BREVE STORIA DELLE VICENDE ENERGETICHE ITALIANE DAL DOPOGUERRA AL TRAMONTO DELLA SCELTA NUCLEARE

(Riporto qui un capitolo del mio libro L’Energia edito da Savelli nel 1979)

Roberto Renzetti

La crisi energetica del 1973

II 6 ottobre 1973 (in Israele ricorre la festa dello Yom Kippur) l’esercito egiziano attraversa il Canale di Suez ed attacca quello israeliano attestato sul Sinai (territorio occupato da Israele in occasione della guerra dei sei giorni del giugno 1967): è la guerra del Kippur. Le conseguenze politico-diplomatiche di questa guerra sono alla base di quella che appunto da allora viene chiamata crisi energetica. Cerchiamo di capire ciò che è accaduto tenendo presenti alcuni fatti e seguendo la cronologia degli avvenimenti:

   a) i paesi arabi, direttamente o indirettamente impegnati nel conflitto con Israele, rappresentano insieme circa i due terzi delle riserve mondiali di petrolio;

   b) i giacimenti petroliferi di questi paesi sono per la quasi totalità (89%) in mano alle grosse compagnie petrolifere multinazionali, in gran parte americane (le sette sorelle: Standard oil of Califomia, Texaco, Exxon, Mobil, Gulf, Shell, Aramco, Bp);

   e) la sola cosa sulla quale possono intervenire i governi dei paesi arabi è sul se, ed in quale misura, aumentare lo sfruttamento dei giacimenti;

   d) i paesi occidentali non sono energeticamente autosufficienti; gran parte della loro energia  deriva dal petrolio  «arabo»; in particolare gli Stati Uniti già dipendono da esso per circa il 30% del loro fabbisogno (questo valore sale per i paesi della UE ad oltre il 60%);

  e) i paesi arabi, subito dopo l’inizio della guerra, minacciano di ridurre le loro potenzialità estrattive (e quindi di originare grosse carenze di energia in tutti i paesi che dipendono dal loro petrolio) se i paesi occidentali continueranno con la loro politica filo-israeliana senza far pressione sullo stato ebraico affinché restituisca i territori occupati con la guerra del 1967;

  f) tutti i paesi aderenti all’Oapec (Organizzazione dei paesi arabi  produttori  ed  esportatori  di  petrolio)  il 17 ottobre 1973 decidono di ridurre la loro produzione di greggio del 5% ogni mese finché le ostilità dureranno e finché Israele non si ritirerà dai territori occupati (in totale si arriverà ad una riduzione del 25%);

  g) contemporaneamente (19 ottobre) la Libia quasi raddoppia il prezzo del  petrolio,  mentre  l’Arabia  (20 ottobre)  decide  l’embargo verso gli Stati Uniti (pari al 6% del suo consumo giornaliero) rei di aver lanciato un prestito a favore di  Israele  (il giorno successivo la quasi totalità dei paesi dell’Oapec si associa a questa decisione);

   h) gli Stati Uniti minacciano di inviare corpi di marines ad occupare le zone petrolifere; i governi arabi rispondono che hanno già minato i pozzi e se un solo marine si avvicinerà li faranno saltare;

   i) gli approvvigionamenti ritornano normali a seguito di alcune concessioni fatte da Israele ma, fatto importante, il petrolio ha ora un prezzo elevato che, tra l’altro, è agganciato al tasso d’inflazione del dollaro.  

   Il rialzo del prezzo  del  petrolio ha avuto conseguenze  immediate a tutto vantaggio degli Stati Uniti: è ora diventato economico sfruttare i giacimenti dell’Alaska e nel contempo si fa pagare più cara l’energia ai concorrenti europei e giapponesi in modo da sbaragliarli sui mercati mondiali (si ricordi la profonda crisi economica USA esplosa nel 1972, con la feroce concorrenza giapponese e tedesca sui mercati mondiali).

   Dicono Ippolito e Simen (1) riportando un’analisi di J. M. Chevalier: «Nel 1970 il fabbisogno degli Usa è coperto per 1’80% dalla produzione interna, ad un costo quasi doppio di quello al quale i paesi europei ed il Giappone si riforniscono in Medioriente. Perciò per gli Stati Uniti fare salire il prezzo sul mercato mondiale equivale a togliere un grande vantaggio sui suoi concorrenti. Inoltre l’aumento del prezzo consente in prospettiva agli Stati Uniti di sfruttare il loro immenso potenziale energetico sostitutivo del petrolio (carbone, scisti bituminosi, energia nucleare) a prezzi competitivi. Pertanto il rialzo del prezzo del petrolio, durante questi anni, non è solo il risultato della lotta dei paesi produttori, ma una necessità imposta dal mercato alle forze economiche dominanti».  

  A questo punto diventa indispensabile interpretare in una chiave diversa la guerra del Kippur e la crisi energetica. In particolare per il nostro Paese occorre osservare che la crisi energetica non va intesa «come fenomeno imprevedibile, determinato da una improvvisa rarefazione dell’approvvigionamento petrolifero dall’estero seguito da una repentina impennata dei prezzi, ma come punto di arrivo di un duplice disegno perseguito con metodo e costanza: in campo internazionale in favore della conservazione di situazioni di monopolio nel settore petrolifero nonostante il variare del panorama geo-politico delle fonti di approvvigionamento; in campo nazionale assecondando questo obiettivo attraverso la vanificazione di ogni tentativo  di programmazione democratica in campo energetico e facendo  perno sulle suggestioni dell’aziendalismo, sempre vive in seno alla classe dirigente nazionale, fisiologicamente ostile ad ogni istanza di pianificazione e coordinamento» (2).

   Di fronte alla crisi il nostro governo non è praticamente in grado di far nulla oltreché razionare, far terminare la programmazione TV alle 23 e non far circolare le auto la domenica. Questo governo, poiché solo il 20% dei più di 100 milioni di tonnellate di greggio che arrivano in Italia sono in mano all’Ente nazionale idrocarburi (ENI), non è in grado di controllare né produzione né consumi di petrolio, che per 1’80% sono in mano alle grandi multinazionali; oltre a ciò non ha poteri di intervento nelle raffinerie, non controlla che in modo assai ridotto la distribuzione (solo circa 40.000 chioschi), non ha che scarsi rapporti economici con i paesi arabi. Ma di queste cose ci occuperemo con maggior dettaglio più avanti quando parleremo di Mattei. Valga ora la considerazione che è quanto meno ingenuo far risalire agli «sceicchi» la «crisi energetica» e che, come al solito, tutto trae origine dalle grandi potenze multinazionali.

   Viene allora da chiedersi se c’è davvero crisi energetica e quindi quale disponibilità di petrolio c’è a livello mondiale. Alla prima domanda si può rispondere che sì, c’è crisi energetica ma nel senso di una energia che deve cominciare ad essere rispettata, socializzata e non essere più bene solo per pochi. In realtà per molti anni ci sono stati dei ritmi di vita, dei consumi che andavano sempre più nel senso dello spreco energetico. Con questo modo di procedere si è sempre più accentuata a livello mondiale la differenza tra paesi ricchi e paesi poveri e, a livello nazionale, tra padroni e sfruttati. In definitiva c’è crisi energetica nel senso che è finita la disponibilità di energia a basso prezzo.

   «Sul problema delle riserve petrolifere mondiali è opportuno fare qualche precisazione. Si dice comunemente [1978, n.d.r] ed anche da persone altamente qualificate, che con gli attuali trend di sviluppo vi sarebbero riserve mondiali di petrolio per altri 35 anni. Noi pensiamo, su basi geologiche, che le riserve potenziali siano molto maggiori. Basti pensare che attualmente si esplora nel mondo soltanto in terra ferma o nella piattaforma continentale fino ad una profondità di 200 metri. Ma è ben noto che la ricerca petrolifera va estendendosi ai fondali più profondi cioè almeno a 400 metri sulla piattaforma continentale e poi successivamente ai fondali oceanici» (3).

  Ma in definitiva, stando alle cose che fin qui ho detto sembrerebbe che in Italia si sia in balia di qualunque cosa accada in altri posti. Sembrerebbe che noi non possiamo controllare nulla e di volta in volta dobbiamo rimediare a danni che altri ci arrecano. E pensare che in una società industrializzata e tecnologicamente avanzata come la nostra l’energia è il pane quotidiano, senza di essa davvero si spegne tutto e si muore di fame. Sembra incredibile che per una cosa di questa portata dalla quale dipende la vita e la libertà di ciascuno di noi si debba dipendere da altri.

  È ciò un fatto storicamente inevitabile oppure è una vicenda che trae le sue origini da scelte politiche ben precise e da imposizioni straniere (anche violente) fatte in un passato recente?

   Cerco di rispondere andando a ricostruire la storia recente della politica energetica del nostro paese a partire dal dopoguerra in base alla documentazione a mia disposizione.

   Un poco di storia

    La politica energetica di un paese è cosa complessa poiché, come ho detto, di vitale importanza. Non ci si può occupare di una sola risorsa energetica, non si può guardare solo a breve termine lo sviluppo del paese, non ci si può affidare all’interesse privato né tanto meno all’interferenza di paesi stranieri.

   Vediamo, a partire dall’immediato dopoguerra, quali sono stati gli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia della politica energetica nel nostro paese.

  La guerra ci lascia in un disastro: più del 50% dei nostri impianti di produzione di energia è gravemente danneggiato.

  L’energia è in grandissima parte di origine idroelettrica e completamente in mano ad industrie private (Edison, Sade, ecc.).

  Il CISE

   II primo centro per ricerche applicate  avanzate  su  questioni energetiche, e in particolare sul problema nucleare, fu messo su a Milano alla fine del 1946 su iniziativa di un consorzio di privati.

   II  Centro  informazioni  studi  ed  esperienze  (Cise)  nacque  su iniziativa della Montedison (chimica), della Fiat (meccanica), della Edison e della Sade (elettriche). A questa iniziativa si aggiunsero ben presto industrie pubbliche come la Cogne e la Terni (acciai).

   Le ricerche erano portate avanti da un gruppo di fisici tra cui G. Salvini, C. Salvetti, M. Silvestri, sia dell’università che del Politecnico di Milano sotto la direzione di Giuseppe Bolla. «L’ iniziativa, a dire il vero, fu del gruppo Edison e del suo amministratore delegato ing. Vittorio De Biase, il quale — non si sa per quali vie — aveva compreso l’importanza che la nuova fonte energetica, fornita dalla fissione del nucleo atomico, poteva avere per un paese come l’Italia, che aveva allora già largamente attinto alle risorse idroelettriche, mentre era privo o quasi — ed allora in modo particolare — di fonti energetiche termiche tradizionali: carbone e petrolio» (4).

   Disinteresse dei primi governi

   I problemi connessi con la politica energetica sono completamente al di fuori della portata dei primi governi italiani. I fisici più famosi mandano dei promemoria in cui sollecitano degli  interventi finanziari a favore della ricerca in campo nucleare (5). «Quella cosa lì nucleare» risponde il presidente del consiglio De Gasperi e, con questo, muore ogni iniziativa.

  Il CNRN

   Bisogna attendere il 1952 perché nasca (su decreto del presidente del consiglio del 26 giugno) il primo ente di Stato le cui finalità sono le ricerche in campo energetico ed in particolare in campo nucleare. Nasce il Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari (CNRN) che più tardi (1960) fu trasformato in quello che per un certo tempo è diventato Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN) e che oggi ha assunto il nome di Ente Nazionale Energie Alternative (ENEA). Alla presidenza del comitato fu chiamato il prof. Francesco Giordani ed intorno a lui furono raccolti degli esperti qualificati in vari settori di ricerca: sen. M. Panetti, vicepresidente; dr. A. Silvestri Amari, prof. F. Ippolito (designati dal ministero dell’industria e del commercio); prof. B. Ferretti (designato dal ministero della pubblica istruzione); prof. E. Amaldi, on. E. Medi (designati dal Consiglio nazionale delle ricerche); prof. A. M. Angelini, ing. V. De Biase esperti industriali.

  Questo ente nasceva, ed era già un grosso passo avanti, ma soffriva di una grossa limitazione: non essendo nato in base ad una legge non aveva personalità giuridica e quindi non poteva assumere impegni o contratti, né amministrare del denaro.

  L’ENI

  Nel 1953, nel mese di marzo, nasce un altro ente che avrà un ruolo fondamentale nello sviluppo delle risorse energetiche del nostro paese (almeno per i successivi dieci anni): l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI).

  L’Italia già da tempo aveva un ente petrolifero di Stato, l’Agip, alla testa del quale (ma perché lo liquidasse!) nel 1945 era stato posto Enrico Mattei. Lo stesso Mattei però disattese quanto gli era stato imposto (la liquidazione dell’Agip appunto) dal ministro del tesoro del governo Bonomi, il liberale M. Soleri e cercò invece di potenziare quanto aveva da distruggere.

   Poiché subito dopo la guerra una missione economico-geologica americana aveva fatto intravedere la possibilità che in Val Padana ed in Sicilia vi fosse del petrolio, si scatenò una grossa battaglia da parte dell’industria privata contro l’Agip. In particolare la Edison cercò di impadronirsi della possibilità di cercare petrolio in Val Padana ma fu ostacolata in questo appunto da Mattei che credeva fermamente ad un ente di Stato che avesse  l’esclusiva nelle ricerche petrolifere (o metanifere) sul territorio nazionale.

   Ebbene la nascita dell’ENI sanciva tutto questo: «al nuovo ente veniva affidato il compito di promuovere ed attuare tutte le  iniziative nazionali nel campo degli idrocarburi  e dei vapori  naturali. Veniva in particolare riservata all’Eni, in esclusiva, la  ricerca e la coltivazione degli idrocarburi per tutta la valle padana, ad eccezione delle province di Ferrara e Rovigo, dove venivano riconfermati i diritti delle società private che già vi operavano» (6).  

   Era una grossa vittoria di Mattei sull’industria privata e sui  suoi rappresentanti in Parlamento (si pensi che nel 1949 il ministro dell’industria, il socialdemocratico I. M. Lombardo presentò un progetto di legge nel quale sostanzialmente si sosteneva che non solo i privati potevano far ricerche petrolifere sul nostro territorio, ma anche gruppi stranieri).

  La bomba H italiana

  Che si marciasse su questa strada era assolutamente positivo, ma per rendere conto di quanto isolate erano queste iniziative e del livello cialtronesco con cui si credeva di poter far ricerca nel nostro Paese c’è l’interessante episodio (che risale al 1952) del tentativo di costruzione di una bomba H da parte del nostro esercito nel poligono di Nettuno (vicino Roma). L’interessante è che né USA né URSS erano ancora riusciti nell’impresa. Per far intendere il senso di questa buffonata (che, si badi bene, costava soldi dello Stato) basti dire che per innescare una bomba H  occorrono temperature dell’ordine di 100 milioni di gradi, temperature che nelle attuali bombe H sono raggiunte usando come innesco una bomba atomica del tipo usato da Hiroshima. Ebbene a Nettuno, si  usavano  esplosivi  ordinari  i  quali  raggiungono  temperature estremamente più basse di quella occorrente che è una temperatura che non si trova neanche all’interno del Sole.

  Enrico Medi

  Oltre a questi episodi «paralleli» ve ne erano degli altri all’interno delle iniziative di ricerca che si portavano avanti. La classe politica dirigente italiana, assolutamente insensibile ai problemi energetici e tanto meno a quelli della ricerca scientifica, era però capace di imporre suoi uomini, in modo clientelare, al seguito (e a volte ai vertici) degli enti o dei comitati che si occupavano di studi o ricerche sui problemi in oggetto. È il caso clamoroso del fisico Enrico Medi che brillò per la sua incompetenza oltreché incapacità.

   A proposito di Medi, Ippolito dice che entrò a far parte del CNRN, «non tanto per il suo valore scientifico, che era modesto, ma per il fatto che egli, ex deputato democristiano, rappresentava un certo legame col mondo cattolico. Medi, oltre a essere un   democristiano, era una persona molto vicina a papa Pacelli» (7).

  Nel 1958 l’Italia, alla quale spettava la vicepresidenza, doveva designare il suo rappresentante all’Euratom (ente nato nel marzo 1957 dalla collaborazione dei paesi del Mercato Comune Europeo ai fini di uno sforzo comune sulle ricerche nucleari). Ebbene quest’uomo fu Enrico Medi.

     Dice M. Silvestri: «Enrico Medi era cattedratico di fisica terrestre presso l’università di Roma, nonché membro del CNRN  e predicatore di larga fama [insieme a Luigi Gedda dei Comitati Civici e padre Lombardi, aveva fatto una feroce campagna ante Fronte Popolare nel 1948, n.d.r.]. La sua nomina [alla vicepresidenza dell’Euratom, ndr] provocò all’Italia il massimo danno compatibile con le sue capacità» (8). Per non lasciare nel vago quanto detto è interessante raccontare due episodi che sono illuminanti relativamente alle due affermazioni che facevo all’inizio: incompetenza e incapacità.

   Nel marzo del 1959 il vicepresidente dell’Euratom, Medi, si recò negli Stati Uniti per una visita di lavoro presso una società americana la Nuclear Development Associates (NDA). Racconta M. Silvestri (9); «Tutti intorno ad un tavolo per intervistare il professore sulle sue idee, su quello che gli piacesse, sulle intenzioni dell’Euratom: “Ci dica, professor Medi, lei inclina verso i reattori ad uranio naturale o verso quelli ad uranio arricchito?” […] Il professor Medi, dopo un minuto di silenzio durante il quale sembrava aver riflettuto intensamente, pronunciò la sua sentenza: “Arricchito”. […] Ma la risposta era incompleta e, per i gusti americani, andava motivata. Quanto doveva essere arricchito l’uranio, secondo il parere del professor Medi? Il silenzio si  rifece  più  teso  di  prima.  Medi  volse  il  capo  verso  l’alto, mentre le sue pupille sembravano messe a fuoco su di una distanza molto maggiore, sulle nubi, che non si vedevano a causa del soffitto, e sulla Divina Provvidenza, che è più lontana per definizione. Poi, in un soffio, la risposta: “Un tantino”. Da teso, il silenzio si fece imbarazzato, poi gelido. Tutti si aspettavano qualcosa di più, ma il professor Medi era arrivato allo stremo della sua compromissione. […] Un ingegnere del NDA colse al volo il da farsi: “Caffè, tè?”».

   L’altro episodio che riguarda il professore che, come dice Silvestri, confondeva una miniera di uranio con una centrale elettrica, risale alla metà degli anni  ’60. A Medi  fu affidato l’incarico di impiantare in Sicilia, a Gibilmanna, vicino Catania, un osservatorio geomagnetico. Vale la pena di dire che la cosa è assolutamente delicata, basti solo pensare che per la costruzione dell’edificio non bisogna assolutamente usare del ferro (né tondino di ferro per i travi in cemento armato, né chiodi, né viti), il tutto poi deve essere assolutamente isolato da ogni interferenza esterna, da ogni vibrazione, da qualunque cosa possa minimamente turbare gli strumenti sensibilissimi che sono all’interno dell’edificio. Ebbene, alla fine dei lavori che sono costati allo Stato 500 milioni, si è scoperto che vicinissimo all’osservatorio passavano i cavi ad alta tensione di un elettrodotto e una ferrovia. «A quest’uomo il governo italiano ha affidato per sette anni — finché non diede spontaneamente le dimissioni — la vicepresidenza dell’Euratom. […] E quando lo dovettero sostituire gli diedero a successore il professor Carrelli, già presidente della Rai-Tv, che in fatto di ingegneria nucleare era un po’ meno competente di Enrico Medi. […] Medi e Carrelli erano simpatizzanti democristiani, caratteristica importante, ma non qualificante.  […]  L’aver dato loro una così grande responsabilità costò all’Italia parecchi miliardi e una grave perdita di prestigio» (10).

   Ippolito segretario generale del CNRN

   A partire dalla prima riunione del CNRN, Ippolito fu designato dal presidente Giordani a fare il segretario (poiché era il più giovane) e per circa tre anni mantenne questa carica. «Nel 1955 Giordani si dimise e, nella delibera che accettava le sue dimissioni, si scrisse: “II Comitato si dimette e lascia la normale amministrazione nelle mani del professor Ippolito, segretario generale”» (11). Nacque cosi, almeno a detta di Ippolito, la figura del segretario generale che all’inizio non era stata assolutamente prevista. Questa carica si consolidò diventando sempre più importante nel periodo che va dall’autunno del 1955 all’estate del 1956, periodo nel quale non ci fu presidente alla testa del CNRN. Tra l’altro, dopo le dimissioni di Giordani, il governo Segni non rinnovò il Comitato nominando invece, in modo ufficiale, Ippolito a segretario generale ma più per liquidare ogni attività del CNRN che per portarne avanti il lavoro. Ippolito approfittò di questo momento e anziché liquidare il CNRN lo potenziò assumendo persone e iniziando campagne giornalistiche per far pressione sul governo affinché si impegnasse di più nella politica nucleare (con leggi istitutive, con provvidenze, con finanziamenti adeguati). Nell’estate del  1956 fu eletto il nuovo presidente del CNRN nella persona del senatore democristiano Basilio Focaccia. Il fatto che egli fosse assolutamente digiuno di questioni nucleari aiutò Ippolito a portare avanti con decisione la sua politica di potenziamento del Cnrn.

   Ispra I

  Sotto la presidenza Giordani il CNRN prende contatti con varie società USA per l’acquisto di un reattore nucleare di ricerca. L’acquisto fu deliberato sotto la presidenza Focaccia: si trattava di un reattore Cp5 della società Allis Chalmers (era stato scelto da Giordani, Arnaldi, Ferretti e Salvetti). Il reattore fu quindi fatto venire in Italia, montato a Ispra, inaugurato il 13 aprile del 1959 e battezzato Ispra I (verso la fine del 1959, l’intero centro di ricerche nucleari di Ispra fu ceduto dall’Italia all’Euratom, come avveduto gesto politico di Ippolito).

   Le tre centrali

   L’industria elettrica comincia a capire che occorre sbrigarsi perché lo Stato potrebbe iniziare a produrre in proprio energia elettrica ottenuta per via nucleare. Alla fine del 1955 il presidente della Edison, ingegner Valerio, si reca negli Usa per trattare l’acquisto di una centrale nucleare. Il contratto fu firmato nel 1957 con la Westinghouse (il finanziamento fu garantito dalla Export-Import Bank americana). Il reattore era del tipo ad acqua in pressione (Pwr) della potenza di 242 Mw ed entrò in funzione nell’ottobre del 1964 a Trino Vercellese. Fa però prima l’industria di Stato o a partecipazione statale. Tra il luglio del 1957 ed il luglio del 1958 la Iri-Finelettrica tramite la SEN (Società Elettronucleare Nazionale) ordinò alla General Electric un reattore del tipo ad acqua bollente (Bwr) della potenza di 150 Mw. Il  reattore  entrò  in  funzione  nel  gennaio  del  1964  sul  fiume Garigliano nel comune di Sessa Aurunca. Nel mese di novembre del 1957 l’ENI, che nel frattempo (1956) aveva costituito una sua sezione che si occupava di costruzioni nucleari (l’Agip nucleare), nella persona di Enrico Mattei ordinò all’inglese Nuclear Power Plant Company un reattore del tipo Magnox della potenza di 200 Mw. Il reattore, al contrario degli altri due, era ad uranio naturale e raffreddato a gas. La centrale fu costruita vicino Latina ed entrò in funzione nel maggio del 1963. Sul costo delle tre centrali non si sa nulla di preciso. È stata fatta ufficiosamente la cifra complessiva di 152 miliardi, ma sulla sua attendibilità non sono in grado di dire nulla. Riguardo ai costi «secondo stime ufficiali dell’Enel l’energia elettrica da esse prodotta costava per un funzionamento di 7.000 ore all’anno, lire 7,80 (Latina), lire 7,20 (Garigliano), 5,40 (Torino), di fronte al costo dell’energia tradizionale inferiore a lire 5. Ciò significa che l’onere annuo che l’Italia deve sostenere si aggira sui sette-otto miliardi» (12). Sul problema dei costi si scatenerà la polemica qualche anno più tardi. Per ora c’è solo da osservare che questo, allora, era inevitabile come del resto importante era proseguire sulla strada dell’acquisizione immediata di tecnologie per potersi al più presto inserire nel mercato nascente.

  Il CNEN

   Nel gennaio del 1960 il Parlamento iniziò a discutere la legge nucleare attesa da molti anni. Poiché il progetto di legge presentato da Colombo fu giudicato troppo «statalistico» dalla destra esso non fu portato (agosto 1960) completo all’approvazione ma solo in stralcio. Sostanzialmente si costituiva il Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN), che prendeva il posto del CNRN,e si finanziava con 80 miliardi il primo piano quinquennale.

   «In definitiva la legge 11 agosto 1960 n°933, pur presentando varie incongruenze (fondamentale quella della presidenza dell’ente affidata al ministro pro tempore dell’industria, che assumeva la figura di controllore-controllato) rappresentò un sostanziale passo avanti […]. Venivano al nuovo ente, non solo le attribuzioni che erano già state del CNRN, ma altresì nuove   responsabilità come quella di procedere al controllo e alla vigilanza tecnica su tutti gli impianti nucleari, sia in fase di costruzione che di gestione, di eseguire i collaudi» (13). Ippolito è nominato segretario generale del CNEN ed inizia così a portare un attacco al CISE togliendogli con proposte e contratti allettanti gran parte dei ricercatori. Il CISE di fatto non riesce più a lavorare ed il CNEN diventa l’unico ente che in Italia si occupa di ricerche applicative in campo nucleare. Nel portare avanti le sue spregiudicate operazioni l’intraprendente Ippolito si muove anche politicamente stringendo amicizie e operando a fianco delle forze che stanno per dar vita al primo centrosinistra (tra questi il potentissimo presidente della Fiat, Vittorio Valletta).

   In questa prima fase di attività il CNEN assume il ruolo di finanziatore delle sezioni nucleari che sono state messe su dalle varie industrie private, questo almeno fino al 21 dicembre del 1962, quando dal primo governo di centrosinistra venne approvata la legge nucleare. «L’importanza della legge era notevole, dato che eliminava una situazione di carenza giuridica, che aveva creato gravi difficoltà in passato e che sempre maggiori ne avrebbe suscitato col sempre maggiore sviluppo della nuova fonte di energia» (14).

    Una delle cose che la legge prevede è che «la produzione di  energia nucleare è riservata allo Stato o a società a prevalente partecipazione statale»; d’altra parte era appena nato l’Enel (fine 1962) e quindi questa disposizione era logica conseguenza di quanto previsto nella legge che istituiva l’Enel stesso.

   Quando fu approvata la legge nucleare il primo piano quinquennale (1959-1964) del CNEN era già in esecuzione. Il piano prevedeva lo studio di quattro tipi diversi di reattori da progettare e sperimentare per trovare quello che più si adattava alle esigenze italiane: reattore ad acqua bollente, reattore moderato con sostanze organiche deuterate, reattore refrigerato con metallo  liquido e reattore refrigerato a gas ad altissima temperatura.

   Il progetto era decisamente ambizioso, qualcuno dice avveniristico e qualcun altro folle. Rimane il fatto che questo fu il primo (e l’unico) serio tentativo di mettere l’Italia in corsa a  livello mondiale per la produzione e la vendita di reattori nucleari. Stavo dicendo che all’approvazione della legge nucleare il  primo piano quinquennale era già molto avanti. Tra l’altro era  già stato presentato (ottobre 1962) il secondo piano quinquennale (1965-1969). «Esso prevedeva la progettazione e l’installazione di mille-millecinquecento Mw elettronucleari entro il 1970 con due-quattro centrali» (15).

   Agli inizi del 1963 Ippolito fu nominato consigliere dell’Enel sotto la presidenza dell’avvocato democristiano Antonino Di Cagno. «Tutti i designati [al consiglio di amministrazione, ndr] si resero dimissionari,  come voleva la  legge,  dalle  cariche  che occupavano, compreso Ippolito, per quanto riguardava la cattedra di geologia applicata, che occupava da molti anni presso l’università di Napoli. Ma non si fece parola della sua posizione presso il CNEN, benché il fatto fosse arcinoto alle autorità politiche che ebbero la responsabilità della scelta. Fu Ippolito a prendere l’iniziativa di dare le dimissioni da segretario generale del CNEN, facendosi però subito riassumere quale consulente con lo stesso compito e la stessa retribuzione, eliminando solo formalmente il rapporto d’impiego» (16). Quest’ultima cosa l’ho riportata perché su di essa faranno «cadere» Ippolito più tardi.

  Il centro  sinistra

  Tutte le cose che sto raccontando hanno evidentemente dei riferimenti ben precisi con le vicende politiche che il Paese attraversa.  

   Dopo la cacciata delle sinistre dal governo nel 1947 è la Democrazia Cristiana che dirige l’intera vita politica italiana. Con governi monocolore, di centro destra o di centro, a seconda delle opportunità politiche e delle maggiori o minori pressioni che vengono da parte dei potentati economici e di coloro che detengono vecchi o nuovi privilegi, la DC mantiene tutto il potere e come una piovra si insinua ai vertici di tutti i posti che contano. Evidentemente tutto questo gli è permesso dal padronato nazionale ed internazionale perché sotto una parvenza populistica questo partito garantisce una continuità di fondo con il regime fascista (amministra le stesse leggi, con gli stessi magistrati, con gli stessi direttori generali e capi divisione, con lo stesso esercito). I privilegi sono sempre dalla parte di chi li aveva avuti nel passato; in più si comincia ad affermare una borghesia che non ha niente a che fare con quella imprenditoriale dei paesi europei d’oltralpe; questa borghesia è quella  parassitaria che molto bene oggi conosciamo e molto cara oggi paghiamo. All’ombra della DC tutto è lecito: il sottogoverno prospera, gli scandali si moltiplicano ed anche qui si gettano le basi di tutti quegli altri scandali che oggi stanno venendo alla luce (19) [si noti che queste cose le scrivevo nel 1978, n.d.r].

  La Democrazia cristiana (segretario Aldo Moro) tocca il culmine della provocazione quando nel 1960 il presidente della repubblica Giovanni Gronchi dà l’incarico di formare il nuovo governo a Ferdinando Tambroni (esponente della sinistra DC). Questi forma un governo sostenuto dal MSI ( i fascisti). Le sacrosante reazioni popolari fecero cadere subito questo governo (19 luglio 1960) ma molti morti tra lavoratori e studenti si dovettero contare nelle piazze di tutta Italia. Si va così avanti con dei monocolori sostenuti dall’esterno dai partiti satelliti di sempre (PSDI, PLI, PRI) finché nel febbraio 1962 Fanfani forma il primo governo di centro sinistra composto da DC, PSDI, PRI e con l’appoggio condizionato del PSI (la collaborazione organica del PSI, anche con responsabilità governative, iniziò l’anno successivo con Moro presidente del consiglio). Le cose sembrava partissero bene:  riforma della scuola media, imposta cedolare sulle azioni, legge sulle pensioni, unificazione del sistema elettrico con la nazionalizzazione e la creazione dell’Enel. Si vararono leggi che attendevano da tempo, si presero provvedimenti che servirono a far marciare più velocemente questa o quella iniziativa. Ma tutto morì su questo fervore di attività. Dietro di esso infatti grossi condizionamenti che venivano dal grande capitale internazionale erano intervenuti a bloccare tutto. Non solo. Anche quei campi d’attività dove si era sviluppata una politica autonoma e per molti versi vincente, ad esempio sui mercati internazionali (ENI, Olivetti, ecc.) ebbero un brusco arresto. Si aprì completamente l’Italia al capitale straniero con tutti i condizionamenti politici ed economici che questo fatto comportava (18). L’Olivetti che era l’industria italiana di punta del settore elettronico stava immettendosi sul mercato mondiale dei calcolatori elettronici. Nel 1964 il nostro governo permise che questa grossa speranza del nostro Paese fosse acquistata dalla multinazionale americana Fairchild. Per quel che riguarda poi l’argomento di cui ci stiamo occupando, come già detto, nel ’62 fu approvata la legge nucleare e fu nazionalizzata l’energia elettrica con la creazione dell’Enel. Ma nello stesso tempo nell’ottobre 1962 viene assassinato Mattei, un anno dopo viene liquidato Ippolito, la politica energetica del nostro Paese passa completamente in mano alle sette sorelle e al capitale internazionale.

  Enrico Mattei

   Non intendo qui certamente raccontare tutta la storia di Enrico Mattei ma solo indicare qualche tappa, qualche momento che serva a far capire il tipo di politica da lui portata avanti, quali protezioni aveva, quali interessi intaccava e quindi il perché è stato eliminato.

  Abbiamo già ricordato che nel 1945 Mattei fu messo a capo dell’Agip perché la liquidasse. Frugando però tra i documenti riservati dell’ente ne trovò uno che parlava della scoperta di un giacimento di metano fatta nel 1944 in un paesino della Val Padana. Questa scoperta era stata tenuta segreta alle autorità tedesche di Milano. I lavori erano stati sospesi in attesa dell’esito della guerra. Il rinvenimento di questo documento fu la base di lavoro di Enrico Mattei e dell’Eni. Cominciarono quindi le prime ricerche e si cominciò a trovare il primo metano nella pianura padana. Mattei riuscì subito a vincere la guerra con i  privati che chiedevano concessioni. Grazie ai suoi appoggi politici (era membro del consiglio nazionale della DC e consultore nazionale dell’Anpi alla Consulta Nazionale) in particolare del ministro Ezio Vanoni, riuscì ad ottenere l’esclusiva delle ricerche e dello sfruttamento in Val Padana.

    Mattei sa sfruttare ogni minimo appiglio per dar forza a sé ed all’Agip. Nel 1949 sfrutta abilmente la scoperta di una piccola quantità di petrolio in un giacimento di metano. Batte grancassa aiutato dal «Corriere della Sera»; in Italia c’è il petrolio! Questo imbroglio durò poco ma bastò il tempo necessario affinché in Parlamento fosse presentata ed approvata la legge che istituiva l’ENI (1953). La nascita di questo ente fu certamente una grossa vittoria contro la Confindustria che aveva tenacemente avversato la sua nascita e contro le multinazionali del petrolio che vedevano poco benevolmente il sorgere di un ente di Stato come concorrente. Da questo punto inizia la scalata di Mattei. Egli «seppe sfruttare nella maniera migliore il caos della direzione politica italiana. La sua leva di potere principale fu la DC, un partito senza un’ideologia se non quella dell’interesse privato, composto di tendenze ed uomini diversissimi fra loro, uniti soltanto da un’alleanza per il potere, per mantenere il potere. Mattei s’appoggiò, e quindi finanziò ora un gruppo, ora un altro, spesso più gruppi insieme. […] Comprò consensi anche in altri raggruppamenti politici. […] La corruzione ha una parte importante nella scalata al successo di Mattei» (19).

     «Per Mattei non sussistevano né problemi di legittimità, né problemi di controllo» (20).

     Tra l’altro egli «ha insegnato ai suoi successori come si può comprare la repubblica. È stato il più grande corruttore di questo Paese» (21).

     Ad un certo punto Mattei capì che il bluff del petrolio Italiano non poteva durare. Incominciò allora a rivolgersi ai Paesi produttori di petrolio. Evidentemente, nel cercare di penetrare in zone già di fatto monopolizzate dalle sette sorelle, si urtavano grossissimi interessi. Questo Mattei lo sapeva ma non desistette. Anzi entrò in concorrenza con le grosse compagnie petrolifere offrendo ai Paesi produttori condizioni più vantaggiose. «Escogitò una formula per cui il rischio iniziale della esplorazione veniva totalmente assunto dall’Eni, di modo che in caso di  completo fallimento delle ricerche il governo che dava la concessione non subiva alcun danno […]; se e quando si trovava il petrolio in quantità commerciale utile […] allora il Paese si assumeva in pieno la qualità di socio: doveva pagare metà del costo di sviluppo del giacimento e rifondere entro un certo periodo di tempo le spese d’impianto affrontate dai concessionari stranieri. Come contropartita il paese produttore diventava anch’esso proprietario di metà del petrolio e gas naturale prodotto, oltre a percepire la tradizionale parte del 50% sui margini risultanti tra il costo materiale ed il prezzo di vendita del petrolio greggio. […] L’effetto psicologico di questa innovazione [rispetto alla classica condizione del solo 50%, n.d.r] fu considerevole: sembrò elevare la condizione del governo in causa da quella di collettore di tasse e di oggetto di munificenza a quello di coindustriale, di socio attivo, senza tuttavia che il governo partecipasse al rischio di una perdita totale dovuta a una eventuale assenza di petrolio» (22).

   Contemporaneamente alla politica di penetrazione nel mercato del petrolio, Mattei portava avanti anche un’altra politica, quella della raffinazione e della petrolchimica. «Basti pensare in proposito all’azione che egli intraprese nel settore dei fertilizzanti dove infranse totalmente il monopolio  fino allora detenuto dalla Montecatini provocando un ribasso del prezzo dei fertilizzanti dell’ordine del 25-30%» (23).

     Mattei ebbe anche il merito di aprire verso i mercati dell’Est con interscambi particolarmente vantaggiosi per ambedue i contraenti: macchinari italiani in cambio di petrolio sovietico (tra l’altro questa operazione di importazione di petrolio dall’Urss da una parte sottrasse Mattei ai ricatti del monopolio delle grandi compagnie petrolifere, dall’altra svincolava l’Italia dal pagamento di una parte del greggio con valuta pregiata, dall’altra ancora riforniva l’Italia con petrolio che costava molto meno rispetto a quello del monopolio delle sette sorelle).

  Anche su questo fronte Mattei fu duramente attaccato sia in Italia che all’estero: vi furono continue proteste americane a livello del  nostro governo.  E quando espose la sua linea  di politica energetica, difendendo le sue scelte, in un convegno a Piacenza (1960), un alto funzionario americano del monopolio del petrolio si meravigliò con P.H. Frankel del come mai nessuno avesse ancora trovato il modo di far uccidere Mattei. I primi grossi scontri di Mattei con le multinazionali del petrolio iniziarono comunque nel 1957.

  La Francia aveva scoperto nel Sahara, in territorio algerino, grossi giacimenti petroliferi. L’Algeria era allora possedimento francese e pertanto gli americani non potevano intervenire scopertamente contro qualcuno o corrompendo qualcun altro. Essi agirono su due fronti, da una parte finanziando il Fronte Nazionale di Liberazione algerino (è incredibile che gli Usa sembrino rispettosi della libertà di un popolo!) e dall’altra chiedendo ripetutamente all’Onu che si votasse una risoluzione favorevole alla sua indipendenza politica. Di fronte a queste manovre la Francia cedette ad un accordo con le compagnie petrolifere relativo allo sfruttamento del Sahara. Mattei cercò di inserirsi nell’affare trattando con il re Idris di Libia in modo da ottenere concessioni per la ricerca e l’eventuale sfruttamento nelle zone di Sahara confinanti con quelle algerine. All’inizio tutto andò bene. Ci si accordò su tutto ma, all’ultimo momento, intervennero gli Usa a bloccare ogni cosa. Fu la Esso a far pressione direttamente sul governo americano perché intervenisse su quello libico. Comunque Mattei non si fece scoraggiare. Riuscì a firmare accordi per il Sahara tunisino. Concluse poi contratti con la Somalia, con la Nigeria, con il Marocco, con il Ghana, con il Kenia e con l’Uganda. Il 6 novembre del 1962 doveva firmare un accordo con l’Algeria ormai indipendente per lo sfruttamento del Sahara algerino. Era un fervore di iniziative che sempre più preoccupava il cartello americano.

   Anche in Italia l’Eni si espandeva vistosamente: il cane a sei zampe comincia ad interessarsi anche di nucleare ed acquista, dalla Gran Bretagna, il reattore di cui già abbiamo parlato. Chioschi di vendita, raffinerie, motel dappertutto ed in particolare grosso impegno economico-finanziario in Sicilia, intorno a Gela. Fu proprio al ritorno da un viaggio in Sicilia che il suo aereo privato esplose in aria, prima dell’atterraggio, all’aeroporto di Milano. Era il 27 ottobre 1962. Da soli sei giorni Mattei era tornato dalla Sicilia e questo secondo viaggio non sembrava in alcun modo previsto. Fu sollecitato dal «suo collaboratore» siciliano Graziano Verzotto il quale gli prospettò il pericolo di disordini popolari nel comune di Cagliano (nel quale Mattei aveva pubblicamente promesso di costruire uno stabilimento che avrebbe occupato 400 operai) se non fosse subito intervenuto a  tranquillizzare la popolazione.

   Qualcuno però dice che Mattei si recò in Sicilia per finanziare alcuni esponenti libici che preparavano il colpo di Stato contro re Idris (questo colpo di Stato avrebbe riaperto a Mattei l’opportunità di sfruttamento del Sahara libico). In ogni caso mentre Mattei non si concedeva sosta per cogliere ogni occasione che avrebbe fornito petrolio all’Italia a scapito del monopolio petrolifero, le compagnie che si sentivano danneggiate preparavano con sempre maggiore cura l’eliminazione di Mattei dalla scena.

    «Di certo si può dire che da vari mesi all’Hotel delle palme di Palermo aveva preso alloggio Max Corvo, un agente del Fbi che faceva parte dei servizi di controspionaggio americano dal 1943. Corvo, all’epoca dello sbarco alleato in Sicilia, aveva preso contatti con esponenti della mafia locale. Il governo americano si servì infatti della massa di italo-americani e soprattutto di siciliani che vivevano negli Stati Uniti come arma di penetrazione, per garantirsi certi risultati, frenando ogni movimento di liberazione che avesse fini rivoluzionari e assicurandosi il controllo dell’Italia meridionale. In questo trovò un valido appoggio nella mafia. Michele Pantaleone, noto esperto di cose di mafia […] ha fatto interessanti rivelazioni» (24) tirando pubblicamente in ballo l’oriundo siciliano Carlos Marcello (vero nome Calogero Minacori) che era comunemente ritenuto un agente della Cia. «Mi risulta che Marcello nell’ottobre 1962 prese parte ad un convegno segreto a Tunisi, organizzato da petrolieri americani. Dopo il convegno, con un certo Badalamenti,  Marcello passò da Tunisi ad Algeri, da qui a Madrid e quindi a Catania. Carlos Marcello era a Catania due giorni prima della morte di Enrico Mattei» (25).

   Così Mattei morì sul suo aereo il 27 ottobre 1962. Di certo non si sa nulla [alle cose che scrivevo nel 1978 si sono aggiunti i documenti della CIA relativi a questa vicenda, resi pubblici dall’apertura degli archivi: secondo tali documenti il piano di eliminazione di Mattei fu progettato e finanziato dalla CIA medesima, n.d.r] . Di certo dava fastidio a qualcuno che ha pensato bene di toglierlo di mezzo. Questo qualcuno si è servito ora della mafia, ora della DC per raggiungere il suo scopo. D’altra parte i collegamenti tra mafia e DC non sono cosa nuova perché io debba ricordarli qui. Si ricordi solo la strage di Portella della Ginestra, Mattarella, Gioia, Lima, Ciancimino; si ricordi l’infiltrazione mafiosa (Rimi) alla regione Lazio ad opera della DC  (Mechelli), si ricordi la commissione parlamentare antimafia che, presieduta da un DC, ha perso il suo presidente perché sospetto mafioso; si ricordi che in tanti anni questa commissione parlamentare non ha mai messo sotto accusa nessuno: la mafia non esiste!

  L’altro collegamento, quello della DC con le multinazionali e  con i governi che le rappresentano, è anch’esso troppo noto  perché vi si debba dedicar tempo. Anche qui basti ricordare un  solo episodio. Secondo una dichiarazione del fratello di Mattei  «pochi giorni prima dell’attentato suo fratello ebbe un incontro  estremamente burrascoso con il presidente del consiglio Amintore Fanfani e con Ugo La Malfa [lo stesso che all’epoca parlava di stringere la cinta perché non avevamo il petrolio, ndr]. Fanfani rinfacciò a Mattei alcune sue azioni e gli riferì che il presidente degli Stati Uniti gli aveva chiesto ragione della politica petrolifera di Mattei per gli acquisti del grezzo sovietico. […] La cosa evidentemente non dovette far piacere a Mattei che si inalberò e  minacciò il presidente del consiglio, fra l’altro, di levargli il suo  appoggio all’interno del partito e di sostenere Aldo Moro» (26).

    «La scomparsa repentina di Mattei nell’ottobre del 1962, in un momento particolarmente delicato e quando l’ente da lui  presieduto era fortemente impegnato dal punto di vista finanziario non solo in Italia ma all’estero, segnò il tracollo della sua  politica. I suoi successori non poterono o non vollero seguire la stessa politica segnatamente nei riguardi delle grandi compagnie del cartello. Pochi mesi dopo la sua scomparsa, il suo successore già siglava un armistizio con la più agguerrita delle compagnie petrolifere: la Esso. Dopo d’allora la politica dell’ente è mutata radicalmente anche nei suoi aspetti nazionali» (27).

    Con Mattei moriva il punto di forza della politica dell’indipendenza energetica del nostro paese.

  Felice Ippolito

  Delle vicende che hanno portato Ippolito al vertice del CNEN ho già parlato. Restano da raccontare le vicende che portarono Ippolito in prigione e quindi fecero morire ogni velleità dell’Italia di rendersi autonoma da un punto di vista energetico ed in possesso di tecnologie da poter esportare.

   L’11 agosto 1963, mentre Ippolito era in vacanza ed il CNEN nel letargo estivo, uscì sul «Corriere della sera» un articolo che diede inizio alla «guerra nucleare». L’articolo, su due colonne, aveva il titolo Elettricità ed energia nucleare e più in basso in grossi caratteri Dilapidazioni denunciate da Saragat. Già, il nome è proprio quello che avete letto: Saragat. Ma che c’entra questo personaggio? In ogni cosa americana c’è sempre il suo zampino e siccome questa è una cosa americana ecco Saragat.

    Il nostro ex presidente della repubblica aveva  diramato  una nota tramite un’agenzia del suo partito (quello socialdemocratico – PSDI) ed il «Corriere della sera» l’aveva ripresa e riassunta. In questa nota si sostiene che l’Enel è quanto di meglio ci si  possa attendere sul piano produttivo ed organizzativo mentre il CNEN amministra in modo a dir poco disinvolto i soldi che lo Stato gli passa. Saragat così prosegue:

«La verità è che negli enti che predispongono spese per la parte atomica occorrerebbe gente responsabile che conoscesse la materia, vale a dire studiosi seri, affiancati da amministratori oculati. Nel campo dell’energia nucleare sono avvenute, in Italia, dilapidazioni che meriterebbero un’analisi più approfondita e che, in ogni caso, non possono essere più tollerate. Il pubblico denaro deve essere amministrato con oculatezza e con senso di responsabilità».

   Prendendo poi in considerazione le centrali nucleari italiane , Saragat sosteneva che esse dal punto di vista economico erano  un vero disastro. Secondo Saragat la costruzione di centrali  nucleari per la produzione di energia elettrica era assimilabile  alla costruzione di una segheria con l’intento di produrre segatura. Fin qui il capo del PSDI. Naturalmente resta da capire da chi  gli era venuta l’imbeccata visto che Saragat di queste cose era  assolutamente digiuno e non se ne era mai occupato. Questo  forse resterà un mistero a meno che non si voglia indagare a  fondo sui viaggi negli Usa fatti da questo personaggio e sui flussi di denaro nelle casse dell’ex PSDI. Lo stesso Ippolito dice che

«fra tutte le azioni convergenti contro di me è stata certamente preminente l’azione svolta dalle multinazionali petrolifere» (28). «I petrolieri desiderosi di smistare barili e costruire nuovi impianti di raffinazione, avevano tutto l’interesse che l’Italia non sviluppasse una politica nucleare alternativa al petrolio. E il mio tentativo di creare un’industria nucleare italiana urtava appunto gli interessi delle “sette sorelle”, i grandi gruppi — integrati — che, coprendo tutto il ciclo del petrolio, dalla ricerca alla vendita del prodotto finito, dominavano il mercato mondiale. Né era gradito alle grandi compagnie americane costruttrici di reattori e agli ambienti conservatori (per non dire reazionari) italiani, che non vedevano di buon occhio l’affermarsi di un ente dinamico e moderno, qual era il CNEN» (29).

    Le accuse di Saragat ebbero l’effetto di mettere in moto immediatamente tutta una serie di reazioni (intanto Ippolito, trovandosi in crociera e non essendo al corrente dell’attacco a lui rivolto, non ebbe modo, subito,  di difendersi),  reazioni che , grosso modo, andarono dal plauso più sfrenato da parte della destra economica e politica, all’indifferenza apparente da parte di alcune forze centriste, e ancora alle critiche moderate ma al sostanziale appoggio da parte della sinistra e dei repubblicani. Saragat non aveva comunque finito di sferrare il suo attacco. Si fece ancora intervistare, scrisse senza sosta articoli, dettò note. Quello che Saragat sosteneva era che il far funzionare ancora le tre centrali nucleari italiane era assolutamente antieconomico viste le perdite nella produzione del Kwh nucleare rispetto a quello prodotto dalle centrali tradizionali; inoltre il segretario   generale del CNEN, professor Ippolito, amministrava tanti miliardi senza di fatto alcun controllo poiché il ministro (che presiedeva il CNEN) non si occupava di questi problemi. Tra l’altro in riferimento alla scelta nucleare in sé Saragat, allora, sosteneva (in una intervista al «Corriere della sera»): 

«Gli ambienti che difendevano il Comitato Nazionale ed il professor Ippolito sembravano persuasi che, per addestrare i tecnici italiani, fosse indispensabile comperare all’estero ed installare sul nostro territorio varie centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, sebbene i prezzi di quest’ultima non fossero competitivi. Solo così l’Italia, essi dicevano, terrebbe il passo con i paesi più progrediti. Questo ragionamento era assurdo. La strada da seguire era ben diversa ed era quella della ricerca applicata. Pensare che per formare i tecnici destinati all’impianto delle future centrali nucleari, che avrebbero prodotto energia elettrica a prezzi competitivi,  fosse necessario  spendere 200 miliardi per i  tre complessi del Garigliano, di Latina e di Trino Vercellese o addirittura mettere in cantiere una seconda generazione di centrali nucleari per uno o due milioni di chilowatt, spendendo altri tre o  quattrocento  miliardi  prima  che  la  competitività  fosse raggiunta, era manifestare un’opinione molto modesta sui tecnici italiani.  Bastava vedere  quel  che  avevano  fatto  Germania,  Svizzera, Belgio e Austria. Se il maggior onere per la produzione  di energia elettrica conseguente alla costruzione delle tre centrali atomiche italiane fosse stato destinato alla ricerca applicata, i risultati sarebbero stati molto maggiori».

E neanche a pensare che Saragat fosse come lo descriveva Scalfari sull’«Espresso» il 25  agosto:   «Mente  bislacca,   nevrotico  in  preda  a  turbe  alternate di euforia e di depressione». Saragat perseguiva un fine ben preciso ed era sicuramente guidato da qualcuno. Tra l’altro egli non si muoveva da solo ma almeno in tandem con Preti, altro   socialdemocratico e sostenuto da una campagna di stampa de «Il sole-24 ore» (giornale allora della Edison) iniziata già da molto tempo. Preti, parlando a Cattolica, aveva iniziato l’attacco più subdolo praticamente sostenendo che Ippolito, segretario  generale del CNEN, non poteva essere contemporaneamente consigliere d’amministrazione dell’Enel: la legge lo impediva.  Ed  ecco come si sposta tutto il discorso: dalla polemica sui costi di  gestione del nucleare (che poteva avere un senso), agli attacchi  personali per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica su aspetti scandalistici che sulla questione in oggetto non c’entravano nulla. Sabato 31 agosto il ministro Togni, non lasciando ad Ippolito tempi per la difesa o per eventuali opzioni tra una carica e  l’altra, fingendosi scandalizzato per una cosa che già sapeva e  che sapevano tutti anche se tutti aveva scandalizzato, emise un  comunicato con il quale Ippolito era dichiarato sospeso dal suo  incarico al CNEN. Il 14 ottobre il consiglio di amministrazione dell’Enel sostituì il nome di Ippolito con altro nominativo.

    «Nel frattempo un miscuglio di rivelazioni della stampa, di inchieste più o meno sommarie, di voci e indiscrezioni aveva sollevato dubbi sulla correttezza amministrativa della gestion del Cnen, della quale Ippolito era l’unico o il principale imputato.  Una commissione d’indagine,  nominata  il  2  settembre  a  tamburo battente dal ministro Togni, rimetteva il 15 ottobre le  sue conclusioni. Esse apparvero tanto gravi da risvegliare l’interesse della magistratura per l’apertura di un processo penale. Con queste battute finiva, più o meno, lo scandalo nucleare e cominciava lo scandalo “Ippolito”, pericoloso per l’interessato, assai meno per gli altri. Delle iniziali accuse Saragat: dilapidazione e sperpero di pubblico denaro da parte del Comitato Nucleare non si sarebbe più parlato. Sarebbero venuti a galla il “peculato”, “l’abuso in atti d’ufficio”, le “distrazioni” e “l’interesse privato”» (30). Tra l’altro Ippolito venne accusato di aver usato una camionetta del CNEN per i suoi spostamenti personali quando era in vacanza a Cortina e di aver fatto stanziare dei fondi a favore dello storico Vittorio De Caprariis perché scrivesse una storia d’Italia attraverso la storia delle varie tappe del pensiero e delle realizzazioni tecnico-scientifiche (storia ancora mancante!).

    Gli ambienti della ricerca scientifica italiana solidarizzarono subito con Ippolito. Vi furono prese di posizione dell’Associazione sindacale dei ricercatori di fisica (Asrf), da parte di quasi tutti i professori cattedratici di fisica italiani e da parte di molte altre personalità del mondo della politica e del giornalismi.

    Il 14 novembre  1964 fu organizzata a Roma,  al Ridotto del teatro Eliseo, una manifestazione in sostegno di Ippolito. Durante questa manifestazione il professor Arnaldi (tra i più grandi fisici nucleari del mondo e padre della fisica italiana postbellica), il più eminente fisico italiano, attaccò duramente Saragat (e le manovre politiche  che si potevano intravedere dietro il suo operato) e difese puntualmente la politica seguita da Ippolito nel Cnen. In particolare Arnaldi ebbe a dire che le affermazioni di Saragat (secondo cui la costruzione di centrali nucleari per la produzione di  energia elettrica era assimilabile alla costruzione di una segheria  con l’intento di produrre segatura) avevano meritato a questo  eminente personaggio un solido posto, in Europa, nel mondo della barzelletta.

   A nulla servi tutto ciò. Ippolito fu condannato a undici anni di prigione. Con l’eliminazione di Ippolito si distrusse un grosso  patrimonio di esperienze, l’Italia rinunciò ad una via nucleare  nazionale e rimase così da allora in completa balia degli Stati  Uniti per tutto ciò che riguarda il nucleare e in senso più lato  per tutto ciò che riguarda l’energia. Anche qui potenti forze lavorarono per l’eliminazione di Ippolito. Le sette sorelle del  petrolio in prima fila: l’Italia doveva continuare a consumare  petrolio ed in particolare doveva acquistare gli ultimi rimasugli della raffinazione del petrolio per utilizzarli nelle centrali termoelettriche dell’Enel con inquinamento doppio rispetto al normale combustibile (di ciò parleremo più diffusamente nelle pagine seguenti). Ippolito, inoltre, «fu stroncato da un attacco governativo ispirato dagli americani, i quali erano disposti a consentire ed anzi ad utilizzare le ricerche fondamentali svolte in Europa, ma non ad ammettere concorrenze nella costruzione dei reattori energetici, sui quali hanno infatti impiantato un solido monopolio» (31). Anche qui la mafia, sempre al servizio di chi paga meglio e di chi concede migliori favori (in questo caso le multinazionali), non fu estranea alla condanna di Ippolito. «Dopo il “processo Ippolito” il pubblico ministero Remolo Pietroni —che era stato l’artefice primo della condanna — fece rapidamente carriera, fino a diventare consulente giuridico della Commissione antimafia della Camera dei deputati, incarico dal quale è stato rimosso nel ’72, quando sono stati rivelati i suoi legami con elementi mafiosi. In seguito a queste scoperte, fatte in occasione del processo a Natale Rimi, Pietroni è stato arrestato nel ’73» (32).

  Per concludere questo capitolo, altri due fatti significativi e qualche considerazione. Dice Ippolito:

«Nel processo comparve ad un certo punto uno strano memoriale contro di me, firmato da quattro senatori democristiani. Interrogati dal mio avvocato, dichiararono poi in udienza di aver firmato il rapporto senza neanche averlo letto; la sua provenienza era l’ufficio studi della Edison» (33).

Dice Amaldi:

«Forse ci furono errori da parte nostra e forse, anche in buona fede magari, dall’altra parte. Saragat bloccò tutto e poco dopo fu eletto presidente della repubblica. Ciò fu casuale? È probabile, ma resta qualche sospetto… Se fossimo andati avanti forse i problemi di oggi [il duro dibattito sul nucleare iniziato a partire dalla seconda metà degli anni ’70, n.d.r.] non si porrebbero» (34).

   Certo per ottenere la Presidenza della repubblica si farebbe qualunque cosa, si va negli Stati Uniti, si rompe l’unità dei lavoratori con la scissione del 1947, si diventa credenti e cattolici,  si  lavora  per  le  sette  sorelle…  Qualche garanzia  di  essere «democratico» bisogna pur darla ai padroni americani!

   Con la caduta di Ippolito il Cnen attraversa dei momenti difficili. Alla sua testa vanno i personaggi più svariati ma rappresentativi di molti interessi in gioco nel settore nucleare. A far parte della commissione direttiva del dopo Ippolito va anche A. M. Angelmi. Questa commissione anziché funzionare come promotrice di studi ed iniziative, anche rivolte a correggere il tiro di Ippolito, lavora esclusivamente per bloccare ogni iniziativa. Dopo il 1969 la catastrofe completa: scade il mandato alla commissione direttiva che non viene rinnovata. Non si fanno altri piani quinquennali ma con i pochi soldi che si hanno a disposizione a malapena si riescono a pagare gli stipendi. A questo punto subentra pesantemente l’Enel che proibisce al CNEN qualunque iniziativa nel settore nucleare. Infatti nel 1970 è l’Enel ad ordinare la quarta centrale italiana, quella di Caorso da 840 Mw (la sua entrata in funzione era prevista nel 1975 ma è avvenuta soltanto verso la metà del 1978).

   Ancora un po’ di storia: l’Enel

  Abbiamo già detto che uno tra i provvedimenti più importanti del primo governo di centro-sinistra fu la nazionalizzazione dell’energia con la creazione dell’Enel. A questo ente furono affidate, su tutto il territorio nazionale, le attività di produzione, trasporto, trasformazione e distribuzione dell’energia elettrica (e quindi all’Enel furono anche date in gestione le tre centrali nucleari italiane che stavano per entrare in funzione). Questo provvedimento di estrema importanza seguiva a più di un anno l’ altro provvedimento che il precedente governo aveva preso cioè quello dell’unificazione delle tariffe elettriche sul territorio nazionale (maggio 1961).

    La nazionalizzazione comportò da parte del nostro governo indennizzi faraonici alle industrie private che erano proprietarie degli impianti con un blocco di ingenti capitali in un momento  di grossa espansione della nostra economia. In Italia non si era  proceduto come in altri paesi nazionalizzando l’energia subito  dopo la guerra per la gravissima opposizione della solita destra  economica e politica capeggiata dai liberali e sostenuta da molti  ambienti democristiani. Subito dopo la guerra la gran parte  degli impianti erano distrutti e il rilevarli allora sarebbe costato molto poco, tanto più che gli industriali privati riuscirono a  ricostruirli con sostanziosi aiuti e notevoli facilitazioni del governo. «La decisione allora presa di non procedere alla nazionalizzazione fu veramente gravissima. Noi non esitiamo a credere che se in quell’epoca si fosse rotto il fronte padronale con un provvedimento di tal tipo sarebbe stato diverso lo svolgimento democratico di tutta la politica italiana in quanto è certamente dagli  utili della gestione elettrica che è venuta alla destra economica  italiana quella potenza finanziaria che ha permesso il crearsi ed  il  rafforzarsi  di  potentissimi  “gruppi  di  pressione”»  (35)   E  i padroni dell’energia in Italia praticamente rivendevano a prezzi astronomici quanto precedentemente avevano ricevuto in regalo  proprio dall’attuale acquirente. Ma il fatto più interessante è che  questa vendita al governo viene effettuata quando le industrie  elettriche non si oppongono più se non a parole (hanno da  investire in altri settori ed in particolare in quello chimico) .

   «II motivo è evidente: fino a che i bacini naturali dell’arco alpino hanno fornito riserve di energia a buon mercato ed hanno permesso lo sfruttamento di impianti a costi di combustibile e di esercizio irrilevanti, l’affare è stato molto vantaggioso.  Una volta esaurite le possibilità idroelettriche, data l’incertezza relativa ai costi del rifornimento di combustibile per alimentare gli impianti termoelettrici (vedi crisi del Medio Oriente), l’attrattiva di grossi profitti viene completamente a cadere» (36).

   Relativamente poi al campo nucleare, siamo appena agli inizi non c’è prospettiva certa e pertanto alle industrie elettriche non va di rischiare. Ecco allora l’affare della nazionalizzazione tra l’altro strombazzato come grosso successo del PSI, come grossa contropartita al suo appoggio al governo. Nasce così l’Enel ma già con grossi equivoci e condizionamenti iniziali. Furono chiamati ai vertici di questo ente tutti coloro che per vent’anni avevano avversato la nazionalizzazione. Tutta questa gente, alla testa della quale c’era l’avvocato Di Cagno, non fece altro che portare avanti la stessa politica che per tanti anni era stata dell’industria privata.

   «Come si poteva trasformare l’avvocato Di Cagno — che aveva palesemente contrastato l’operazione fino a pochi mesi prima — in un programmatore? Che garanzie potevano dare in tal senso i vari consiglieri, i Magno e i Lanzarone, che i giochi dei partiti e delle correnti avevano portato alla testa dell’ente? Che cosa era stato Angelini, se non un buon esecutore tecnico degli ordini della Finelettrica o dell’IRI? E ciò senza tener conto delle varie influenze che l’Unione petrolifera avrebbe esercitato» (37).

Esempio di questa continuità di una politica di tipo privatistico è  il  costo  elevatissimo  degli  allacci  in  campagna.  Questo  alla faccia della tanto decantata elettrificazione rurale.

   Questo ente inoltre ha, in soli dieci anni e per ubbidire a ben note logiche di sottogoverno, raddoppiato il suo personale con la conseguenza che l’incidenza di ciò «sul costo del chilowattora prodotto è doppio di quello dell’ente elettrico inglese e maggiore di 1/3 almeno di quello francese» (38).

  Ma la cosa più grave e della quale parleremo più diffusamente nelle pagine seguenti è l’abbandono da parte dell’Enel dello sviluppo idroelettrico, sostituito invece con un massiccio impegno nel settore termoelettrico. «Nella prima relazione di bilancio del 1963 l’Enel riteneva possibile la costruzione di impianti idrici per una produzione (escluso il pompaggio) di 15 miliardi di Kwh. Entro il 1983 ne avrà però messi in servizio solo 1/3. La ragione di questo apparente inspiegabile fenomeno potrebbe trovarsi nella distorsione provocata da una miope applicazione di criteri strettamente “aziendalistici” dovuta all’esistenza del sovrapprezzo termico nella struttura tariffaria (elemento di per sé non negativo perché tende a ridurre la forbice fra i diversi tipi di tariffa).  Per l’Enel infatti  il combustibile continua a  costare come prima del 1973 (13,80 lire al Kg.) e paradossalmente, sotto questo punto di vista, a causa del notevole aumento del costo del denaro, un impianto idrico tradizionale è meno conveniente oggi di quattro anni fa rispetto ad un impianto termico (o turbogas che costa poco come spesa di primo impianto e molto come costo combustibile, compensato però interamente dal meccanismo del soprapprezzo termico)» (39).

    C’è comunque, dietro questa scelt,a un’altra forzatura che come al solito viene dagli Stati Uniti ed in particolare dalle multinazionali del petrolio.

    Dal 1960 al 1974 viene più che decuplicata la produzione di energia termoelettrica. Ebbene vedremo più avanti che c’è stata una pesante collusione tra petrolieri, partiti politici ed Enel. I primi pagarono i secondi affinché si marciasse sulla strada del consumo a qualunque costo di olio combustibile residuo delle raffinaziom che avvenivano (ed avvengono) sul nostro territorio.

    Su tutti i ritardi dell’idroelettrico, della geotermia, del nucleare «non possiamo fare che delle illazioni se, o fino a quando l’ inchiesta sull’ eventuale corruzione operata dai petrolieri su uomini politici e sugli amministratori dell’Enel non sia stata restituita dalla commissione parlamentare inquirente alla magistratura. E ancorché non si possa, fino a un giudicato finale, parlare di corruzione, certamente una coincidenza di interessi vi fu tra i  petrolieri, che desideravano vendere il prodotto di scarto delle  loro raffinerie, cioè l’olio combustibile, e l’Enel che comprava questo olio combustibile inquinante per alimentare le centrali termoelettriche convenzionali» (40).

   Un’altra notazione c’è da fare, prima di concludere questo capitolo, su come l’Enel ripartisce la spesa tra i suoi utenti.  È  certamente interessante soprattutto se si va a vedere che, come al  solito, i favoriti sono i grossi industriali e i più grossi pagatori sono i piccoli o piccolissimi  consumatori: è un altro indizio della politica che l’Enel ha portato e porta avanti .

«Nel 1974 l’illuminazione pubblica e gli usi domestici coprirono il 23,70% dell’impiego totale dell’energia elettrica fornendo però il 32,70% dell’introito totale dell’Enel. L’energia elettrica serve come bene di consumo […], ma serve anche come mezzo di produzione: questa sua duplice natura è l’alibi per finanziare il processo produttivo a spese dei consumi pubblici e privati.   Se poi si va a guardare come le tariffe vengono differenziate all’interno dello stesso apparato produttivo, si scoprono altre cose interessanti  Le utenze delle aziende produttive che hanno una potenza installata inferiore a 30 Kw coprirono nel 1974 il 9,76% del consumo totale di energia elettrica, ma pagarono il 24,96% del fatturato totale dell’Enel. Questa forte penalizzazione colpì principalmente gli artigiani, i coltivatori diretti, le piccole e medie aziende agricole. Una penalizzazione molto più lieve colpì la piccola e media industria, con potenze installate comprese tra 30 e 500 Kw: consumarono il 13,97% del totale dell’energia consumata, pagarono il 16,36% del fatturato totale. Per contro un considerevolissimo premio venne graziosamente elargito alla grande industria con più di 500 Kw di potenza installata: consumò il 42,15% del totale e pagò soltanto il 9,7% del totale» (41).

   Lo scandalo del petrolio (ovvero la scelta petrolifera)

   II 4 febbraio 1974 i rappresentanti dei partiti politici si riuniscono a Montecitorio. Sono indignati contro i «pretori d’assalto» perché stanno screditando tutta la classe politica. I pretori Almerighi. Brusco, Sansa, indagando a Genova sui fenomeni di imboscamento del petrolio subito dopo la guerra del Kippur (ottobre 1973), hanno messo le mani negli uffici del petroliere Garrone, su scottanti documenti. Tutti i partiti politici (escluso il PCI) (42) sono stati finanziati dai petrolieri in cambio di «favori legislativi».

  Certo che in Italia il petrolio ha avuto una vita troppo facile soprattutto a partire dai primi anni ’60. La cosa che stupisce è la notevole quantità di permessi di raffinazione concessi in pochissimo tempo. «Nel 1950 la capacità di raffinazione concessa per decreto era di 7,5 milioni di tonnellate anno […] e sale a 90 nel ’64, a 133 nel 1970, mentre quella illegalmente esercitata dalle compagnie al di fuori di ogni controllo era già di gran lunga maggiore. L’Italia, sotto i governi democristiani, diventa il santuario della raffinazione con un indice di 3,1 tonnellate per abitante contro l’1,52 del Giappone e i 3 degli Usa» (43). A tali valori fa riscontro un consumo interno di circa 100 milioni di tonnellate per anno  (mentre la capacità di raffinazione è arrivata a 140 milioni di tonnellate per anno — dati del 1974): cioè circa il 30 % dei prodotti lavorati (44), specie i più pregiati, viene esportato. Poiché la più grossa quantità di prodotto che si ottiene dalla raffinazione del petrolio è l’olio combustibile, per garantirsi i più alti profitti devono toglierselo di torno subito vendendolo senza l’aggravio delle spese di trasporto. E da qui nasce il secondo motivo per cui l’Italia è un paese ambito dai petrolieri; l’Enel è un ottimo cliente. I residui della lavorazione del petrolio, gli olii combustibili pesanti, ad alto potere di inquinamento, vengono venduti all’Enel il quale incrementa la costruzione di centrali termoelettriche in Italia per bruciare sempre più olio combustibile. Ma tutto questo non basta.

   I petrolieri hanno avuto da vari governi dei provvedimenti legislativi a loro favore che hanno dell’incredibile: un decreto del 2 ottobre 1967 che assegnava ai petrolieri un contributo dello stato di 90 miliardi per rimborsarli dei maggiori costi di trasporto del greggio a causa della chiusura del canale di Suez (45); una legge del 28 marzo 1968 con la quale si concedeva ai petrolieri di pagare l’imposta di fabbricazione e l’IGE (Imposta Generale sull’Entrata) con tre mesi di ritardo; un decreto legge del 12 maggio 1971 con cui furono loro concessi una notevole quantità di sgravi fiscali ().

   Tutte queste cose evidentemente fanno bene rendere conto di quanto nelle pagine precedenti ho accennato: le sette sorelle nel nostro Paese dettano letteralmente legge. Dopo essersi tolti di mezzo Mattei ed Ippolito ci hanno pesantemente fatto scegliere  la via del petrolio condizionando poi le leggi in modo che fossero sempre a loro favore. In cambio di tutto ciò quando potevano pagavano, quando non potevano creavano casi giudiziari ma, l’ultima risorsa era (ed è) l’omicidio.

     Ebbene i partiti politici si agitavano in quel febbraio 1974 perché era stata intaccata la loro «onorabilità».  Dicevano:

 «Fuori i nomi dei corrotti, altrimenti basta con lo scandalismo, statevi zitti». Almerighi,  Brusco e Sansa non chiedevano  di meglio.

     Il 9 febbraio  del 1974  degli  agenti  in  borghese  si  recano all’ingresso della villa del dottor Vincenzo Cazzaniga (abita a fianco a Cefis, uno dei “liquidatori” di Mattei) ma non lo trovano (è negli Usa). Contro di lui è stato emesso un mandato di arresto per corruzione aggravata ed associazione a delinquere. È accusato di aver corrotto dirigenti dell’Enel e partiti del centro-sinistra affinché si servissero del petrolio invece dell’energia nucleare per far funzionare le centrali  elettriche (58).

     Cazzaniga è stato fino al 1972 presidente della Esso e della  Unione petrolifera ed era definito «l’uomo del petrolio americano in Italia». Egli era molto ben introdotto nel mondo politico, soprattutto democristiano, tanto da diventare (!) consulente del governo per i rifornimenti petroliferi.

     Il 13 febbraio 1974 vengono inviate 20 comunicazioni giudiziarie per corruzione aggravata: riguardano i massimi dirigenti ed i consiglieri di amministrazione dell’Enel (tra cui il presidente Di Cagno) e gli amministratori dei quattro partiti di centro-sinistra (DC -PSI – PSDI – PRI).

     Il 20  febbraio  portano  al  presidente  della  camera  Sandro Pertini gli atti di accusa contro ministri o ex ministri che avevano favorito i padroni del petrolio con provvedimenti legislativi. Si tratta di: Giulio Andreotti (DC), Giacinto Bosco (DC), Ferrari Aggradi (DC), Athos Valsecchi (DC), Luigi Preti (ritorna il simpaticone PSDI), Mauro Ferri (PSDI).

     Seguendo l’iter previsto dalla Costituzione il giorno 21 febbraio inizia il procedimento davanti alla commissione inquirente. Il giorno 8 marzo la commissione proscioglie Andreotti,  Ferrari Aggradi, Bosco e Preti. Rimangono in stato di accusa i più deboli politicamente: Valsecchi e Ferri.

    Ancora oggi comunque  anche a questi benemeriti del petrolio non è accaduto nulla. È del 22 giugno 1977 la richiesta da parte del PCI di riaprire l’inchiesta sullo scandalo del petrolio, ma si tenga conto che per alcuni dei ministri in oggetto è già scattata o sta per scattare la prescrizione poiché i reati  a loro  ascritti risalgono a molti anni fa. E che qualcuno provi a parlare di qualunquismo quando si dice: «rubano e si assolvono»! [pensate quanto era ridicolo questo mio richiamo, alla luce di tangentopoli ed agli attacchi violenti contro i magistrati che hanno fatto fino in fondo il loro dovere, n.d.r.].

    Ebbene i rappresentanti dei partiti politici (escluso il PCI) presero 45 miliardi per farsi ripetutamente corrompere, mentre l’Enel, oltre alla primitiva corruzione relativa alla scelta termo- elettrica e per la quale non ho dati, prese più di un miliardo per maggiorare il prezzo di acquisto dell’olio combustibile e per riversare questo aumento di prezzo sulle tariffe pagate dagli utenti. Anche qui iniziò un’istruttoria il 26 marzo ma, di fatto e miseramente, essa viene chiusa il 24 ottobre (48).  

    Concludendo, l’Italia si ritrova con una grossa quantità di centrali termoelettriche; le è stato impedito di avere un rifornimento autonomo di petrolio; le è stata preclusa la strada dell’allora alternativa energetica nucleare; non ha sviluppato né la geotermia né il solare. Dietro tutto ciò ci sono i padroni americani ed i governi e gli uomini italiani che sono stati loro fedeli servitori.

     Si tenga bene a mente tutto ciò quando si leggeranno dichiarazioni di altri governi (ma sempre egemonizzati dalla DC o dagli attuali eredi) che ci dicono che oggi è indispensabile il nucleare.  


 NOTE

  1. Vedi Bibliografia n. 1, pp. 213-4.

  2. Ivi, p. 57-8.

  3. Ivi, p. 208.

  4. Ivi, p.71.

  5. Ivi, p. 82.

  6. Ivi, p. 57.

  7. Vedi Bibliografia n. 2, p. 31.

  8. Vedi Bibliografia n. 4, p. 157.

  9. Ivi. p. 79.

10. Ivi, p. 184-85.

11. Vedi Bibliografia n. 2, p. 35.

12. Vedi Bibliografia n. 4, p. 199.

13. Vedi Bibliografia n. 1, pp. 115-6.

14. Ivi, p. 129.

15. Vedi Bibliografia n. 2, p. 54.

16. Vedi Bibliografia n. 4, pp. 299-300.

17. Per una documentazione più esaustiva, vedi Bibliografia n. 5.

18. Il n. 5 del mensile «Maquis» a p. 53 sostiene che l’operazione centro-sinistra «è stata una scelta americana in ogni campo, che ha aperto la strada ad una vera e propria colonizzazione[…]. Essa è una strategia nata ed elaborata nell’epoca di Kennedy […]. Nel corso di una lezione agli studenti dell’Università di Harvard, Kissinger ha detto esplicitamente: “…il centro sinistra doveva servire a fare le riforme per sminuire l’efficacia delle critiche antigovernative dei comunisti”».

19. Vedi Bibliografia n. 6, p. 22.

20. Vedi Bibliografia n. 5, nota 2, p. 189.

21. Ivi, nota 6, p. 192.

22. Vedi Bibliografia 10,   pp. 116-8.

23. Vedi Bibliografia n. 1, p. 58.

24. Vedi Bibliografia n. 6, p. 119.

25. Ivi, p. 120.

26. Ivi, p. 31.

27. Vedi Bibliografia n. 1, p. 59.

28. Vedi Bibliografia n. 2, p. 53.

29. Vedi Bibliografia n. 3, p. 175.

30. Vedi Bibliografia n. 4, p. 324-5.

31. G. Berlinguer, La politica nucleare in «L’Unità», 31/7/73.

32. Vedi Bibliografia n. 2, nota 12 a p. 151.

33. Vedi Bibliografia n. 3, p. 175-6.

34. Intervista di D. Sacchettoni de Il Messaggero del 13 aprile 1977.

35. Vedi Bibliografia n. 1, p. 72.

36. Vedi Bibliografia n. 7, p. 82.

37. Vedi Bibliografia n. 3, p. 60.

38. Ivi, p. 102.

39. Vedi Bibliografia n. 9, p. 224-5, intervento di L. Bottazzi.

40. Vedi Bibliografia n. 3, p. 113.

41. Vedi Bibliografia n. 8, p. 50-1, contributo di Laura Conti.

42. Sul PCI si cercheranno di fare delle speculazioni insinuando che una società (Editrice di «Paese sera») ad esso collegata avrebbe preso soldi. Il PCI ha sempre smentito recisamente. Vedi in proposito i due articoli su «L’Unità» del 15/7/1975 («Fare piena luce») e del 5/4/1974 («Nuova secca smentita»).  

43. Vedi Bibliografia n. 5, p. 196.

44. Dalla raffinazione di una tonnellata di petrolio greggio si ricavano: 445 Kg di olio combustibile, 203 Kg di gasolio, 110 Kg di benzina, 49 Kg di petrolio raffinato per illuminazione, 18 Kg di bitume, 4 Kg di lubrificanti, 89 Kg di altri prodotti (kerosene, gas, materie plastiche, …), 82 Kg. di consumi e perdite.

45. Il favore fatto ai petrolieri fu in seguito rinnovato ed esteso anche a quelli che non si servivano del Canale di Suez. Per far ciò Andreotti non fece una legge apposita ma usò l’articolo 61 di un decreto legge relativo a «ulteriori interventi e provvidenze per la ripresa economica dei Comuni della Sicilia colpiti dal terremoto del gennaio del 1968».

   E’ incredibile: i terremotati del Belice, loro malgrado, finanziano i petrolieri che se la passano male.

46. Si osservi inoltre che nel 1969 una legge ha imposto di cambiare da carbone a gasolio il combustibile per il riscaldamento dei condomini.  

47. In alcuni documenti sequestrati l’ opera dei petrolieri perché l’Enel si  impegnasse  massicciamente  con  le  centrali  termo-elettriche,  era  chiamata «Campagna istituzionale per piano propaganda centrali elettriche» oppure «Operazione Enel». I primi pagamenti iniziarono nel 1963.  

48. Tutti i dati relativi allo scandalo del petrolio sono stati tratti dal vecchio e serissimo settimanale Panorama (oggi ridotto ad un misero volantini), numeri: 408, 409, 410, 413; dal testo n° 5 di Bibliografia da pag. 187 a pag. 245; da L’Unità del 24 settembre 1997 e del 22 giugno 1978.

BIBLIOGRAFIA

1 – F. Ippolito – La questione energetica – Feltrinelli, 1974.

2 – F. Ippolito – Intervista sulla ricerca scientifica – Laterza, 1978.

3 – F. Ippolito – Politica dell’energia – Editori Riuniti, 1977.

4 – M. Silvestri – Il costo della Menzogna – Einaudi, 1968.

5 – O. Barrese, M Caprara – L’anonima DC – Feltrinelli, 1977.

6 – R. De Sanctis – Delitto al potere – Samonà e Savelli, 1972.

7 – V. M. Jorio, N. Pacilio – Energia in crisi ? – Guida, 1978.

8 – AA. VV. – Chi ha paura del sole? – Mazzotta, 1978.

9 – Istituto Gramsci – L’energia del futuro – Editori Riuniti, 1978.

10 – P.H. Frankel – Petrolio e Potere – La Nuova Italia, 1970. .



Categorie:Storia

Rispondi