate, alla guerra Iraq-Iran voluta da Washington, alla terribile serie di attentati della Jihad che dal 1984 al 1990 ebbe come retroscena il rispetto da parte della Francia dei precedenti accordi nucleari, la questione nucleare rivestì un ruolo centrale. Come aveva giocato Reagan contro Carter, Khomeiny giocò poi Chirac contro Mitterrand, finché nel 1991 Parigi sottoscrisse l’accordo che confermava l’azionariato di Teheran in Eurodif ed il corrispondente diritto di ritirare la quota corrispondente di uranio arricchito (pp. 536-40). Quello che vale la pena di sottolineare è come la Casa Bianca abbia voluto la prosecuzione del programma nucleare di un paese che al tempo stesso denunciava come appartenente all'”asse del male”: la versione ufficiale secondo cui dal 1979 gli USA avrebbero interrotto ogni commercio nucleare con Teheran è una grande impostura. Washington non poteva però proseguirlo alla luce del sole, e ormai anche Parigi era nel mirino: così lo fece attraverso Pekino (che, come Parigi, aderì nel 1992 al NTP) e Mosca. “Riprendendo la costruzione della centrale di Busher, la Russia si era sostituita alla Germania, la quale, prima di nascondersi dietro l’Argentina, poi di tentare di passare attraverso la Repubblica Ceca, aveva operato sotto licenza americana, il tutto per conto degli Stati Uniti (p. 560): i quali tuttora fingono di essere preoccupati per la collaborazione nucleare di Mosca con Teheran.
Gli ultimi anni del decennio videro l’ultima (almeno per ora) raffica di test nucleari: ma anche per questi le cose stanno ben diversamente dalla versione ufficiale. Chirac eseguì i test del 1995 anche per conto di Washington (con cui aveva appena stipulato un accordo riservato di scambio di dati), per sperimentare un carica nucleare a potenza variabile; alcuni dei test dell’India del 1998 vennero eseguiti per conto di Israele (p. 579, Le Monde, 27/05/98); ed alcuni dei test del Pakistan (che in realtà deteneva la bomba dalla fine degli anni 70, p. 578, Le Monde, 16/05/98) erano fatti per conto dell’Iran (p. 582). Appare veramente complesso sbrogliare l’intricatissima matassa dei reali interessi economici, strategici e geopolitici dietro la cortina fumogena abilmente sollevata e mantenuta, con innumerevoli complicità, verso l’opinione pubblica!
Come abbiamo sottolineato, Dominique Lorentz ha svolto tutta la sua ponderosa ricerca analizzando in modo sistematico e intelligente la documentazione pubblicata ufficialmente e riuscendo a presentare una ricostruzione convincente degli avvenimenti mondiali dell’ultimo mezzo secolo, anche di molti che apparentemente non sembravano avere a che fare con il nucleare. Il suo saggio pertanto squarcia un velo, ma non chiude affatto questa intricatissima storia: senza nulla togliere ai suoi meriti, si deve riconoscere che rimangono molti punti da chiarire e approfondire. Si apre così un vastissimo terreno di ricerca, praticamente inesplorato, in archivi, su documenti segreti, o desecretati, come è avvenuto ad esempio nel passato per il “Progetto Manhattan”.
Si potrebbe forse trarre una morale da questa storia intrigante. Forse l’incubo nucleare, sorto alla fine della prima guerra mondiale, ha segnato le nostre vite mentali, spirituali e materiali molto più profondamente di quanto la sistematica rimozione che ne è stata fatta possa far sospettare. Così come ha condizionato pesantemente le relazioni internazionali e l’ordine mondiale, può avere contribuito più di quanto possiamo sospettare anche a determinare l’oscuro malessere che permea le nostre società. Oggi l’incubo nucleare è più concreto che in tutti i decenni della Guerra Fredda. L’India e il Pakistan si fronteggiano minacciosamente con armi nucleari dispiegate; Israele non esiterebbe certo a lanciare le proprie qualora qualche paese arabo rappresentasse una minaccia concreta; Washington sta sviluppando uno sforzo senza precedenti per sviluppare testate nucleari nuove, più moderne e micidiali, mentre si prepara dichiaratamente a lanciare un “attacco preventivo”. È grottesco agitare la minaccia (inesistente) delle armi di distruzione di massa di Saddam e dei paesi dell’asse del male preparandosi ad usare le proprie! C’è da chiedersi con che faccia le potenze nucleari si presenteranno per il rinnovo del TNP nel 2005! L’opera di Dominique Lorentz può aiutarci a svelare questi inganni, perché la ricostruzione del passato è un mezzo fondamentale per capire dove siamo e dove stiamo andando.

(Angelo Baracca)


GLI USA VOLEVANO FERMARE LA CORSA ATOMICA DI ISRAELE 25/05/2006

Richard Nixon, che nel ’69 ebbe la sicurezza che Israele aveva la bomba, doveva decidere cosa fare: dissuadere, far finta di nulla, tenere la cosa segreta al mondo e al Congresso? Decise per quest’ultima opzione ma non fu una scelta a cuor leggero checché la vulgata voglia israeliani e americani sempre e per forza d’accordo su tutto

Emanuele Giordana

Giovedi’ 25 Maggio 2006



Il 7 febbraio del 1969 sul tavolo di Henry Kissinger arrivò un memorandum sul possibile impatto della capacità nucleare di Israele sulla politica degli Stati Uniti. Era un documento “sensibile”, quindi segreto. Il primo capoverso, intitolato “Il problema”, spiegava che le fonti di intelligence indicavano come Israele stesse “sviluppando rapidamente la capacità di produrre e schierare armi nucleari”: missili terra-terra oppure ordigni da sganciarsi dall’aria. “Avendo coscienza delle implicazioni negative” che comporterebbe rendere nota la cosa, proseguiva il documento redatto da Henry Howen del dipartimento di Stato, Israele stava lavorando al programma “clandestinamente” finché non fosse stato in grado di decidere il modo in cui dispiegare la sua forza nucleare.
Vista con gli occhi di oggi, è una storia che sembra raccontare il segreto di Pulcinella. Ma i nuovi documenti desecretati su come si svolse la vicenda in quegli anni, intorno al 1969 in sostanza, rivelano alcuni particolari inediti. Soprattutto rispetto all’atteggiamento dell’Amministrazione americana. Che temeva la potenza nucleare di Israele. Il programma era noto da almeno una decina d’anni e gli americani sapevano già dal ’61 che Israele era ormai vicina alla bomba, a cui lavorava dal 1958 negli impianti di Dimona. La stima dell’intelligence Usa fu, agli inizi degli anni ’60, che era solo questione di tempo. Al massimo una decina d’anni e sia Kennedy (1961-’63) che Johnson (’63- ’69) avevano già espresso le loro perplessità a riguardo. Le stime degli 007 erano azzeccate e Israele, benché avesse deciso di non condurre test, arrivò a varcare la soglia del nucleare a scopi militari già nel ’66. Toccò quindi a Richard Nixon, che nel ’69 ebbe la sicurezza che Israele aveva la bomba (era il suo primo anno di mandato), decidere cosa fare. Dissuadere, far finta di nulla, tenere la cosa segreta al mondo e al Congresso? Nixon decise per quest’ultima opzione. Ma non fu una scelta a cuor leggero checché la vulgata voglia israeliani e americani sempre e per forza d’accordo su tutto.

Dal passato una lezione per il presente

Il 1969 era un anno particolare. C’era in ballo la ratifica del Trattato di non proliferazione (Npt) e l’entrata in scena di Israele come attore nucleare avrebbe creato problemi. Il Trattato di non proliferazione nucleare era stato “aperto alla firma” il 1 luglio del 1968: fu la pietra angolare del sistema di convenzioni relative agli armamenti e materiali nucleari. Materia sensibile che entrò poi in vigore dal marzo del 1970. Acqua passata? Sino a un certo punto visto che dei 188 paesi firmatari India, Pakistan e Israele non l’hanno mai siglato e la Corea del Nord ne è uscita nel 2003. Inoltre siamo tornati a una forte tensione sull’argomento nucleare e le “ramificazioni di quella storia segreta”, hanno scritto i due ricercatori Avner Cohen e William Burr, fanno ancora sensazione. Raccontano sul passato quel che sapremo forse tra trent’anni sui tanti dossier nucleari attualmente sul tavolo della comunità internazionale: dal negoziato con la Corea del Nord appunto (in qualche modo ricompostosi) al tira-e-molla sul dossier iraniano, fino alle recenti avance sull’argomento tra Washington e Nuova Delhi. Riaprono il mai sopito dibattito sul doppio standard. Su chi, in sostanza, può, più o meno apertamente, maneggiare l’uranio. E chi no.
La storia che si dipana tra il febbraio e il settembre del ’69, quando è in agenda l’incontro tra l’inossidabile premier israeliano Golda Meir e Richard Nixon a Washington, viene rivelata da una corposa, benché non esaustiva, mole di documenti. E’ una storia, hanno ricordato recentemente Cohen e Burr sul Washington Post, attraversata da un senso di “urgenza e allarme” che fa scrivere al segretario alla Difesa Melvin R. Laird in marzo che gli sviluppi nucleari israeliani “non sono nell’interesse degli Stati Uniti” e che “se possibile” vanno “fermati”. Nixon e il suo gran consigliere per la sicurezza Henry Kissinger, in seguito a capo della diplomazia americana, sono nel mezzo di un dibattito che a volte si fa persino aspro. Stretto tra la tradizionale amicizia di un piccolo stato circondato da nemici anche degli Stati Uniti e la possibile pericolosa escalation che, la divulgazione del segreto di Dimona, potrebbe innescare.

Cosa fare con Isarele

Incaricato di studiare la questione è un gruppo di lavoro sul programma nucleare israeliano capeggiato da Kissinger e che include diverse personalità di spicco dell’Amministrazione: dal sottosegretario di Stato Elliot Richardson al capo di stato maggiore Earle Wheeler. Sembra che il gruppo dei senior (Senior Review Group o Srg) fosse orientato a una certa pressione su Israele. Kissinger un po’ meno. Tra gli argomenti di pressione c’era la questione della vendita di alcuni Phantom F-4 che poteva essere usata come arma di ricatto. Poi però la cosa si sbloccò. Quanto alla completa verità su quella vicenda, sulle carte più “sensibili” (i famosi file Nssm 40 ), resta ancora oggi il segreto di stato.
In luglio Richardson incontra Ytzhak Rabin che è stato appena nominato ambasciatore a Washington. C’è anche il vice della Difesa David Packard, anche lui dei senior del gruppo di lavoro. I due pongono a Rabin una serie di questioni dirette tra cui la posizione sul dossier Npt e gli chiedono rassicurazioni formali sul non possesso dell’arma atomica. Rabin glissa a parte la questione del Trattato di non proliferazione che, dice, è allo studio. L’incontro è solo un aperitivo. Prepara il vero appuntamento dell’anno: la visita di Golda Meir alla Casa Bianca del 26 settembre.
Non si sa cosa si siano detti nello studio ovale la lady di ferro di Israele e il presidente degli Stati Uniti anche se, in parte, lo hanno poi raccontato documenti declassificati da Israele. Secondo i quali Nixon convinse Meir che il suo paese doveva dire tutta “la verità” sul dossier nucleare agli americani. Cohen e Burr sono convinti che in quel colloquio, per ammissione esplicita o implicita del premier israeliano, la verità venne fuori. Una verità che gli americani conoscevano ma solo fino a un certo punto. Sembra di capire che Nixon, come in parte riporta una nota di Kissinger, rese chiaro alla Meir che, non solo la cosa doveva rimanere segreta, ma che Israele non avrebbe dovuto fare test di alcun tipo. Una raccomandazione che il premier israeliano condivideva pienamente.

Questione chiusa

Nell’ufficio di Nixon quel 26 settembre la questione fu chiusa. E gli americani smisero di fare pressioni su Israele. Mesi dopo Rabin confermò che Israele non avrebbe firmato il Tratato di non proliferazione mentre l’atteggiamento dell’Amministrazione verso il programma nucleare israeliano cambiò radicalmente. Secondo i ricercatori dei National Security Archives, che hanno recentemente pubblicato i documenti declassificati, cambiò anche l’atteggiamento verso il sito di Dimona. La Casa Bianca aveva in piedi, sin dai tempi delle amministrazioni precedenti, un programma di visite “segrete” al sito israeliano. Era una forma di controllo accettata dagli israeliani anche se, sembra di capire, facevano vedere agli ispettori quello che volevano.
Dopo l’incontro-accordo del ’69 il presidente decise che sarebbero terminati. Ma i funzionari di medio livello non ne vennero informati così che l’impressione per i controllori rimase quella che si continuava a monitorare il sito sensibile. E fino al 1975 (Nixon terminò burrascosamente il suo mandato nel ’74) il dipartimento di Stato non fece mai sapere al Congresso degli Stati Uniti che la Casa Bianca era certa che Israele avesse la bomba anche se ormai l’intelligence, e come abbiamo visto non solo quella, ne era ormai più che sicura. Un pezzo di storia ancora pieno di se e di ma e che in parte resta da scrivere. Come ancora resta da scrivere quello sul nucleare iraniano, coreano, indiano e così via. L’unica certezza è che la verità in questi casi finisce sempre per restare nascosta.

L’articolo è uscito su il manifesto del 25/05/2006


http://www.resistenze.org/sito/te/po/is/pois3n23.htm 

Estratti dal prossimo libro di Alain Coutte: “Israele – Uno stato terrorista”, Marzo 2004.

Israele:L’incredibile arsenale di distruzione di massa


di Alain COUTTE

:

Gli europei non si sono ingannati nel recente sondaggio effettuato da Eurobarometro pubblicato il 3 novembre 2003. In questa inchiesta, realizzata a ottobre presso 7.515 cittadini dell’unione europea, il 59% delle persone interrogate hanno puntato il dito su Israele rispondendo affermativamente alla domanda: “Per ognuno dei paesi seguenti, diteci, secondo voi, se sono o meno una  minaccia per la pace nel mondo”.

Le persone interrogate dovevano pronunciarsi su una lista di paesi preselezionati. L’Iran, la Corea del Nord e gli USA sono arrivati in seconda posizione con ognuno il 53% di risposte. L’Irak è arrivato terzo (52 %), seguiti dall’Afghanistan (50 %), dal Pakistan (48 %), dalla Siria (37 %), dalla Libia (36 %), dall’Arabia saudita (36 %), dalla Cina (30 %), dall’India (22 %), dalla Russia (21 %), dalla Somalia (16 %) e dall’UE (8 %).

15 paesi della Lega araba hanno depositato, mercoledì 17 settembre 2003, una risoluzione alla conferenza generale dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) che critica Israele per il suo rifiuto di siglare il Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP). La risoluzione della Lega araba ingiunge a Israele, solo stato del Medio oriente a non fare parte del TNP, ad associarvisi al più presto.

Il testo domanda parallelamente agli stati che forniscono materiali nucleari, attrezzature e aiuto tecnico, che permettano allo stato ebraico di attuare le clausole di non-proliferazione del TNP. In un memorandum, la Lega araba afferma che “il possesso di armi atomiche di Israele rischia di condurre, nella regione, a una corsa distruttiva alle armi nucleari, particolarmente se le installazioni nucleari israeliane restano fuori da ogni controllo internazionale”.

La settimana scorsa, il Consiglio dei 35 governatori dell’AIEA ha dato tempo fino al 31 ottobre all’Iran per provare che essa non stava costruendo l’arma atomica sotto la copertura di un programma nucleare civile. Rigettando tale ultimatum, il rappresentante iraniano nel Consiglio, Ali Akbar Salehi, aveva dichiarato che “tra quelli che hanno cercato e prodotto armi nucleari”, cioè le cinque potenze (USA, Cina, Russia, Francia e Gran Bretagna), “si scusa tale crimine a Israele”.

Un diplomatico ha sottolineato che, là dove si è pronti a denunciare dei presunti programmi nucleari militari nel medio oriente, in Irak e in Iran, il silenzio è mantenuto sul programma nucleare d’Israele. Secondo gli esperti, lo stato ebraico possiede da molto tempo l’arma atomica, ma questo paese ha sempre lasciato planare un “sipario” su tale argomento considerato come un tabù.

In effetti, una dichiarazione che riconosca che Israele possiede la bomba, potrebbe provocare delle sanzioni e la fine dell’aiuto USA economico e militare, conformemente all’emendamento Symington del 1977.
Israele, contrariamente all’Irak, é il solo paese del Medio oriente a possedere delle armi di distruzioni di massa. Ma l’occidente sembra totalmente occultare il più importante deposito di armi nucleari, chimiche e biologiche tra Parigi e Pechino, e il cui scopo non confessato è un genocidio.

Quando fu affrontata tale anomalia, l’ambasciatore USA all’ONU, John Negroponte, rispose con tipico cinismo: “Israele non ha utilizzato tali armi contro il suo popolo o i suoi vicini”. Si può ragionevolmente pensare che l’ambasciatore è ben informato, ma ha mentito. In effetti, Israele ha utilizzato le armi biologiche prima della sua creazione, su suolo palestinese, nel 1948, ma anche dopo tale data.

L’obiettivo, secondo Ben Gurion, il fondatore dello stato di Israele, era un genocidio e se no ci fosse riuscito, di impedire ai palestinesi di tornare a casa loro.
In effetti, alla vigilia dell’occupazione di Haifa il 23 aprile 1948 e sotto il naso del generale Stockwell che comandava le forze armate britanniche, la città d’Acri, che è nota per i suoi bastioni, venne assediata dai sionisti che bombardarono la città notte e giorno con i mortai. L’alimentazione di acqua proveniva da un villaggio vicino, Kabri, situato 10 km a nord, con l’ausilio dell’acquedotto. I sionisti hanno iniettato il virus del tifo nell’acquedotto che passava attraverso certe colonie ebraiche. Questa storia è uscita, 50 anni dopo, dagli archivi della Croce Rossa.

Acri ha così visto partire la sua popolazione araba, immediatamente rimpiazzata da una colonizzazione ebraica.
Due settimane dopo il loro successo a Acri, i sionisti hanno ricominciato a Gaza. Ma i due membri del commando, David Horeen e David Mizrahi, furono arrestati dalle forze egiziane che li hanno interrogati. Hanno confessato di essere stati inviati dall’ufficiale Moshe per avvelenare l’esercito e i suoi abitanti con il tifo e la dissenteria.
Tale era la dottrina di Ben Gurion: la distruzione della società palestinese in Palestina era una condizione necessaria all’instaurazione dello stato d’Israele sulle sue rovine. Se i palestinesi non potevano essere eliminati con i massacri o le espulsioni, sarebbero stati eliminati dallo “sterminio”.

Con lo spopolamento di 530 città e villaggi della “Naqba” (la tragedia) del 1948, molte case e appartamenti furono occupati, per metà da immigrati ebrei che hanno potuto trovare un alloggio.
Il sindaco di Nes Ziona, a 10 km dal centro di Tel-Aviv si è lamentato per qualche anno della vicinanza del centro di ricerche biologiche israeliana e dei pericoli che avrebbe potuto causare alla popolazione in caso di incidente. Cosa succederebbe in tale caso, una giornata di vento, con una esplosione di decine  di tonnellate che evaporano e con una popolazione di 3 milioni di abitanti che vivono su 1.000 km quadrati? Ben Gurion aveva previsto tale scenario catastrofico?

Secondo la Federazione degli Scienziati Americani, è dal 1948 che Israele ha avuto l’intenzione di dotarsi di un arsenale nucleare mettendo su un Corpo Scientifico (Hemed Gimmel) in seno dell’esercito (Forze di Difesa d’Israele).
Il fondatore dello stato ebraico, David Ben Gurion, che non credeva nella pace con i vicini arabi, aveva deciso, nella prima guerra israelo-araba nel 1948, di esplorare l’opzione nucleare.

Il programma nucleare israeliano iniziò alla fine degli anni 40 sotto la direzione di Ernst Bergmann, “il padre della bomba israeliana” che nel 1952 creò la Commissione Israeliana dell’Energia Atomico (Israeli Atomic Energy Commission).
Nel 1949, l’Hemed Gimmel ha esaminato il deserto del Negev alla ricerca di giacimenti di uranio, ma le quantità trovate erano insignificanti per i bisogni della centrale di Dimona, la cui costruzione iniziò nel 1958. L’uranio proverrà principalmente dall’Africa del Sud, dove comandava il regime dell’apartheid. Nel 1952, Ben Gurion creò il Comitato per l’energia atomica, la cui maggior parte dei membri si dimisero quando seppero, nel 1957, che Israele firmò con il primo ministro francese Guy Mollet un accordo per la costruzione, “a fini militari”, del reattore di Dimona.

Nel 1956, la Francia accettò di fornire a Israele un reattore nucleare di 18 megawatt. Dopo l’invasione dell’Egitto da parte di Israele nel 1956, l’accordo fu modificato affinché venisse fornito un reattore di 24 megawatt. La Francia comprò in Norvegia acqua pesante per il reattore, violando le assicurazioni date al governo norvegese che tale acqua pesante non era destinata a un paese terzo. I responsabili delle Dogane francesi furono ingannati sulla destinazione finale dei componenti del reattore.

Per ospitare il reattore, venne costruito un complesso a Dimona, nella parte settentrionale del deserto del Negev. Al fine di proteggere il programma d’armamenti nucleari d’Israele e conservare il segreto, fu creata una organizzazione speciale, l’Ufficio delle relazioni scientifiche. Uno stratagemma d’Israele per nascondere la natura del progetto di Dimona, fu quello di presentarlo come “una fabbrica di manganese”.
Tale segreto fu così ben conservato, fino al 1967, che Israele ha abbattuto un dei suoi aerei da cacci che si avvicinava troppo a Dimona e, nel 1973, un aereo di linea civile libico che era uscito dalla rotta, uccidendo 104 persone.

Nel 1960, vi fu un disaccordo sul progetto tra i governi israeliano e francese. La Francia domandava che Israele rendesse pubblico il progetto di Dimona e permettesse delle ispezioni internazionali.
Perciò, la Francia accettò di finire di consegnare gli ultimi componenti del reattore e Israele assicurava Parigi che non avrebbe costruito armi nucleari. Nel 1964, il reattore divenne operativo. Sembrava egualmente che Israele abbia partecipato attivamente ai test nucleari francesi in Algeria.
Gli USA, principale fornitore di aiuti militari a Israele, furono parte principale nel progetto nucleare d’Israele. Secondo Sir Timothy Garden, dell’Università dell’Indiana, Israele siglò un accordo di cooperazione nucleare con gli USA nel 1954. Israele acquisì dagli Stati Uniti un reattore più piccolo (inadeguato per servire alla produzione di armi nucleari) che divenne operativo nel 1960.

Nel 1960, un aereo statunitense da ricognizione U-2 scoprì ciò che si costruiva a Dimona non era una “fabbrica tessile”, come pretendevano gli Israeliani, ma un reattore nucleare. Mentre Ben Gurion affermava, davanti ai deputati, che questa centrale aveva scopi “puramente pacifici”, cosa che non impedisce una crisi grave tra Israele e gli USA.

Nel 1963, il presidente John F. Kennedy esercitò delle pressioni reali per imporre una visita di esperti statunitensi a Dimona.
Alla fine del 1964, Dimona produceva quasi 8 kg di plutonio all’anno, sufficienti a Israele per costruire una o due armi nucleari, una volta ritrattati.
Ben Gurion, che si opponeva – il reattore funzionava già – preferiva dare le sue dimissioni piuttosto che cedere alle pressioni della Casa Bianca.
I successori di Ben Gourion, Lévy Eshkol e Golda Meir, permisero alcune visite con delle restrizioni – l’ultima ebbe luogo nel luglio 1969.
Un anno prima, il direttore della CIA aveva informato il presidente Lyndon Johnson: “Israele é una potenza nucleare in tutti i sensi della parola”.

Nel 1969, il presidente Johnson e il premier Golda Meir arrivarono a un accordo: Washington non esercitava pressioni per condurre lo stato ebraico a firmare il TNP, a condizione che quest’ultimo mantenga scrupolosamente nell’ambiguità le sue attività nucleari. Tali impegni saranno rispettati da una parte e d’altra.
Un memorandum del governo USA dell’ottobre 1969, basato sul rapporto dei colloqui tra i responsabili del Dipartimento di Stato e un rappresentante dell’AEC (“US Atomic Energy Commission” – Commissione dell’Energia Atomica degli USA), concludeva, in modo rivelatore, che il governo degli USA non vedeva il problema quanto al fatto che Israele disponga dei mezzi per costruire delle armi nucleari, sottolineando che “l’équipe (dell’AEC) è giunto alla conclusione che il governo USA non era animato dalla volontà di sostenere un vero sforzo nelle ispezioni, una reale ispezione durante la quale i membri dell’équipe avrebbero potuto sentirsi autorizzati a porre in modo diretto delle domande pertinenti e/o a insistere perché gli sia permesso di vedere e di prendere conoscenza dei documenti, dei materiali usati, degli elementi tecnici e tutto il resto. In modo sottile, l’équipe è stato messo in guardia per evitare tutto ciò che poteva prestarsi a una controversia, a comportarsi da “gentlemen” e a preoccuparsi degli evidenti desideri dei loro ospiti. In una occasione, apparve che l’équipe fu fortemente criticata dagli Israeliani per “essersi comportati come degli ispettori”.

Garden ha scritto in “Can Deterrence Last?” (Buchan & Enright, London 1984): “Avendo creato un sistema affidabile e serio di produzione di plutonio fissile, si rivelò necessario dotarsi di installazioni che permettessero il suo ritrattamento per poterlo usare nel processo di fabbricazione degli armamenti. La gestione di una tale industria è particolarmente identificabile e ci sarebbe stato un accordo, allora, affinché Israele non la costruisse.

La ragione di queste lacune apparvero presto quando fu stabilito che Israele avesse potuto, con successo, acquistare illegalmente un stock significativo di uranio arricchito. Dei rapporti della CIA affermano che Israele ottenne “grandi quantità di uranio arricchito per vie clandestine”. Il New York Times rivelò ai suoi lettori la scomparsa di uranio altamente arricchito del “Nuclear Materials and Equipment Corporation” di Apollo, in Pennsylvania nel 1965… Se Israele ottenne materiale militare nucleare nel 1965, ciò spiegherebbe perché l’impianto di ritrattamento di plutonio non fu costruito. Avendo a sua disposizione dell’uranio, era possibile usare un metodo più lento, ma politicamente controverso, consistente nel procedere alla separazione del plutonio in un “laboratorio caldo” e progressivamente aumentare il suo stock.

Nel 1968, Israele collaborava con la Germania dell’Ovest per dirottare 200 tonnellate di uranio!
Dopo, fino agli anni ’80, Israele poté contare sull’Africa del Sud dell’apartheid per la fornitura di circa 550 tonnellate di uranio destinato al complesso di Dimona. Nel settembre 1979, i due paesi avrebbero effettuato un test comune di armi nucleari nell’Oceano Indiano. In un articolo del 20 aprile 1997, Ha’aretz affermò che Israele aveva aiutato l’Africa del Sud a sviluppare l’armamento nucleare all’inizio degli anni ’80. L’ex capo di stato maggiore dell’esercito sud-africano, Constand Viljoen, dichiarò a Ha’aretz: “volevamo ottenere dati sul materiale nucleare, da qualunque parte, compreso Israele”.

Nel complesso nucleare di Dimona, nel deserto del Neguev, con molti piani sotterranei, Israele ha prodotto centinaia di ogive nucleari. Il numero di queste ogive è certamente raddoppiato o triplicato da allora, poiché nessuno, né nella regione, né tra i paesi “che vogliono dare una lezione al popolo iracheno” se n’è preoccupato. Il silenzio ufficiale, il mutismo dell’AIEA (Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica – International Atomic Energy Agency) e dei differenti organismi di controllo degli armamenti nucleari, tra cui la COCOVINU (COmmissione de COntrollo, di Certificazione e d’Ispezione delle Nazioni Unite), così come quella più inquietante della stampa specializzata, resta fino a oggi totale.

L’impianto è nascosto nel deserto e produce ogive nucleari dal 1966. nel frattempo, esso ha certamente, dopo alcuni articoli apparsi in certa stampa israeliana, fabbricato delle armi termonucleari di una capacità sufficiente per distruggere città intere. Secondo fonti israeliane a metà degli anni ’60, dei fisici e dei tecnici di Dimona hanno compiuto, almeno un test nucleare di piccola potenza in una caverna sotterranea del deserto del Negev presso la frontiera israelo-egiziana. Sembra che la deflagrazione abbia distrutto certe parti del Monte Sinai. (L’Opzione H di Seymour M. Hersch del 1992).

Quando ebbe la sua più grande prova militare, la guerra d’ottobre 1973, secondo fonti concordi, Israele ha messo segretamente una parte del suo arsenale atomico in stato d’allerta. Durante la guerra del Golfo nel 1991, dodici missili Jericho 2 (gittata di 1500 km) furono ugualmente messi in stato d’allerta. Ma l’avvertimento pubblico riguardo l’Irak fu lanciato dal segretario USA alla difesa Richard Cheney, che ha evocato sulla CNN la possibilità dell’uso di Israele di tali armi non convenzionali se Baghdad utilizzava dei missili con delle testate chimiche contro lo stato ebraico.

Washington ha i mezzi di pressione su Israele. Nell’agosto 1998, lo stato ebraico mise fine alla sua opposizione all’apertura dei colloqui, in vista del trattato per la fine delle produzioni riguardo la fissione (uranio, plutonio), che fermerebbe la capacità nucleari dei paesi firmatari. Israele diverrebbe l’ultimo dei sessantuno stati membri della commissione sul disarmo dell’ONU a esservi opposto fino allora. La sua accettazione è stata ottenuta in cambio della promessa USA di sostenere Israele nel caso in cui i suoi “interessi vitali” sarebbero in pericolo. Questo trattato dovrebbe portare all’apertura di Dimona agli ispettori internazionali, ma il rappresentante d’Israele nei colloqui di Ginevra, l’ambasciatore Joseph Lamdan, ha calmato gli animi inquieti: “I lavori della commissione sul trattato continuano per almeno cinque anni “… Altri responsabili hanno aggiunto: “Si può sempre fare marcia indietro”.

Due mesi più tardi, in margine dell’accordo israelo-palestinese di Wye Plantation del 23 ottobre 1998, il presidente degli USA e il premier israeliano hanno firmato un memorandum importante, che evoca il “rafforzamento della capacità di difesa e della dissuasione d’Israele”. Degli esperti hanno spiegato che la formula usata riconferma l’accordo pubblico degli USA con la dissuasione strategica “ambigua” d’Israele, l’accordo rende possibile con lo scacco degli sforzi di Washington di mettere un termine alla diffusione dei missili balistici nella regione.

L’ambiguità rappresenta una componente della difesa nazionale del paese, il cui compito è essenzialmente dissuasivo, accanto a un esercito forte e delle armi ultramoderne. Fu rispettato per anni, con qualche eccezione. Così, un anno dopo la guerra d’ottobre 1973, il presidente Ephraïm Katzir dichiarava: “Israele possiede un potenziale nucleare”. Quando divenne premier dopo l’assassinio di Itzhak Rabin, M. Shimon Pérès, il padre della bomba, si è rivolto al mondo arabo: “Datemi la pace e io rinuncio al nucleare”.

Nel 1986, un ex tecnico nucleare israeliano, Mordechai Vanunu, era stato rapito dai servizi segreti israeliani a Roma e trasferito nello stato ebraico. È stato condannato l’anno dopo a 18 anni di prigione per tradimento e spionaggio, per aver rivelato al Sunday Times che Israele possedeva un arsenale composto da 200 bombe atomiche.

L’armamento nucleare israeliano è stato denunciato nel 1986 dall’ingegnere israeliano Mordechaï Vanunu, sul “Sunday Times” inglese del 5 e 12 ottobre 1986 che ha trasmesso delle foto delle installazioni nucleari d’Israele.
Vanunu lavorava a Dimona nella installazione “Machon 2” dal 1976 al 1985, prima di essere costretto alle dimissioni per via del suo impegno politico in favore dei Palestinesi. Fu così provato che “Machon 2” produceva plutonio e componenti per le bombe nucleari.

Tra il 1982 e il 1984, Mordechai Vanunu si consacrò allo studio della filosofia e frequentò l’ambiente progressista e palestinese dell’università Ben Gurion di Beersheba; era un noto portavoce degli studenti in occasione di un congresso a  Parigi. Benché sorvegliato dallo Shin Bet, il quadro della centrale di Dimona non sembra essersene accorto e, soddisfatto del suo lavoro, gli permisero di seguire i corsi di perfezionamento in chimica e fisica.
Nel frattempo Vanunu si rese conto che il programma nucleare d’Israele, dal presunto uso pacifico, è incaricato di produrre un numero notevole di armi nucleari molto sofisticate che rappresentano un arsenale comparabile a quello della Francia, per esempio. Minacciato di trasferimento in un altro servizio, prese 57 foto dei laboratori e servizi che frequentava; il 27 ottobre 1985, abbandonò Dimona dopo esser stato licenziato per ristrutturazione.

Dopo i suoi contatti con la stampa, é chiamato a Londra dalla direzione del Sunday Times per verificare l’autenticità delle sue dichiarazioni su Dimona. Sarà lì che lo catturano gli agenti segreti israeliani, che lo seguivano da Sidney e che hanno ricevuto istruzioni precise da Shimon Peres, con la benedizione della Thatcher.
Invitato da Cindy Hanin, agente del Mossad, abbandonò volontariamente Londra il 30 settembre 1986 alle 21.00 per Roma dove è catturato e drogato all’aeroporto di Fiumicino, prima di essere spedito clandestinamente per nave in Israele.
Secondo Vanunu, Israele possedeva 200 armi nucleari nel 1986. Tenendo conto dei progressi scientifici, si può ragionevolmente pensare che questo numero sia raddoppiato, triplicato e si situerebbe, vent’anni dopo tra 400 e 500!

Prima della pubblicazione del suo scritto sul Times, Vanunu fu attirato a Roma da un agente del Mossad, il servizio segreto israeliano. Fu allora rapito e condotto in Israele, per essere condannato in un processo segreto e imprigionato. Le minute del processo di Vanunu sono rimaste “segreto militare” fin quando alcune sue parti furono svelate dal governo israeliano nel novembre 1999, in seguito all’inchiesta del giornale israeliano Yediot Aharonot dopo che la Corte del Distretto di Gerusalemme riesaminò il caso.

Secondo Vanunu, un impianto di estrazione di plutonio, equipaggiato con un sistema francese, ha trasformato Dimona da stabilimento di ricerca in fabbrica di produzione di bombe. La produzione di plutonio si situa negli anni ’80 sui 40 kg all’anno, sufficienti per produrre 10 bombe. Le informazioni sulla capacità d’Israele di fabbricare la bomba provengono soprattutto da questo ingegnere israeliano, Mordechai Vanunu che ha lavorato come tecnico nucleare per dieci  Machon 2, il bunker sotterraneo top secret costruito per fornire i componenti di base necessari alla produzioni d’armamenti a Dimona, il centro di ricerca nucleare. Le prove, come le fotografie portate da Vanunu, avevano sorpreso il mondo così come gli esperti in armamenti nucleari, e avevano mostrato che Israele era divenuto, nella totale impunità, una potenza nucleare. Sviluppando delle tecniche sofisticate e altamente specializzate, lo stato aveva costruito un temibile arsenale nucleare. Théodore Taylor, uno degli esperti USA più competenti, aveva stimato che la testimonianza di Vanunu dava da pensare che Israele aveva la capacità di produrre 10 bombe atomiche all’anno, sensibilmente più piccole, più leggere, e più efficaci che quelle dei primi tipi di bombe realizzate dalle cinque grandi potenze nucleari.

Vanunu, rapito dai servizi segreti israeliani a Londra è detenuto da più di dodici anni nelle galere israeliane. È stato accusato di essere un traditore calcolatore che ha venduto dei segreti di stato per odio del suo paese e per avidità. Abbiamo, con l’aiuto di qualche pacifista, creato un comitato di sostegno a questo giovane ingegnere coraggioso. Pochi Palestinesi hanno voluto sostenere tale azione, non comprendendo, all’epoca l’importanza di tali rivelazioni.

Vanunu è stato condannato a 18 anni di prigione. Ha passato i primi 11 anni e mezzo in isolamento totale. Secondo il suo fratello Asher, la prigione d’Ashkelon, dov’è imprigionato, non lo rilascerà prima del 22 aprile 2004, cinque mesi prima la fine della condanna.
Dopo aver compiuto i due terzi della sua pena, Vanunu ha sollecitato la sua libertà condizionale. La sua richiesta è stata rigettata nel 1998 la prima volta, poi ogni semestre seguente. La Corte di Bersheva doveva pronunciarsi sulla domanda di rilascio di Vanunu nell’ottobre 2002. Secondo l’edizione di Ha’aretz del 9 ottobre, “Vanunu poteva far valere il fatto che nel 2001, Shimon Peres aveva rivelato sulla catena 2 (Channel Two) israeliana le informazioni sulle capacità militari israeliane nel campo nucleare che Vanunu aveva potuto rivelare al Sunday Times”.

La polemica concernente Vanunu e l’arsenale segreto d’armamenti nucleari d’Israele sfociò in un dibattito alla Knesset, nel 2000, il primo mai avutosi sulla politica nucleare. Il 3 febbraio 2000, l’Yediot Aharonot descriveva il dibattito: “Il deputato Issam Makhoul (del Hadash) ha fatto la storia quando ha dichiarato: “Israele possiede 200-300 bombe atomiche”. Il Ministro Ramon, che rispondeva in nome del governo, ha ripetuto la dichiarazione: “Israele non sarà il primo a introdurre le armi nucleari in Medio-Oriente”.

“Non è il fatto che Vanunu abbia fatto delle rivelazioni che costituiscono il problema, ma piuttosto la politica di tutti i governi israeliani, che hanno trasformato questo piccolo pezzo di terra in un velenoso e avvelenato angolo nucleare, cosa che ci può mandare all’aria in fungo nucleare” ha avvertito Issam Makhoul.
I membri del Likoud, del Partito nazionalreligioso, del Shass e altri hanno scelto di abbandonare l’assemblea in segno di protesta quando Makhoul ha parlato.
Il deputato Makhoul ha detto che Israele era al sesto posto per quantità di plutonio di alta qualità in suo possesso. “Il mondo sa che Israele é un enorme deposito di armi chimiche, biologiche e nucleari, che gioca il ruolo di pietra angolare nella corsa agli armamenti nucleari in Medio-Oriente” ha accusato Makhoul. Secondo lui, Israele ha “200-300 bombe atomiche”.

I membri della Knesset hanno risposto con grida al discorso del deputato Makhoul. “Commettete, oggi, un crimine contro gli arabi israeliani” ha gridato Ophir Pinnes, presidente della coalizione. “Se qualcuno aveva bisogno di trovare una giustificazione al fatto che i deputati arabi della Knesset non possano essere membri della Commissioni agli esteri e della Sicurezza, l’avete data” ha gridato il deputato del Shinouy, Yosef Pritzky.

La Francia, che ha “dato la bomba a Israele e all’Irak”, deve oggi assumere una eredità assai pesante da tale doppia responsabilità, presa tra il 1956 e il 1975, di aiutare successivamente due paesi belligeranti del Medio-Oriente. Quando l’armamento nucleare iracheno venne denunciato e le misure militare  furono prese per la sua eliminazione, utilizzando armi nucleari (di uranio impoverito), condannato da altri, tanto più che un grande mutismo ha circondato l’affaire israeliano. Questo vero accanimento ha sorpreso tutti, soprattutto se tale accanimento serve a denunciare l’altro “belligerante”. Perché non occuparsi del disarmo d’Israele? Perché “due pesi, due misure”?

L’aviazione israeliana s’era permessa nel 1981 di distruggere il reattore nucleare iracheno Osirak, facendo passare l’atto inammissibile per una legittima difesa preventiva, nascondendo la propria produzione atomica. Era soprattutto per evitare un riequilibro delle forze ai danni dello stato ebraico, sostenuto dall’occidente, che vuole conservare la superiorità atomica nella regione.

Il memorandum strategico israelo-statunitense dell’ottobre 2003 scorso era destinato a assicurare Israele, inquietato dall’apparizione dei missili iraniani a lunga gittata e dallo sforzo di Tehran per fabbricare armi nucleari. Tali informazioni sono state gonfiate dalla stampa israeliana, benché gli esperti USA e europei affermano che la Repubblica islamica é ancora lontana dal possedere una capacità nucleare. Pertanto, i “falchi”, come il deputato laburista Ephraïm Sneh, hanno già fatto appello in favore di un attacco “preventivo contro l’Iran”. Si tratterebbe di applicare la “dottrina Begin” attuata con il bombardamento di Osirak in Irak: non permettere a nessun paese del Medio-Oriente di produrre una bomba nucleare. Ma l’Iran ha tratto la lezione del raid e ha disperso le sue installazioni nucleari nel paese e in bunker.

Parallelamente, Israele prepara, con dei sottomarini, i mezzi per il “secondo colpo”, che è alla base di un equilibrio nucleare della dissuasione. All’inizio di questo anno, la marina militare israeliana riceverà il primo sottomarino tipo Dauphin costruito nei cantieri di Kiel, in Germania. Fino a oggi, i vettori della forza d’attacco israeliana si componevano di missili balistici e di bombardieri.

Israele aveva realmente bisogno di un arsenale nucleare alfine di dissuadere i paesi arabi e evitare la sua distruzione? Si sa ormai con certezza, che mai i paesi arabi, dopo il 1948, hanno avuto questa possibilità. La capacità nucleare d’Israele non ha dunque giocato alcun ruolo di dissuasione; la guerra d’ottobre 1973 l’ha provato.
Il monopolio nucleare israeliano non potrà eternizzarsi e una proliferazione delle armi non convenzionali nel Medio-Oriente minaccia la pace. Il dibattito sulla denuclearizzazione di fronte all’equilibrio del terrore deve impegnarsi all’interno di Israele, dove l’opinione pubblica è mal informata, e assieme con gli altri paesi della regione. Tale compito esige un nuovo pensiero politico e un altro potere in Israele.

All’indomani della guerra del Golfo, M. David Kay, il capo della delegazione dei giornalisti nucleari dell’ONU in Irak, formulava un desiderio davanti un giornalista israeliano: “Le rivelazioni degli ispettori dell’ONU in Irak devono far comprendere a Israele e ad altri paesi che bisogna fermare la corsa agli armamenti nucleari e arrivare a un accordo di denuclearizzazione, che comprenderà Israele. Spero che Israele apra le sue porte davanti gli ispettori dell’ONU. Spero che ciò sarà il mio prossimo compito, dopo l’Irak”.

Appartiene dunque oggi alla Francia, in seno alla comunità europea, affrontare le sue responsabilità. Deve oggi mettere tutto il suo peso, seguire lo smantellamento integrale dell’armamento iracheno, per costringere ugualmente gli israeliani a smantellare le loro installazioni di armi di distruzioni di massa, alfine di costruire un Medio-Oriente denuclearizzato e privo di armi chimiche e biologiche, affinché nessun paese possa prendere gli altri in ostaggio.
L’Irak era certamente disarmato e nell’incapacità di riarmarsi, il momento ci sembra propizio per cercare di spingere al disarmo nucleare d’Israele. Come provare ai differenti popoli della regione che è possibile costruire la pace, continuando a chiudere gli occhi sulla una potenza militare che continua a fabbricare armi nucleari e altre armi di distruzione di massa? Come pensare di costruire questa pace reale e globale desiderata da tutti, finché Israele continuerà a tenere in ostaggio con la minaccia nucleare i popoli arabi?

Il dibattito su un Medio-Oriente denuclearizzato e senza armi di distruzione di massa non è sempre stato aperto, malgrado la sua estrema importanza per stabilire la fiducia tra i popoli della regione. Al di là delle riflessioni di tutti per criticare i governi in piazza, per denunciare gli attentati ai diritti dell’uomo, il processo di disarmo nucleare generale nella polveriera medio-orientale, resta a mio avviso prioritario.
I test nucleari pakistani effettuati nel 1998, in risposta a quelli indiani, non hanno sollevato preoccupazioni particolari in Israele, considerato come una potenza nucleare totale – la sesta del mondo – benché teoricamente “non dichiarata”.
L’entrata di un paese musulmano nel “club” delle potenze nucleari non preoccupa lo stato ebraico, e il modo moderata con cui gli USA hanno reagito a tale evento ha assicurato i responsabili.

L’ambiguità mantenuta dal governo israeliano riguardo alla “bomba ebraica” é pertanto poco a poco dissipata, e la questione non è più di sapere se Israele possiede armi nucleari, ma quale è il posto che tale arsenale ha nella sua strategia regionale.
In Israele, le autorità usano sempre il condizionale quando si tratta della bomba o delle armi chimiche e biologiche. Evocano l'”opzione nucleare” e ripetono a sufficienza che “Israele non sarà il primo a introdurre le armi nucleari in Medio-Oriente”, anche se aggiungono che “lo stato ebraico non sarà, il secondo a farlo”… E si lascia a tutti il compito di interpretare il significato di tali parole enigmatiche.

Tale ambiguità non è scomparsa, anche se dopo le rivelazioni allarmanti di un tecnico israeliano che aveva lavorato nella sezione dove si producono il plutonio, nella centrale nucleare di Dimona. Come ha detto durante il suo processo, voleva avvertire l’opinione israeliana, ma questa non ha voluto ascoltare il suo messaggio, preferendo considerarlo un traditore.
Quando un Boeing 747 della compagnia El Al si è schiantato il 4 ottobre 1992 nei Paesi Bassi, contaminando una regione, fu scoperto che Israele fabbricava anche armi chimiche. Nel 1998 la El-Al ha confermato che il suo aereo-cargo trasportava dei prodotti tossici, che all’occorrenza compongono il gas sarin.
Dopo l’incidente, molti casi di leucemie, cancro e altre malattie legate alla disseminazione di tali prodotti s’erano presentati alla popolazione. Gli ecologisti olandesi e il movimento antinucleare avevano denunciato questa  catastrofe. Purtroppo l’incidente, avendo avuto delle così terribili ripercussioni sulla salute della popolazione, è stata nascosta a tutto il mondo e ai media.

Israele possiede infine un programma di ricerche assai avanzato sulle armi biologiche e ciò ben prima la creazione dello stato ebraico.
Unità speciali israeliane hanno deliberatamente introdotto degli agenti batteriologici del tifo e della dissenteria nel sistema idrico di Acri (vicino Haifa) durante la guerra di Palestina del 1948.

Nello stesso modo, Israele possiede anche missili balistici e da crociera per lanciare queste armi di distruzione di massa come anche i sistemi di difesa anti-missile e i drone da ricognizione. Tale programma ha avuto inizio negli anni ’60. La serie dei missili balistici Jericho-1 a corto raggio fu sviluppato con l’aiuto della Francia, con una gittata di 500 km. Negli anni ’70, Israele ha sviluppato dei missili a media portata Jericho-2 possedenti una gittata di 1.500/3.000 km. Certi rapporti non confermati lascerebbero intendere che Israele avrebbe sviluppato il missile Jericho-3 dalla gittata di 4.800 km che forse può essere stato usato per lanciare un satellite spaziale israeliano, lo Shavit. Con il concorso finanziario degli USA, Israele ha creato il sistema di difesa anti-missile Arrow che è ora il solo operativo nel mondo (*). Infine, Israele é anche un esportatore di drone di cui gestisce perfettamente la tecnologia.

* Falso, tale sistema lo possiedono anche i russi dagli anni ’60 (NdT)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
E-mail: alexlattanzio@yahoo.it
URL: http://members.xoom.it/sitoaurora 


http://rai.it/news/articolonews/0,9217,69260,00.html

Il governo iraniano: “Sharon ha piu’ di 200 testate’

Il nucleare? Chiedete a Israele

Il programma nucleare israeliano iniziò negli ultimi anni ’40. La sua tecnologia e’ sempre stata all’avanguardia

Israele possiede oltre 200 testate nucleari, che fanno temere per la stabilita’ nel Medio Oriente e lo rendono la sesta potenza mondiale in materia nucleare. E’ quanto denuncia l’agenzia di stampa iraniana Irna in un dispaccio intitolato ”Gli ispettori dell’Onu restano ai margini”, nel quale si accusa Israele di aver accresciuto il suo arsenale nucleare.

Dopo aver accettato le ispezioni degli emissari dell’Onu presso siti ritenuti ‘a rischio’, Teheran riapre l’intricato capitolo dei rapporti con Israele. Non e’ un mistero che Sharon abbia in tutti i modi fatto pressione sulle diplomazie occidentali per sollecitarle a intervenire sull’Iran, che, dopo l’Iraq poteva essere il probabile successivo obiettivo della caccia alle menti del terrorismo internazionale.

Il dispaccio dell’Irna punta il dito sulla politica ‘dei due pesi e due misure’ adottata dagli uomini di El baradei impegnati a rastrellare l’intero bacino arabo rimanendo al confine della vera e reale polveriera dell’area, Israele.

Il programma nucleare israeliano iniziò negli ultimi anni ’40. Fu stabilito dal Dipartimento di Ricerca sugli Isotopi al Weissman Institute of Science, sotto la direzione di Bergmann, il “padre della bomba israeliana”, che nel 1952 fondò la Commissione israeliana per l’Energia Atomica. Sin dall’inizio, gli USA sono stati pesantemente coinvolti nello sviluppo della capacità nucleare israeliana, addestrando scienziati nucleari israeliani e fornendo tecnologia nucleare incluso un piccolo reattore per la “ricerca” nel 1995 nell’ambito del programma “Atomi per la pace”.

E’ stata la Francia, comunque, a fornire il grosso dell’assistenza nucleare ad Israele, culminata con la costruzione di Dimona, un pesante reattore ad uranio naturale e a riprocessamento di plutonio, situato vicino Bersheeba, nel deserto del Negev. Israele è stato attivo nel programma di armi nucleari francese dal suo inizio e ha fornito fondamentali competenze tecniche. Dimona diventò operativa nel 1964 e il riprocessamento del plutonio cominciò subito dopo. Nonostante le affermazioni israeliane che Dimona fosse una “fabbrica di manganese o un’industria tessile”, le misure di sicurezza estreme che sono state impiegate, hanno smascherato queste falsità.

Nel 1976 Israele ha abbattuto uno dei suoi aerei Mirage e nel 1973 un aereo civile libico che si era avvicinato troppo a Dimona, uccidendo 104 persone. Ci sono ipotesi credibili sul fatto che Israele abbia fatto esplodere almeno uno e forse diversi ordigni nucleari a metà degli anni ’60 nel deserto del Negev, vicino alla frontiera egiziana, e che abbia partecipato attivamente ai test nucleari francesi in Algeria. Dal tempo della guerra dello Yom Kippur nel 1973, Israele ha avuto un arsenale di forse diverse dozzine di atomiche pronte ed arrivò allo stato di pieno allarme nucleare.

Possedendo un’avanzata tecnologia nucleare e il meglio degli scienziati nucleari, Israele ha dovuto presto affrontare un grosso problema – come ottenere l’uranio necessario. La fonte propria di uranio erano i depositi di fosfati nel Negev, totalmente inadeguati per il fabbisogno del programma in rapida crescita. La risposta a breve termine furono i raid in Francia e Gran Bretagna per appropriarsi delle spedizioni di uranio di contrabbando e nel 1968 con il “Plumbatt Affair” collaborò con la Germania occidentale per appropriarsi i 200 tonnellate di yellowcake (ossido di uranio). Queste acquisizioni clandestine di uranio per Dimona furono successivamente coperte dai paesi coinvolti.

Ci fu anche l’ipotesi che una Società USA, Nuclear Material and Equipment Corporation (NUMEC), ha deviato centinaia di libbre di uranio arricchito a Israele dalla metà degli anni ’50 alla metà dei ’60. Nonostante inchieste della CIA e dell’FBI e udienze del Congresso, nessuno èstato perseguito. Alla fine degli anni ’60 Israele risolse il problema dell’uranio sviluppando stretti legami con il Sud Africa con degli accordi per cui Israele forniva la tecnologia e le competenze per la “Bomba dell’Apartheid” mentre il Sud Africa provvedeva all’uranio.




(Pubblicato il 02 gennaio 2004)
(Aggiornato il 02 gennaio 2004 alle ore 12:23)


http://www.warnews.it/index.php/content/view/1018/36/

Sharon irremovibile sul nucleare

Inviato da Giacomo Orlandini   venerdì, 09 luglio 2004 01:00

La missione del direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), Mohamed El Baradei, in Israele si è conclusa con un nulla di fatto. El Baradei era giunto in Israele lunedì scorso per far luce sulla presunta forza nucleare israeliana, far aderire lo Stato ebraico al Trattato di non proliferazione nucleare (NPT), e avviare i negoziati per la creazione di una “nuclear-free zone” in Medio Oriente.

Nessuno dei tre obiettivi è stato raggiunto. Sharon ha continuato nella politica della cosiddetta “ambiguità strategica”, consistente nel non confermare né smentire la presenza in territorio israeliano di armi nucleari, che la maggior parte degli esperti dà per certa.

L’unico risultato che il direttore dell’Agenzia delle Nazioni Unite è riuscito ad ottenere è stata un’astratta promessa da parte di Sharon di prendere in considerazione la creazione della zona denuclearizzata nell’ambito dell’ormai agonizzante processo di pace mediorientale.

“Ciò che ho ottenuto è l’impegno da parte del premier israeliano di lavorare in futuro per la creazione di una zona denuclearizzata in Medioriente” ha dichiarato El Baradei alla Reuters.

“Un dialogo sulle questioni di sicurezza potrebbe essere intrapreso come parte della Road map che, nella sua seconda fase, prevede la creazione di una sottocommissione sul controllo delle armi in cui discutere le questioni degli armamenti”, ha aggiunto.

Sharon non ha, però, indicato alcun termine temporale per un ritorno al dialogo su tali questioni, ma ha sottolineato il clima di insicurezza che regna in Israele.

Diplomatici vicini alle Nazioni Unite, riporta la Reuters, hanno riferito che gli israeliani hanno focalizzato l’attenzione non sui loro presunti arsenali, ma sulle paure israeliane che l’Iran stia sviluppando una bomba atomica che potrebbe usare contro Israele.

Al contrario dell’Iran, che nega la realizzazione delle testate nucleari, Israele non ha firmato il trattato di non proliferazione, e ciò impedisce alla IAEA di ispezionare le attrezzature nucleari israeliane e far luce sulla questione.

La politica dell’ambiguità strategica

Israele non ha mai ammesso né smentito di possedere armi nucleari e la stima della capacità nucleare israeliana è stata oggetto di un ampio dibattito fin dalla creazione, negli anni 60, del reattore nucleare di Dimona nel deserto del Negev.

Lo stabilimento di Dimona, costruito con un ingente aiuto da parte della Francia, è stato, nel tempo, descritto dal governo israeliano come un impianto tessile, una stazione agricola ed un centro metallurgico, finchè nel 1960 il premier Ben Gurion ha dichiarato che si trattava di un centro di ricerca nucleare con “fini pacifici”.

Il mistero attorno allo stabilimento di Dimona è stato parzialmente svelato a metà degli anni ’80 quando Mordechai Vanunu, un funzionario dello stabilimento, ha fornito al Sunday Times di Londra descrizioni e fotografie delle testate nucleari israeliane che lì venivano assemblate.

Secondo gli esperti internazionali l’arsenale nucleare dello stato ebraico raggiungerebbe le 200 testate nucleari. India e Pakistan, due Stati di recente nuclearizzazione, si attesterebbero sulle 20 e il loro arsenale, riporta la Bbc, è molto meno sofisticato rispetto a quello israeliano.

Molti Stati arabi, simpatizzanti della causa palestinese, hanno espresso grande preoccupazione per l’esistenza di un programma di riarmo nucleare di Israele, e incolpano gli Usa di adottare un doppio standard di comportamento. Da una parte, accusano la potenza statunitense di ignorare il programma di riarmo nucleare israeliano e dall’altra di considerare altri Stati, in particolare l’Iraq prima della guerra, l’Iran e la Siria una minaccia alla pace e alla sicurezza della Regione per la presunta detenzione di armi di distruzione di massa.

Nonostante Israele non abbia mai confermato l’esistenza del suo arsenale nucleare, la IAEA ha sempre agito come se lo Stato ebraico fosse una potenza nucleare (secondo molti analisti la sesta al mondo).

Il direttore dell’Agenzia ha, infatti, sollecitato Israele e i suoi vicini ad iniziare le discussioni per porre fine alla proliferazione delle armi nucleari in Medio Oriente.

“La mia paura è che senza tale dialogo le potenze regionali saranno spinte a sviluppare sempre di più le proprie armi di distruzione di massa per far fronte all’arsenale israeliano” ha dichiarato El Baradei alla Bbc.

El Baradei ha, infine, posto l’accento sullo squilibrio della sicurezza presente in Medio Oriente che sta provocando “la completa erosione della legittimità del regime di non-proliferazione”.

Giacomo Orlandini


Rai.it

Articolo stampato dal portale rai.it

Un mese fa il Mossad aveva lanciato il suo portale

Israele apre le porte del fortino nucleare

Presentato dal governo un sito dove e’ possibile per la prima volta acquisire informazioni sulla attivita’ nel settore atomico fin ora argomento tabu’. Martedi’ a Gerusalemme arriva l’osservatore Onu El Baradei

Finalmente sarà possibile vedere le foto della base militare israeliana di Dimona dove, si dice, da anni siano in corso studi per preparare armi atomiche.

Israele decide di aprire le porte al suo programma nucleare, uno dei punti più oscuri e oggetto di critiche e dubbi da parte di numerosi paesi, attraverso il sito internet presentato al pubblico.

All’indirizzo http://www.iaec.gov.il si potrà per la prima volta sapere come e quanto il governo israeliano ha puntato sull’opzione nucleare. La decisione di mettere tutto in un sito coincide con la visita del funzionario dell’Onu El Baradei in programma martedì a Gerusalemme.

Fin ora tutto il lavoro era tenuto sotto segreto e per fugare eventuali speculazioni sul suo arsenale, Sharon ha deciso di aprire i dossier e renderli pubblici. Gideon Shavit, portavoce della commissione per l’energia atomica, ha tenuto a precisare che il lancio del sito governativo e la visita di El Baradei sono del tutto casuali.

Visitando il sito si può leggere una la storia del nucleare in Israele e si possono vedere due foto relative alle dimore segrete e inaccessibili di Dimona e Sorek dove sono al lavoro i reattori. Il sito però non fa riferimento alla capacità bellica nucleare del Paese.

C’è da ricordare che Israele è uno dei paesi che non ha voluto firmare il trattato di non proliferazione nucleare e non ha mai voluto fornire ragguagli sulla sua effettiva capacità offensiva da più parti e più volte segnalata ai piani alti delle diplomazie mondiali.

L’unica volta in cui Israele suo malgrado dovette ammettere l’esistenza di attività nucleare fu nel 1986 quando il tecnico nucleare Mordechai Vanunu vendette al quotidiano Sunday Times di Londra alcune fotografie scattate di nascosto all’interno del reattore di Dimona.

Da quelle foto si potè capire che Israele aveva il deposito nucleare più grande del mondo adibito alla costruzione di armi atomiche. Il sito sull’attività nucleare israeliana segue il lancio di un altro portale, quello del Mossad. Adesso dovrebbe toccare alla polizia interna, lo Shin Bet, mettere online la propria storia e il servizio offerto alla Nazione.

Engineered by Rainet


Israele – Palestina 

11.7.2004 

Una prigione senza confini 

Viaggio nel deserto del Negev, dove i Beduini vivono tra ingiustizie e basi nucleari

Il Negev sulle mappe è un cuneo che occupa tutta la parte meridionale di Israele, ma dal di dentro è un deserto in miniatura, silenziosamente conteso e intensamente popolato da militari, coloni e beduini che, almeno sulla carta, sono israeliani.

Le comunità dei beduini nel Negev prima del 1948 assommavano oltre 60 mila individui e costituivano la grande maggioranza della popolazione del Negev. Ma già dopo la guerra e le espulsioni delle tribù nel Sinai egiziano e in Cisgiordania, in quel tratto di deserto del novello stato israeliano rimanevano non più di 10 mila beduini, ai quali per di più venivano interdetti i territori meridionali, vicini alla turistica Elat, sul Mar Rosso, e quelli nord occidentali concessi invece ai Kibbuzim e ai Moshavim, forme di insediamenti agricoli ebraici.

Oggi metà della popolazione, 70 mila beduini, vive confinata in sette insediamenti permanenti, mentre altrettanti vivono in alcune dozzine di Unrecognized Villages, agglomerati urbani non riconosciuti da Tel Aviv. Entro i confini di Israele ce ne sono oltre cento di questi villaggi di cui sulle carte geografiche non v’è traccia; in essi non v’è traccia nemmeno della civiltà visto che mancano di tutto: i servizi sanitari basilari, il collegamento alla rete elettrica, le strade, le fognature, l’acqua corrente e, manco a dirlo, le scuole. Non basta, nella maggior parte dei casi questi villaggi trovano spazio solo in zone troppo vicine a discariche, inceneritori, basi militari o industrie. Il governo israeliano tenta da anni di forzare queste persone a lasciare gli Unrecognized Villages per stabilirsi nelle Township, gli insediamenti permanenti. E i sistemi sono molti: la negazione del riconoscimento è solo il primo passo, in questo modo il governo può negare la fornitura di tutti i servizi basilari a decine di migliaia di persone. L’azione dissuasoria procede con la sistematica negazione delle concessioni edilizie per espandere le abitazioni sovraffollate e all’opposto, l’emissione di numerosi ordini di demolizione delle costruzioni illegali -puntualmente eseguiti con i tristemente noti caterpillar. Ma anche la frequente distruzione delle coltivazioni con diserbanti spruzzati dagli aeroplani e le angherie da parte di un corpo di polizia che il Ministero dell’Interno ha specificamente dedicato ai beduini: la  Green Patrol. Gli occupanti dei villaggi non riconosciuti cercano di resistere il più possibile a questo forzato inurbamento, anche perché la qualità della vita negli insediamenti permanenti non può certo dirsi migliore. Anche le township infatti sono come dei ghetti, con tassi esorbitanti di disoccupazione, criminalità e uso di droghe. I beduini che vi giungono non possono più esercitare la pastorizia e possono sperare di trovare lavoro soprattutto nel settore delle costruzioni di insediamenti ebraici.

Tutto questo rientra senza eccezioni in un progetto che porta il nome dell’attuale Primo Ministro Israeliano: il Piano Sharon per i Beduini del Negev. Il piano, votato alla Knesset nell’aprile 2003, prevede la completa concentrazione dei beduini nei sette insediamenti esistenti e ha ricevuto pesanti critiche anche da parte israeliana, soprattutto per due questioni di metodo: non sono state in alcun modo consultate le comunità beduine e i fondi stanziati sono stati impiegati in gran parte nei costi delle demolizioni, delle operazioni della Green Patrol, per diserbare i campi e pagare le spese legali necessarie ad appianare le dispute territoriali. Sebbene i beduini sulla carta godano dello status di cittadini israeliani, tanto che spesso accade che prestino servizio nell’esercito israeliano, nei fatti fanno parte della società israeliana come una sottoclasse marginalizzata. Nel dicembre 1997, molte associazioni israeliane per i diritti civili si appellarono all’Alta Corte di Israele perché imponesse al governo la costruzione di 12 cliniche negli Unrecognized Villages del Negev. La corte ne stabilì la costruzione di 6 entro 60 giorni e ancora oggi se ne attende l’applicazione. Infine, al di fuori dei villaggi e dalle riserve etniche, rimangono ancora un certo numero di tribù di beduini che non hanno rinunciato alla tradizione nomade basata sull’allevamento e il commercio di capre e dromedari. Si muovono continuamente in piccoli nuclei, con gli animali, le tende tradizionali di pelli di capra e pochi oggetti consunti, solo che non gli è più possibile coprire le distanze tra una fonte e l’altra lungo quella che una volta era nota come Via delle Spezie. Non possono per via della costante minaccia delle jeep verdi, per le continue denuncie da parte dei lavoratori dei kibbutz, ma soprattutto perché il deserto del Negev oggi è prima di tutto la caserma di Israele.

Chi si trovasse a percorrere la Road 25, da Beersheva verso la Giordania, sul lato destro della strada non vedrebbe altro che muri e recinzioni per decine di chilometri. E’ l’installazione nucleare di Dimona, che proprio in questi giorni è al centro delle attenzioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica per via del segreto strategico steso attorno alle sue 100 testate nucleari. Non è tutto: l’intero Negev è costellato di basi militari le cui lunghe antenne sbucano dietro le spettacolari rocce d’argilla e basalto e il proverbiale silenzio del deserto viene continuamente violato dal fragore degli F16 e degli elicotteri Apache. Da Beer Sheva, fin quasi alle spiagge di Elat – nella punta meridionale del paese – il deserto è prevalentemente fire.zone, zona di esercitazioni militari giorno e notte; tranne nel week-end, quando i suoi luoghi più spettacolari vengono aperti al pubblico e diventano meta surreale di turisti e inconsapevoli escursionisti.

Con tutto questo devono convivere questi ultimi gruppi di beduini nomadi, impossibilitati persino a raggiungere il vicino Sinai in cerca di spazi autenticamente sterminati, perché quella rete di basi militari si stende proprio tra loro e l’Egitto. Alcune famiglie, in un posto in mezzo alle dune dalle parti di Mash’abbè Sadè, allevano dromedari e ogni tanto ne vendono qualcuno -mille/duemila euro, destinati ai turisti sulle spiagge del mar Morto: esibiscono con quegli animali un rapporto di amicizia e profondo rispetto, come da tradizione, per la reciproca sopravvivenza.

La sera in cui mi ospitarono ci raccogliemmo sotto la tenda di pelle, seduti sulla nuda terra a mangiare il liubbe, pane tradizionale, con verdure e tè, mentre il capofamiglia raccontava antiche barzellette ambientate al tempo in cui in quella terra vivevano avveduti nomadi beduini e rozzi falah (contadini); da questa parola viene il nome phalestine. Residui di orgoglio nomade e tradizione che sopravvivono, ma oggi i confini sono stretti come non mai per loro, e quando mi rivolgo al giovane beduino che ascolta con me e gli chiedo che aspettative abbia per il futuro, lui guarda il padre e mi dice: “Voglio entrare nell’esercito, nell’Israeli Defence Force”.

Naoki Tomasini



Categorie:Senza categoria

1 replies

  1. Più leggo, più sono orripilata per quelle che è Israele, la sua ferocia, la sua prepotenza. Dato che nessun Paese può mettersi sul suo cammino, spero solo in una cosa , che qualche bomba nucleare gli scoppi fra le mani, autodistruggendolo!!!!”

    "Mi piace"

Scrivi una risposta a vittynablog Cancella risposta