
Alternativa è stato un movimento politico fondato, tra gli altri, da
Giulietto Chiesa e Paolo De Santis (recentemente scomparsi). Oggi non esiste più.
LE ANALISI
Presentiamo alcuni testi che ci aiutano a definire lo stato attuale della scuola italiana, collegandolo ad un’analisi a più ampio spettro: solo così, infatti, è possibile cogliere nella loro reale complessità i nodi che devono essere sciolti per riconsegnare Scuola e Università alla loro funzione storica di promozione culturale e civile del Paese.
Fabio Bentivoglio
IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ
Un insegnante nella scuola dell’autonomia Editrice C.R.T. – Pistoia 2000
Estratti
Questo saggio (insieme a quello di Massimo Bontempelli L’agonia della scuola italiana Editrice C.R.T., Pistoia 2000) è particolarmente significativo perché pubblicato nel 2000, cioè nell’anno in cui è entrata in vigore la riforma di Berlinguer che ha aperto la strada a tutti i successivi interventi distruttivi del sistema dell’istruzione pubblica statale nazionale.
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Intendiamoci sulle parole: autonomia scolastica e libertà culturale
Il Dizionario della lingua italiana, Devoto-Oli così definisce l’autonomia: “La posizione giuridica di uno stato che si governa di fronte agli altri con leggi proprie, o anche di enti, o persone, nella cui sfera di attività non vi sia ingerenza da parte di altri”. Si tratti dunque dell’attività di uno stato, di un ente o di una persona, il concetto di autonomia rimanda a quello di non ingerenza. Rispetto al mondo della cultura il termine autonomia evoca l’assenza di ingerenze burocratiche, di condizionamenti strumentali e la libera creatività del pensiero. La libertà culturale, per l’insegnante, è responsabilità nella scelta delle articolazioni di un percorso educativo in cui guidare i suoi studenti. Questa è la condizione perché ci possa essere educazione: solo l’insegnante autonomo, cioè libero di scegliere contenuti, percorsi e metodi che riflettono i propri valori culturali, è in grado di mobilitare le sue interne risorse emotive, intellettuali e morali, in funzione dell’educazione. Ogni ingerenza su questo terreno – lo dice anche il vocabolario – è riduzione dell’autonomia. È un terreno delicatissimo, perché la libertà culturale dell’insegnante è la pietra angolare di ogni costruzione educativa. Tutto ciò che la rinforza, la valorizza e la stimola si muove nella direzione del progresso. Tutto ciò che la nega produce processi regressivi a cascata. L’attuale riforma la nega. La scuola, infatti, non ha mai conosciuto tante circolari ministeriali così pedanti e dettagliate, come da quando c’è questa sedicente autonomia; mai tanti condizionamenti extraculturali, mai tante prescrizioni così capillari, formalistiche e invadenti.
La scarsa consapevolezza di questo punto cruciale, non solo nell’opinione pubblica, ma tra gli stessi insegnanti, dipende dalla confusione tra la reale sostanza di questa riforma e gli espedienti semantici con cui la si legittima: si determinano situazioni oggettivamente regressive, ma le si denominano con termini che per il loro significato
intrinseco hanno risonanze positive (libertà, autogoverno dei professori, …), nascondendo dietro a nobili finalità (una scuola per tutti, successo formativo…) direttive che nella loro concreta attuazione negano quanto si afferma a parole.
Con una compattezza da far paura, i mezzi di comunicazione, i maggiori quotidiani nazionali, gli intellettuali-opinionisti, hanno dato un contributo decisivo nell’accreditare questo uso distorto del linguaggio, nel creare una sorta di immaginario collettivo irreale della riforma, e nel diffondere automatismi mentali a dir poco sconcertanti (come vedremo nelle pagine successive). Gli insegnanti si sono trovati così in una situazione paradossale: schiacciati, nella pratica scolastica, da una mole di prescrizioni senza precedenti, protagonisti, nell’immaginario collettivo, di una riforma promotrice di libertà e autonomia.
Nel circuito mediatico si discute della riforma non per quello che essa concretamente è, ma per come essa si presenta attraverso la propaganda ministeriale. In merito c’è stato un episodio emblematico, che prenderei come modello di riferimento per la nostra riflessione. Il protagonista è Mario Pirani, commentatore di la Repubblica, che come tanti suoi colleghi condivide lo spirito dell’attuale riforma, compresa l’idea che è giusto premiare gli insegnanti migliori, quelli che dovevano essere selezionati con apposito concorso del Ministero (quello di cui abbiamo parlato poco sopra). Chi potrebbe contrastare un simile principio, se non coloro che non hanno voglia di lavorare, o che temono la fatica dell’aggiornamento? Capita, però, che Pirani, con un sano impulso, si voglia rendere conto di come stiano realmente le cose: “Per cercare di farmi un’idea più precisa ho chiesto lumi a qualche insegnante: Una professoressa di italiano e latino, con una ventina d’anni di attività alle spalle, mi ha confessato:
<Siamo sommersi dal didattichese, una specie di linguaggio psico-sociologico d’accatto, sovente incomprensibile, entrato in uso da un po’ di tempo per propinarci i cosiddetti nuovi contenuti dell’educazione>. E, per farmene convinto, mi ha consegnato le dispense di un corso di aggiornamento per i partecipanti al famigerato concorsone. Ho esaminato esterrefatto questo incredibile malloppo che, per sadica disperazione vorrei sottoporre per intero ai miei lettori” Seguono una serie di esempi, tra cui gli stimoli più o meno aperti/chiusi, che dovrebbero sostituire l’interrogazione. Commenta Pirani: “Sembra un capitolo di farmacologia sull’uso delle supposte”.
L’aver visto la riforma in opera per un attimo, lascia Pirani “esterrefatto”: si immagini cosa dovremmo dire noi insegnanti, che la subiamo quotidianamente. Ciononostante il circuito mediatico continua a magnificare la qualità del vino sulla base di quello che dice l’oste. Poco importa se il movente ha radici nell’ideologia, nella difesa aprioristica della sinistra di governo, nelle convenienze personali di tanti intellettuali: accade, e genera quel consenso passivo nell’opinione pubblica, condizione necessaria per veicolare i contenuti della riforma. Nel nostro viaggio attraverso il disagio dell’insegnante, ci confronteremo anche con questa rappresentazione mediatica.
Le scuole in competizione
C’era una volta il sistema nazionale della pubblica istruzione, di cui i diversi tipi di
scuola, ed i singoli istituti scolastici, erano articolazioni settoriali e locali. La modernizzazione dell’Italia, condotta a tutto campo dal ceto politico della sinistra di governo, ha significato per la scuola la sostituzione di quel sistema con un modello in cui ogni singolo istituto scolastico progetta se stesso. Questa forma di autonomia implica tante scuole in competizione tra loro per procacciarsi utenti e risorse.
Nell’immaginario irreale dei mezzi di comunicazione e degli intellettuali distratti, questo nuovo modello è di per sé positivo, perché il sistema nazionale della pubblica istruzione è di per sé negativo: centralistico, rigido, burocratico e soffocatore di creatività. L’autonomia consentirebbe alla scuola di cogliere opportunità, rispondere a nuovi bisogni, adattarsi a nuove esigenze, valorizzare le risorse. Se fosse così sarebbe fantastico: in realtà così non è.
La crisi del sistema dell’istruzione pubblica, che per altro è l’effetto di una politica dell’abbandono, non implica necessariamente che si debba sopprimere il sistema stesso: ragionando come i riformatori, poiché il sistema ferroviario contempla troppi incidenti e ritardi dei treni (causati anch’essi da una politica dell’abbandono) dovremmo smantellarlo. Con una logica più lineare occorrerebbe invece eliminare i ritardi dei treni, non il sistema ferroviario. Aggiungiamo un dettaglio: solo un sistema pubblico, nazionale dell’istruzione è nelle condizioni di conservare il patrimonio di saperi e di valori strutturanti una collettività, e trasmetterlo da una generazione all’altra, al di là dei particolarismi e dei condizionamenti troppo contingenti. Bisognerebbe sì intervenire, ma in modo da creare le condizioni per la piena realizzazione di questa finalità.
A parole si sostiene che il sistema nazionale della pubblica istruzione non è stato smantellato, bensì solo declinato in maniera pluralistica e flessibile, con le autonomie che devono comunque rispondere a principi generali fissati dallo Stato. Questi discorsi appartengono ad una visione onirica della realtà, perché non hanno alcun rapporto con la concretezza. Il congegno dell’autonomia è pensato fin nei minimi dettagli per dissolvere il sistema nazionale e per saldare i singoli istituti scolastici a interessi locali e privati.
Si prenda un testo ministeriale disponibile in tutte le scuole, Autonomia 2000, Quaderni di Iter, n°3 e si vada alla pagina 129, dove nella forma domanda-risposta, si danno lumi sulle varie innovazioni. Alla domanda se con l’autonomia non si corre il rischio che i privati possano condizionare l’andamento delle scuole di Stato, si risponde naturalmente di no. Il motivo sarebbe questo: ogni istituto, in piena autonomia, disegna la propria identità; per quanto riguarda i finanziamenti, cito testualmente, “al sistema economico privato si porrà l’alternativa se contribuire allo sviluppo di una scuola di Stato all’altezza dei tempi…le norme dell’autonomia facilitano l’accesso da parte di quanti, interessati ad una crescita complessiva del livello culturale del Paese, vorranno concorrere alla realizzazione dell’offerta formativa di un istituto i cui obiettivi siano già stati definiti nelle sedi proprie”. Dunque, l’istituto scolastico progetta se stesso senza sapere di quali finanziamenti potrà disporre, poi metterà sul mercato questo progetto in cerca di finanziatori, i quali, in nome della crescita culturale del Paese, si accapiglieranno tra di loro per
contendersi la donazione. Si tratta di visione onirica della realtà o di malafede?
La competizione non avviene tra scuole edificate sulla Luna, in mezzo a crateri popolati esclusivamente da professori, studenti e nobili creature. La competizione avviene tra scuole edificate sulla Terra, cioè dentro il tessuto sociale del mondo contemporaneo, caratterizzato dal primato assoluto dell’economia, e dalla corsa sfrenata al denaro e all’immagine come mezzi del potere economico, oggi l’unica vera forma del potere sociale. Accreditare l’idea che in questo tessuto sociale, in queste dinamiche economiche, la competizione tra le scuole abbia la fisionomia di una nobile gara a produrre standard culturali sempre più elevati, è voler convincere che la pasta debba esser cotta in frigorifero.
La competizione tra le scuole si svolge sul terreno delle risorse, delle immagini, delle lusinghe per attrarre “utenti”, degli intrecci con i poteri territoriali, quindi sul piano utilitario, strumentale, dell’immagine, cioè in una dimensione che non ha niente in comune con il linguaggio e lo spirito della cultura.
Sempre nella concretezza, la riforma ha “razionalizzato” la scuola, cioè ha accorpato gli istituti, ha tagliato le classi, ha contratto gli organici. La competizione si innesta su questa realtà, con effetti a dir poco indecorosi. Per raccogliere iscrizioni le scuole fanno gli “spot” e declamano le proprie virtù con linguaggi da piazzisti, spingendosi anche a denigrare le scuole rivali, come nel caso di quell’Istituto tecnico romano che per convincere i potenziali clienti a non iscriversi al Liceo Classico si presenta su Internet con slogan di questo tipo: “Al Liceo si insegnano due lingue morte (latino e greco); negli istituti tecnici una o due lingue vive, che facilitano le occasioni di vita e di lavoro”. Oppure un Istituto magistrale di Firenze che promette stage con aziende, e un gran rapporto con il mondo del lavoro. Il repertorio delle informazioni-spot, tra dépliant sponsorizzati ed Internet, varca la soglia dell’immaginazione e del buon gusto. Una cosa è certa: lo spettacolo delle scuole che si fanno concorrenza a colpi di spot è patetico, triste e umiliante.
I militanti dell’innovazione, con l’ausilio di tanti presidi, sostengono che la pubblicità è necessaria, perché se non si fa concorrenza alle altre scuole gli studenti non s’iscrivono e gli insegnanti perdono il posto: bisogna dunque darsi da fare con progetti che attirino i clienti. Questo è il fango reale in cui germina la competizione. Questo è il fango in cui gli insegnanti sono stati precipitati. È una gara a chi riesce a cadere più in basso.
Storicamente l’insegnante non è mai stato titolare di un reddito significativo, ma è sempre stato titolare di una sua specifica dignità sociale, perché persona di cultura. Sotto questo riguardo la caduta di stile e dignità innescata dalla scuola dell’autonomia e della competizione, non potrà essere ricompensata da alcun aumento di stipendio (che pure non ci sarà). Si è messo in moto nelle scuole una sorta di accattonaggio di massa, a cui troppi insegnanti partecipano con colpevole superficialità.
È evidente che la vera cultura, quella economicamente disinteressata, “non serve”, perché fa acquisire valori, identità, orientamento, spirito critico, quindi “serve” in un senso completamente diverso da quello inteso dai riformatori. Ed è altrettanto evidente che in un clima in cui la competizione spinge ad inseguire le necessità del
momento, le scuole per garantirsi iscrizioni si orienteranno su insegnamenti immediatamente spendibili sul mercato, quindi sull’inglese turistico e commerciale, sui corsi di informatica, e su quant’altro possa dare visibilità nel mondo del lavoro.
Per capire che cosa stia realmente succedendo nella scuola occorre quindi far emergere i contenuti del disagio di chi nella scuola vive: il primo appuntamento è la stesura di quel documento che dovrebbe costituire l’identità della scuola.
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Scegliamo l’insegnante e la scuola
Fino a quando è esistita la scuola pubblica nazionale, il problema della scelta degli insegnanti da parte del singolo istituto scolastico riguardava esclusivamente le scuole private, in genere cattoliche, che proprio per la dichiarata appartenenza ad un credo religioso, esigevano insegnanti conformi alle finalità della scuola stessa. Ora che il sistema pubblico è stato smantellato, il problema si pone anche nella scuola dell’autonomia. Se mai ce ne fosse bisogno, questa è la prova che quello smantellamento è un dato di fatto.
La questione della scelta dell’insegnante è oggetto di un ampio dibattito, innescato dal meccanismo dell’autonomia: è evidente che se ogni singolo istituto è chiamato a realizzare uno specifico progetto formativo (il POF, appunto), vien da sé che in quella scuola dovranno insegnare docenti funzionali a quel progetto. Insomma, il modello della scuola privata è stato trasferito in quelle che erano le scuole pubbliche, le quali, di conseguenza, si trovano a dover affrontare i medesimi problemi, come il reperimento dei finanziamenti e la scelta degli insegnanti.
Su questo tema segnalo tre posizioni emblematiche. Scrive un lettore di la Repubblica (11-5-2000), dando voce ad una convinzione molto diffusa: “Per quanto riguarda il modo con cui le scuole non statali assumono gli insegnanti, sarebbe ora che si estendesse anche alle scuole di Stato. Meglio infatti la libertà di chiamare insegnanti ritenuti consoni ad un progetto educativo e verificarne sul campo l’idoneità, che non l’arbitrarietà dei concorsi statali”. Questa ipotesi è auspicabile anche per un intellettuale come Galimberti, che con tono perentorio dichiara all’Espresso (5.10.2000): “Credo nell’abolizione del ruolo, nella flessibilità, nella licenziabilità”, * una religione, questa, che oggi ha molti seguaci. Gli insegnanti – prosegue Galimberti – dopo dieci anni guadagnano più o meno quanto un operaio, però quest’ultimo lavora il doppio di un professore di Liceo, il cui stipendio è anche troppo per un lavoro part-time. Dovrebbe guadagnare di più l’insegnante che ha la vocazione: per Galimberti la vocazione dovrebbe essere accertata dal datore di lavoro, cioè dal preside-manager. Come tutti coloro che invocano l’autorità del preside-manager, anche Galimberti lascia inevase due questioni: chiarire quali garanzie offra lo sguardo aziendale di un manager che dovrebbe valutare una “vocazione”, e chi, a sua volta, dovrebbe scegliere il manager, perché il titolo non certifica l’intelligere.
*NOTA In un articolo apparso su la Repubblica del 7 maggio 1996, “Che brutta questa scuola senz’anima”, Galimberti criticava Giancarlo Lombardi, all’epoca ministro della P.I., il quale per risolvere i problemi della scuola, proponeva un’alleanza tra “sapere e sviluppo” cioè tra sistema delle imprese e formazione scolastica. Galimberti obiettava che l’istruzione non può seguire la logica delle aziende: “Se le cose stanno così tanto valeva votare per il Polo della Libertà che nell’alleanza tra sapere e sviluppo, dice, senza troppi contorcimenti, che il sapere è in funzione dello sviluppo, che la cultura ha solo un valore strumentale perché il soggetto è l’impresa e le risorse umane hanno valore solo se funzionali all’impresa. Posizione legittima per chi guarda le cose dal punto di vista dell’impresa, ma molti hanno votato Ulivo perché non erano persuasi che i problemi dell’Italia coincidessero con quelli dell’”azienda Italia”, e in generale che lo sguardo aziendale fosse sufficiente, o quello giusto per comprendere i problemi della formazione giovanile.” Lo “sguardo aziendale” di Lombardi, nel ’96, era poca cosa rispetto all’attuale sguardo aziendale dell’Ulivo, e, a quanto pare, dello stesso Galimberti. Prendiamo atto del ripensamento.
Anche le famiglie rivendicano il diritto alla scelta dell’insegnante. Scrive e commenta Laura Montanari su la Repubblica (cronaca di Firenze, 27-1-’99): “Perché posso scegliere il medico per mio figlio e non posso scegliere la maestra dell’elementare?
…. È un’esigenza nuova che emerge da una società in cui il consumatore-utente ha sempre più facoltà di conoscere e selezionare, prima di scegliere prodotti, cose, persone, professionisti”. La giornalista ha ragione: la società dei consumatori (i non consumatori non hanno diritto di parola) non distingue tra cose e persone: queste ultime, anzi, dovrebbero circolare con le istruzioni per l’uso in tasca.
L’anonimo lettore, il filosofo e le “famiglie”, declinano il medesimo concetto da tre punti di vista diversi: hanno assimilato uno dei principi fondamentali del nostro tempo, quello cioè che riconosce legittimità soltanto a relazioni sociali di natura privatistica e a rapporti di lavoro stipulati su base individuale. Le “famiglie” vogliono il professore bravo per il giovane rampollo, gli altri si arrangino, confermando che il senso della comunità è evaporato. Il filosofo, con linguaggio aggressivo, vuole licenziare e abolire il ruolo, in sintonia con le necessità di imprenditori o di quanti impiegano forza-lavoro: basta con l’intralcio di titoli pubblici uguali per tutti, diplomi con valore legale e simili, quel che serve sono individui corredati di curriculum personalizzato, che certifichi il grado della loro impiegabilità, da verificare sul campo. È la corrente impetuosa che vuole abolire il valore legale del titolo di studio, i contratti collettivi di lavoro, sostituendoli con rapporti e contratti individuali. Del resto, già oggi, anche l’impiegato della Pubblica Amministrazione viene appositamente convocato dall’Amministrazione stessa per la firma e la stipula di un contratto individuale di lavoro.
Le osservazioni del lettore anonimo meritano attenzione, perché riflettono l’incultura dei riformatori che hanno messo in moto un meccanismo che introduce nelle scuole dinamiche aziendali: soltanto chi è incolto può immaginare di scegliere gli insegnanti
sulla base della conformità ad un paradigma culturale: la cultura muore, quando si riduce lo spettro delle sue possibili declinazioni. Quella lettera, comunque, è emblematica perché testimonia una sorta di mutazione genetica della società, nel senso che gli individui sembrano avere smarrito la coscienza di appartenere ad una collettività: si arriva al punto di avvertire come “arbitraria” una selezione pubblica degli insegnanti attraverso un concorso pubblico, mentre non si avverte l’arbitrarietà di una scelta dell’insegnante sulla base dei criteri di un singolo preside!
La questione della “scelta dell’insegnante” deve essere affrontata diversamente, fuori dalla disputa sulla soggettiva titolarità di questa scelta. L’ottica deve essere quella dell’interesse generale, che nel nostro caso coincide con l’innalzamento del livello culturale degli insegnanti. Si parli più correttamente di “selezione” del corpo insegnante. In linea di principio il terreno naturale di questa selezione è il sistema dei concorsi. Un concorso, infatti, costringe a studiare, crea un ventaglio pluralistico di assunzioni, evita parcheggi a tempo indeterminato, immette nella scuola forze fresche. A sua volta, però, il concorso, per assolvere la sua funzione, richiede una serie di condizioni. Tra queste: commissioni ad alto profilo culturale, così da garantire una reale selezione degli ingegni; la certezza dei saperi, nel senso che per ogni disciplina sia individuabile un nucleo essenziale di conoscenze da cui non poter prescindere, programmi concorsuali che non esigano la storia universale delle galassie, perché in tal modo la selezione è affidata al caso; una frequenza dei concorsi tale da non creare moltitudini in attesa, con umilianti situazioni bibliche che annullano nei fatti ogni serietà.
Ebbene: nei fatti, la recente politica della scuola ha abolito il concorso come sistema di reclutamento degli insegnanti, secondo criteri di interesse generale, serietà di conoscenze e pluralismo culturale, minando le condizioni minime della sua funzionalità. In primo luogo per ben dieci anni non è stato bandito alcun concorso per la scuola, lasciando spazio al precariato e alle assunzioni clientelari. Poi il ministro Berlinguer ha indetto un concorso sulle cui modalità avrebbero dovuto informarsi quanti, da mattina a sera, chiacchierano e scrivono di riforme necessarie, accertamenti di merito, progressioni di carriera ecc… .I membri delle commissioni d’esame sono stati scelti in forma arbitraria dall’amministrazione, su semplice domanda degli interessati, senza bisogno di alcun requisito culturale (pubblicazioni, collaborazioni a riviste, accertati successi formativi). I compensi previsti non soltanto sono stati irrisori, ma condizionati alla continuità del normale lavoro scolastico. Il commissario, cioè, la mattina lavorava a scuola come insegnante, il pomeriggio in qualità di commissario si recava fuori sede per giudicare i candidati del concorso, la sera rientrava infine nelle sede di residenza. Al di là delle note sull’eccellenza fisica del corpo docente nazionale, resta il fatto che il nostro commissario non ha potuto disporre di un tempo anche minimo per occuparsi dei percorsi culturali dei candidati, per leggere o rileggere i loro testi di riferimento, per riflettere sui loro documenti. Questo dispositivo ha prodotto commissioni più sensibili alla propria sopravvivenza fisica, piuttosto che a quella della cultura, e candidati sottoposti a prove governate dal caso.
Purtroppo la cronaca di questi concorsi registra episodi di una tale superficialità da gettare discredito sulla professione insegnante. Non mi riferisco agli episodi di corruzione (di cui si è ampiamente discusso sui giornali), ma a quella “corruzione culturale” che mi preoccupa molto di più dell’atto disonesto del commissario che promuove in cambio della mancia. Ad esempio, per conoscenza diretta, giovani talenti in filosofia e storia sono stati penalizzati oltremisura da questo dispositivo che ha consentito l’insediamento di commissioni senza filtri adeguati: capita allora che si consideri errore grave (gli elaborati sono agli atti e controllabili) la constatazione del tutto ovvia circa la contrarietà di Socrate al sistema democratico di Atene, lasciando presumere (nel migliore dei casi) correzioni condotte con l’occhio all’orologio per non perdere il treno utile per il rientro a casa. Così un giovane perde un treno ben più importante. Oppure, in sede orale, a storia, si rimprovera il candidato che afferma che i Franchi si erano insediati in Austrasia: il commissario non sa che la regione dei Franchi Ripuarii, ad est della Mosa, nel Medioevo si chiamava Austrasia. Le commissioni navigano a vista, perché non si sono potute documentare sul materiale e sui testi proposti dai candidati. La selezione è dunque affidata al caso, con episodi culturalmente incresciosi. Ma criticare le commissioni è come sparare sulla Croce Rossa: quando si mettono in atto dispositivi poco seri e culturalmente degradati, l’effetto è di seminare degrado e di selezionare all’incontrario. Sono i candidati con maggiore spessore culturale ad essere penalizzati dalla superficialità di Stato.
Anche il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento è stato pensato in termini tali da negare nei fatti quanto si va declamando a proposito della valorizzazione della professionalità docente. Accade così che ci si possa abilitare all’insegnamento della storia e della filosofia (o di altre classi di concorso), frequentando un corso di cento ore che prevede un modulo di base di 60 ore, e un programma su contenuti specifici di 40 ore. Il modulo di base consiste in lezioni sulla riforma di Berlinguer, del tipo “Apprendimento come complesso situazionale che implica relazione con il mondo extrascolastico e cooperazione da parte di tutti”, oppure “Concetto di programmazione: da un approccio lineare ad un approccio sistematico”, o ancora “Dal PEI al POF” e simili. Considerando che possono frequentare questi corsi, anche coloro che, pur laureati, non hanno mai sentito parlare di filosofia, la scelta di dedicare la maggior parte del tempo alle lezioni sul nulla (tali sono i temi del modulo di base), non lascia dubbi sugli intenti dei riformatori e sull’idea che hanno dell’insegnamento.
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Conoscenze, competenze, capacità
La parola d’ordine della riforma è “dalla scuola delle conoscenze alla scuola delle competenze”. Il regolamento sull’autonomia (art.10, comma 3) recita: “Con decreto del M.P.I. sono adottati nuovi modelli per le certificazioni, le quali indicano le conoscenze, le competenze e le capacità acquisite e i crediti formativi riconoscibili.” Le scuole non dovranno più rilasciare diplomi con voti e giudizi, ma certificati di
competenze, per cui i Collegi docenti e i Consigli di classe dovranno formulare gli obiettivi di apprendimento in termini di conoscenze, competenze e capacità.
In occasione dell’ultimo esame di Stato a cui ho partecipato come commissario, una collega di lettere mi confessava di aver trascorso notti insonni, perché non riusciva a trovar la via per stilare la relazione sul programma svolto, dovendo indicare quali fossero le conoscenze della classe, distinguendole dalle competenze e dalle capacità. Prenderei le mosse da queste notti insonni, quindi da un disagio fisico, per capire se abbiamo a che fare con una collega incapace, restia all’innovazione, oppure se gli incapaci sono altrove.
La domanda più ovvia che si possa rivolgere ai riformatori è di chiarire che cosa intendano con questi termini, dal momento che hanno già inondato la scuola con disposizioni imperative. La sorpresa, surreale, è che non lo sanno. Su questo tema c’è un’imponente letteratura alimentata da organismi internazionali, commissioni, Istituti, intellettuali, tutti alla ricerca di un criterio che consenta di definire in forma univoca la distinzione delle tre sorelline , conoscenza, competenza, capacità. Allo stato attuale il dibattito offre opzioni diverse ed alternative. Per quanti volessero orientarsi (o disorientarsi?) sull’argomento è sufficiente consultare l’inserto de “La rivista della scuola”, giugno 2000.
Dobbiamo prendere atto, con sconcerto, che si attua una riforma che sradica la scuola dalla finalità che le è propria, la formazione culturale dei giovani, le si assegna d’autorità quella di certificare le competenze, senza però sapere che cosa si intenda per competenza. In questo contesto il disagio dell’insegnante di lettere che non riusciva a tradurre il lavoro svolto in classe nel linguaggio ministeriale, se saputo interrogare rivela elementi utili all’analisi.
Le notti insonni e le conseguenti tensioni interiori derivano dal fatto che è un’insegnante che ha stima di sé, del proprio lavoro e degli studenti: questa stima è l’argine che le vieta di utilizzare frasi fatte e formule vuote. Questa stima, però, ha un limite: il disagio viene vissuto come incapacità personale, e non come stato emotivo rivelatore dell’assurdità di quanto viene richiesto. Piuttosto non si dorme la notte, ma si compila la relazione fasulla, perché “lo si deve fare”, per la legge e per il bene dei ragazzi. È falsa coscienza: in realtà non ci si riconosce in quel linguaggio morto da tecnocrati, in quegli indicatori e in quei “punteggi da attribuire al descrittore”. Assecondare queste pratiche ha effetti distruttivi anche sul piano psicologico, perché provoca una frattura tra ciò che siamo e ciò che facciamo; da questa ferita germina il disagio, sotto forma di demotivazione, allontanamento, malinconia.
I più esposti a questa sindrome sono come al solito gli insegnanti più impegnati, che hanno conservato un forte senso del dovere. Si adattano rapidamente, senza disagi, i venditori di fumo e quella parte del corpo docente che ha disattivato ogni interesse e che galleggia nell’indifferenza. A questi docenti si può chiedere tutto, anche il miracolo che gli stessi riformatori ammettono di non saper fare e cioè programmare la cultura in termini di conoscenza, competenza e capacità. Vediamo allora spuntare nell’infinita produzione cartacea a cui noi insegnanti siamo stati condannati da questa riforma, formulette preconfezionate, che si rincorrono nelle praterie del nulla, in un
vano gioco di specchi.
Supponiamo, con fede, che avvenga il miracolo e che un giorno il Parlamento europeo stabilisca con voto di maggioranza come distinguere le tre sorelline. Si aprirebbe uno scenario che così viene descritto dagli addetti ai lavori: “….occorre ricordare che altri problemi per le agenzie deputate all’insegnamento, oltre a quello di definire quali competenze perseguire, sono quelli della loro valutazione e della loro spendibilità. Il che implica altre questioni non meno importanti, quali quelle della comparabilità e della trasferibilità. Di qui un’altra questione ancora, quella della ricerca di opportuni indicatori e descrittori che permettano una lettura omogenea e non equivoca dei dati raccolti anche nelle più diverse situazioni di insegnamento/apprendimento.”
Se fosse possibile incrociare lo sguardo dei circa ottocentomila insegnanti superstiti della scuola italiana, domanderei a ciascuno se questo scenario è compatibile con l’esercizio della propria funzione educativa. Come è possibile che la professionalità di un insegnante, la sua sensibilità culturale, il suo rapporto delicato con gli studenti, possa trovare spazio in una scuola i cui principali problemi sono la certificazione delle competenze, la valutazione, la comparabilità e la spendibilità delle suddette, i descrittori , gli indicatori, e la lettura oggettiva di non si sa cosa? I giovani, a scuola, necessitano di strumenti culturali atti a decodificare il mondo, tali comunque da educare la mente alla riflessione e all’attività ragionativa. Ci presentiamo invece armati di registri, griglie e descrittori.
L’ossessione per la valutazione pone agli insegnanti un altro problema cruciale: il TEMPO. Su questo punto i riformatori non rispondono, ma predispongono. Detto nella forma più semplice: se ancora riesco ad insegnare qualcosa di stimolante ai miei studenti, ciò dipende dal tempo a disposizione per dedicarmi allo studio e alla lettura: un tempo imprescindibile per approfondire i contenuti delle materie che insegno, per pensarli in forma tale da poterli condividere con i giovani che mi sono stati affidati. Questo tempo è travolto da una valanga di prescrizioni attinenti la valutazione e l’organizzazione della scuola. Se accolte, quelle prescrizioni annullano ogni tempo culturalmente significativo, quindi annullano la possibilità stessa che possa esistere un insegnamento degno di questo nome. Quindi vanno respinte.
Sulla questione del tempo, nell’ambito dell’insegnamento, bisogna aggiungere una nota scandalosa (solo per chi non insegna): per svolgere la propria attività in forma incisiva l’insegnante ha bisogno di tempo libero, perché deve rigenerare le energie psichiche, consumate nelle cosiddette ore frontali di lavoro. Questo vale per i maestri come per i professori, perché la relazione con gli allievi, per essere efficace, esige un investimento psichico come pochi altri lavori. A loro volta, gli allievi “sentono” il livello di energia dell’insegnante e rispondono con entusiasmo quando sentono entusiasmo. Si potrebbe obiettare che rivendicare tempo libero per gli insegnanti favorirebbe i refrattari al lavoro, che utilizzerebbero quel tempo con altro spirito. È vero: ma la categoria dei refrattari al lavoro la si sconfigge inserendo questi soggetti in ambienti motivati, seri, stimolanti, dove allora sarebbero loro a provar disagio. Sconfiggerli prescrivendo a tutti gli insegnanti di sfinirsi in attività inutili è il modo
migliore per affondare gli insegnanti professionalmente capaci, che hanno bisogno del “tempo professionale”; gli altri, i fannulloni, trovano comunque rimedi difensivi. Certo, se l’insegnamento viene ridotto a mera registrazione di competenze, o comunque ad un’attività che non mette in giuoco la fatica della relazione, allora il discorso sul tempo cambia, perché di fatto l’insegnare si assimila ad una qualsiasi attività di tipo amministrativo. Nel qual caso potrei “insegnare” anche dodici ore al giorno, anche se in realtà non insegnerei affatto. Ma questa immagine povera dell’insegnamento e del tempo è quella dei moderni pedagogisti che hanno ispirato la riforma. È il tempo seriale e quantitativo dei burocrati. È il tempo della certificazione. Provo sgomento all’idea di insegnare in una scuola finalizzata a certificare competenze, e che, coerentemente discute soltanto di criteri di certificazione, di griglie di valutazione, in attesa della griglia di Stato, a sua volta in attesa della griglia europea, mutuata dalla griglia americana, per finire con l’apparizione messianica della GRIGLIA GLOBALE. Solo a quel punto il giovane grigliato potrà spendere i crediti capitalizzati, comparabili e trasferibili, in ogni angolo del globo. Potrà cioè essere impiegabile.
Prove generali di schedatura
Per quanto concerne la certificazione del curriculum degli studenti, le scuole dell’autonomia sono chiamate a rilasciare certificati che non si limitino ai dati di fatto (diplomato il …, presso…, voto…), ma contengano informazioni relative all’impegno, partecipazione, con osservazioni sul piano formativo, crediti, esperienze significative e quant’altro serva a identificare il giovane. Si tratta, in poche parole, di “elaborare un dossier dello studente in cui, fra l’altro, trovino giusta collocazione le competenze maturate dall’alunno anche ai fini della loro capitalizzazione” (Autonomia 2000, p. 96).
Non è senza significato che questioni inerenti la sfera scolastica vengano trattate con linguaggio mutuato dalle istituzioni bancarie e dai commissariati di polizia. Non interessa più un diploma cartaceo che attesti che il giovane ha compiuto gli studi presso il Liceo Classico Brocchi di Bassano del Grappa: bisogna cominciare a costruire, fin dalla scuola, un dossier personalizzato, necessario a quanti, un domani, dovranno utilizzare il lavoro del giovane.
Le persone che dispongono anche di un barlume di intelligenza, oggi sono giustamente preoccupate, perché anche gli atti privati della nostra vita sono oggetto di una vera e propria schedatura di massa. Consumi, telefonate (anche dalla cabine pubbliche), spostamenti, abitudini, salute, tutto è oggetto di rilevazione in immagine o in dati acquisiti dal sistema informatico. L’individuo è radiografato, schedato, anche riguardo ad aspetti che soltanto pochi anni fa avrebbero fatto inorridire: nella Pubblica amministrazione i sindacati firmano accordi che prevedono che l’impiegato venga fatto oggetto di valutazioni di questo tipo: “grado di coinvolgimento nei processi amministrativi”; “capacità di adattamento ai mutamenti organizzativi”; “partecipazione effettiva alle esigenze della flessibilità”, con punteggi che vanno da 2
a 10 del tipo “scarsa adesione soggettiva”, 2; “sufficiente adesione oggettiva”, 3; “significativa adesione passiva”, 4 ecc…. Qui non si tratta di giudicare se un impiegato svolge correttamente il proprio lavoro: si certificano i gradi di conformismo e di utilizzabilità delle persone, che è altra cosa. Il dossier dello studente si muove in questa direzione: fin dai banchi di scuola dobbiamo prepararci a dimostrare la nostra affidabilità sociale, il nostro conformismo, in ultima analisi la nostra utilizzabilità.
Un dossier personalizzato con dati a largo spettro, leggibili e quantificabili con criteri “oggettivi”, che ci seguirà per tutta la vita, non è altro che la carta di credito del nostro conformismo e della nostra affidabilità sociale. Il diritto premoderno al lavoro, è sostituito con il diritto a dimostrare che si è impiegabili. È uno di quei casi in cui conservare (il diritto al lavoro), è più progressivo di innovare.
L’ossessione della valutazione oggettiva è una questione che vista in una prospettiva culturale è una sciocchezza, in quanto occupa una posizione marginale rispetto alla centralità dell’insegnamento. Assume invece un ruolo strategico nella prospettiva dei dossier: affinché questi siano attendibili è necessario intendersi bene su come procedere alla schedatura, e come renderli universalmente utilizzabili.
Ogni volta che analizziamo la riforma in un ottica culturale, ci scontriamo con delle vere e proprie assurdità. Modificando l’ottica, l’assurdità non appare più tale. Ad esempio la scuola che certifica le competenze con conseguente ossessione della valutazione e del dossier è un assurdo; non è più tale se lo si vede nell’ottica del nuovo mercato del lavoro, che va verso l’abolizione dei contratti collettivi di lavoro a vantaggio di rapporti stipulati su base individuale. In questa prospettiva la certificazione delle competenze, i dossier, la valutazione oggettiva, lo spirito imprenditivo, assumono il loro vero significato. Sul piano pratico, per le aziende, quel che certificherà la scuola avrà un’importanza prossima allo zero; la scuola, però, avrà svolto un compito ben più incisivo, quello di plasmare una mentalità, di abituare i giovani a ragionare in termini funzionali al mercato, a pensarsi come individui isolati in competizione con altri individui, senza traccia di spirito critico. È così che la scuola dell’autonomia diventa complice di quel processo di svalorizzazione dei diritti del lavoro, che è l’essenza vera della fase storica che stiamo vivendo.
[…]
La separatezza della scuola come distanza critica
La separatezza della scuola dal mondo del lavoro, delle imprese e delle professioni, deve essere ben intesa. La separatezza non significa estraniarsi in una realtà artificiale, immutabile ed autoreferenziale. La cultura, se è tale, nel senso creativo del termine è sempre in movimento. Il sinonimo più corretto di “separatezza” è “distanza critica”, un atteggiamento, questo, che può maturare nel giovane solo a condizione che gli insegnanti siano sensibili e ben aggiornati sulle trasformazioni in atto nel proprio tempo, e sulle possibili ricadute sul mondo giovanile. Proprio perché viviamo in una realtà in movimento, è necessario rintracciare nel patrimonio culturale
strumenti e codici di orientamento e di decifrazione dell’esistente.
Cito qualche esempio tratto dalla pratica scolastica. I giovani che oggi vedono rappresentata la sessualità come atto di mera soddisfazione istintuale, oggetto di mercificazione, solo a scuola possono incontrare il Simposio di Platone, e affrontare il tema dell’eros dal punto di vista del significato dell’esperienza d’amore, così da comprendere la sua natura coinvolgente e totalizzante. Sono tanti anni che insegno Hegel e Marx, ma oggi, con i profeti moderni che annunciano che il lavoro deve essere letto solo con gli indici dell’economia di impresa, quelle pagine in cui si dà una visione altra del lavoro, come luogo di identificazione strutturazione della comunità umana, sono sì “separate” dalla realtà sociale di oggi, ma sono di un’attualità bruciante. Si pensi poi ad autori come Husserl, Heidegger che consentono di osservare con uno sguardo problematico la dimensione della tecnica: l’esatto contrario di quella immersione pratica, acritica e diseducativa che esige la scuola riformata, che misura la propria modernità dal numero dei computer disponibili. Questa è la separatezza della cultura dalle esigenze della produzione: è distanza critica tanto più incisiva quanto più si formano insegnanti colti, in grado di recepire i problemi del proprio tempo per tradurli nel linguaggio della cultura. Lentamente, facendo germinare nell’animo dei giovani prospettive diverse, arricchendo la loro sensibilità e quindi il ventaglio delle possibili emozioni. Non c’è dubbio che la scuola dell’abbandono e dell’indifferenza doveva essere riformata, ma per realizzare questi obiettivi, non per trasformarla nel tempio della valutazione del nulla.
Alle radici del disagio: la scuola va al mercato e non torna più
Questa riforma, diversamente da quella di Casati e Gentile, non è il prodotto di una esigenza culturale, nel senso proprio del termine. A partire dai Collegi dei Gesuiti, nel Seicento, le finalità da assegnare alla scuola sono sempre state oggetto di un dibattito appassionato sul significato della cultura e il senso della sua trasmissione. Oggi si dice: riformiamo la scuola per adeguarla alle esigenze del mercato. È come se i Gesuiti avessero detto: riformiamo i nostri Collegi per adeguarli alle competenze richieste dal nuovo circuito internazionale dei commerci. Se avessero riformato i collegi orientandoli verso questa finalità, i Collegi sarebbero rimasti tali come edifici fisici, cessando di essere luoghi di formazione culturale. Questa considerazione vale anche oggi.
Senza entrare nel merito delle intenzioni soggettive dei riformatori, orientare il sistema dell’istruzione verso le richieste del mercato può avere soltanto un esito distruttivo. Si smantella l’esistente senza creare nulla di nuovo. Una scuola funzionale al mercato, non è un modello di scuola diverso da quello precedente, non è più scuola. Per una serie di ragioni: le richieste del mercato per loro natura sono cangianti e tutte interne al meccanismo del profitto. Andar dietro alle richieste del mercato, significa essere nel mercato, e allora la scuola diventa azienda.
In tutto questo c’è un aspetto grottesco e autocontraddittorio: le discipline di studio non si possono adattare alle abilità della produzione; alle aziende non servono la
storia o la filosofia, anche se truccate con il linguaggio aziendale oggi imperante. Per definizione la scuola è cultura, stabilità, mediazione, luogo di trasmissione della memoria, attraverso cui la comunità sociale definisce se stessa ed elabora il linguaggio necessario agli individui per un reciproco riconoscimento. Per definizione l’azienda è meccanismo del profitto, instabilità strutturale, è assenza di memoria, è immediatezza.
Avvilimento, malinconia, “voglia di andarsene”, stanchezza, sono le forme fenomeniche di quel disagio che registra sotto forma di stato emotivo la colossale autocontraddittorietà di questa riforma scolastica:l’insegnante che proietta se stesso nello scenario delineato dai riformatori avverte sgomento, perché in quello scenario cessa di essere insegnante.
Purtroppo sono molti gli insegnanti vittime di una dinamica psicologica che porta ad interiorizzare la distruttività di queste innovazioni, vissuta come una sorta di propria incapacità ad adattarsi ai cambiamenti. È come se un medico si sentisse incapace, di fronte ad una riforma sanitaria che gli assegnasse compiti e funzioni amministrative e organizzative che nulla hanno a che fare con la cura dei pazienti. Probabilmente, però, quel medico manderebbe a quel paese la riforma.
Dobbiamo renderci conto che la scuola che va al mercato non torna più. Rimane al mercato.
Con questo modello di riforma non sono possibili compromessi. Questo lo sanno bene i riformatori che fin dai primi atti hanno sempre evitato di confrontarsi con quanti hanno sollevato obiezioni di fondo, ed hanno sempre proceduto come carri armati, nascondendosi dietro ad interlocutori di comodo o a commissioni di “saggi” appositamente selezionate. I compromessi non sono possibili, perché mancano due presupposti per il dialogo: l’idea che il tempo che i giovani trascorrono a scuola corrisponde ad una fase della vita individuale e collettiva in cui ciascuno è impegnato a definire la propria identità, a maturare stima di sé, ad assimilare i codici culturali necessari a decifrare il mondo; l’idea, inoltre,che una scuola è espressione di una società civile, moderna, democratica e progressiva, tanto più alta è la qualità della cultura che trasmette, al più alto numero possibile di giovani, per un tempo che copra l’intero arco dello sviluppo psico-fisico del giovane, indipendentemente dalle condizioni sociali. Dopo, concluso questo itinerario formativo, l’individuo entrerà nel mondo del lavoro, inaugurando una nuova fase della vita. Come la scuola si deve prender carico di far comprendere ai giovani il valore del vivere insieme e quindi che cosa significhi un’esperienza d’amore, che cosa significhi la giustizia, l’essere liberi, il pensare e il capire, così il mondo del lavoro, dopo, si prenda carico di insegnare le competenze necessarie alla produzione. Confondere queste fasi diverse della vita, a cui corrispondono esigenze e modalità d’essere diversi, significa perdere un tratto distintivo della civiltà occidentale.
La responsabilità degli insegnanti nel nuovo corso del mondo
Gli insegnanti si trovano oggi, non solo in Italia, in un frangente storico che li carica
di enormi responsabilità, per il luogo strategico che occupano. Devono scegliere se farsi veicolo di questo processo di appiattimento di ogni dimensione dell’essere sulle esigenze della produzione e del consumo, o se mantenere vivo il senso dell’educare, in una scuola da rinnovare nella direzione opposta a quella attuale. Nessuno può sottrarsi a questa scelta: quanti si adeguano in forma irriflessa alle nuove pratiche scolastiche, ne diventano complici oggettivi, allo stesso modo di quanti vi partecipano con attiva consapevolezza.
L’obiezione comune è che questo, ormai, è il corso del mondo, per cui ”non c’è niente da fare”. Un obiezione utile per nascondere se stessi, ma sbagliata nella sostanza. In primo luogo “non c’è niente da fare”, quando tutto va per il meglio, o perlomeno quando si è imboccata la direzione giusta, quando cioè si opera per garantire al più alto numero possibile di esseri umani una condizione di vita dignitosa, subordinando a questo fine ogni altra istanza economica o di potere che sia. In secondo luogo, meno male che non hanno ragionato in questi termini, in situazioni drammatiche, quanti si sono opposti con il sacrificio della propria vita ai regimi totalitari. Il fatto che il corso del mondo al tempo in cui gli eserciti nazisti occupavano trionfalmente l’Europa, fosse quello di sterminare interi popoli, non era una buona ragione per adeguarvisi. Eppure quello era il corso del mondo.
Oggi, gli insegnanti potrebbero difendere alcuni fondamentali principi di civiltà con un semplice atto, quello di essere se stessi: ciò implicherebbe minare nelle fondamenta questa costruzione abusiva di aziende nella scuola. Lo esige anche il piano regolatore. L’esplosivo di cui dispongono gli insegnanti è l’intelligenza, che vieta di aderire a pratiche scolastiche diseducative e vuote. Si ascolti il proprio disagio e gli si dia voce.
Una domanda che dovremmo porci, è come mai, oggi, il dibattito sulla scuola sia regredito a livelli così bassi. Come mai, cioè, sia necessario dimostrare anche delle ovvietà, ad esempio che i problemi della cultura e della scuola non si risolvono con criteri aziendalistici, o che il dramma della disoccupazione non ha le radici nella scuola. Eppure dobbiamo affaticarci per dimostrarlo. Se dovessimo dimostrare che la schiavitù non è un bene per l’uomo, potremmo farlo in forma inoppugnabile, ma, alla resa dei conti, avrebbero vinto i nostri interlocutori che ci hanno costretto a dimostrare ciò che non doveva essere dimostrato. Se a questo siamo ridotti, significa che c’è una corrente forte, che spinge verso finalità umanamente regressive, a cui è impresa ardua porre un argine. I predicati della cultura – libera creatività, spirito critico, progettualità a lungo termine, elaborazione di valori umani, tempo della riflessione, lentezza dell’assimilazione – sono sostanzialmente incompatibili con il moderno e totalizzante paradigma aziendale. Un esempio banale: da alcuni mesi, sui maggiori quotidiani, compare la pubblicità di un istituto privato di preparazione universitaria che celebra i propri successi, citando il caso di una giovane corsista, che, iscritta al III anno di sociologia, ha superato 14 esami in un solo anno, con la media del 26! Il tasso di “cultura” depositato in quei 14 esami è facile immaginarlo. Una certificazione pubblica di superficialità è citata come modello vincente. Lo si può fare, perché ciò che interessa è la rapidità.
A questo sembra ridursi la tendenza “culturale” del nostro tempo: una replica, o esteriorizzazione delle esigenze che muovono il mondo delle merci. Si tratta di una tendenza che non è più oggetto di analisi solo in ristretti ambiti intellettuali, ma è diventata senso comune, quasi forma irriflessa della coscienza.
Per concludere questo viaggio nel disagio della scuola e riconoscerlo finalmente per intero, mi affido ad un commento chiaro ed essenziale, apparso in prima pagina sulle colonne del Corriere della Sera (11.8.2000), interprete storico degli umori della borghesia nazionale. Sotto il titolo ”Tendenze culturali, arrivò il pensiero corto” (di Armando Torno), si legge:
“…È come se la riflessione umana fosse entrata in corto circuito, ridimensionando i propri orizzonti…, forse perché non crede più nei progetti secolari della mente. Scandaloso parlare di pensiero corto?… La nuova economia ci insegna che la rapidità delle decisioni fa premio sulla profondità delle analisi. E il godimento che prevale è quello a breve termine. …. Le stesse riforme della scuola e dell’università, almeno in Italia, desiderano adeguarsi (e tutti crediamo giustamente) alle esigenze dell’economia e non pretendono di creare un modello culturale assoluto. …. Ormai ciò che conta è la rapidità. Si guadagna se si coglie l’attimo delle contrattazioni, se si utilizza la rete al momento giusto, se non si crede a quei valori che appesantiscono le nostre mosse. Oggi l’uomo di successo non ha bisogno né di cultura umanistica né di conoscere la storia, gli si chiede soltanto di vivere nella logica dei mercati. Sono scandalose queste considerazioni? Si limitano a descrivere quanto sta succedendo.
…Rendiamoci conto che la cultura, così come è stata concepita per secoli diventerà un ricordo. Emancipare, redimere l’umanità, migliorarla, sembrano verbi sempre più vuoti. I cosiddetti valori che da essa abbiamo ricavato hanno subito continui cambiamenti nel corso del Novecento e ne avranno sempre di più. Probabilmente è già nata una persona che li spedirà al macero, come utilitarie ed elettrodomestici. Il processo è già cominciato in alcune università americane. Platone e Aristotele, i fondamenti del sapere occidentale, vengono rifiutati, perché non rispondono al nostro ideale di correttezza. Occorre essere globalmente corretti e prendere le distanze dai Greci e dai quei loro progetti concepiti con l’angoscia del tempo. La cultura aveva bisogno di troppo spazio, oggi ne abbiamo poco. Ne resterà sempre meno”.
L’analisi coglie nel segno. Da insegnanti, da quel punto di osservazione che è la scuola dell’autonomia, abbiamo interrogato il disagio. La risposta che abbiamo trovato è dura: si tratta veramente del disagio dell’inciviltà.
Massimo Bontempelli
STORIA DI UNO SFASCIO EPOCALE
[Massimo Bontempelli, autore del saggio L’agonia della scuola italiana Editrice C.R.T., Pistoia 2000, ha scritto nel 2009 questo articolo per la rivista Indipendenza].
Il sistema nazionale della pubblica istruzione, nato in Italia, con l’articolazione dei suoi tre gradi elementare, medio e superiore, per opera della legge Moscati-Paradisi del 1802, fatta dalla «Repubblica sorella» della Francia rivoluzionaria, e ricostituito poi, dopo essere stato distrutto dalla Restaurazione del 1814, per opera della legge Casati del 1859, fatta in funzione della prossima formazione del regno d’Italia, è oggi quasi completamente sfasciato. Gli istituti scolastici operano infatti ciascuno per proprio conto, senza contenuti nazionali di insegnamento vincolanti, senza controlli sulla preparazione dei propri allievi, con insegnanti che valutano essi stessi i propri risultati attraverso esami ormai sostanzialmente interni. Non si capisce neanche più, del resto, cosa significhi che un allievo sia preparato o che non lo sia, dato che non esistono più criteri pubblici condivisi di quali siano i saperi essenziali da apprendere. I singoli istituti scolastici, talvolta con nomi altisonanti autoattribuitisi, come liceo scientifico-tecnologico, liceo socio-pedagogico, liceo di scienze della formazione, etc., si adoperano soprattutto a lustrare ciascuno la propria immagine esterna, che spesso copre insegnanti incolti, studenti sfaccendati, insuccessi educativi.
Ogni insegnante, nella scuola di oggi, non è al servizio di un progetto educativo nazionale, ma è abbandonato a se stesso, con un basso stipendio e nessuna considerazione, in cambio di nessuna richiesta e nessun controllo da parte dello Stato. Se richieste gli vengono fatte, sono di tipo burocratico, massimamente insulse e inutili, imposte da vuoti momenti collegiali e da dirigenti ottusi. Il 23 novembre 2009, il nuovo rettore dell’università di Bologna, l’insigne latinista Ivano Dionigi, inaugurando l’anno accademico, ha avuto il coraggio di parlare della realtà della scuola per quello che effettivamente è. Non ha lesinato dure critiche al sistema universitario di cui fa parte, e questo rende non sospette le sue rilevazioni sul sistema scolastico che precede l’università. Ha mostrato come oggi si iscrivano alle università giovani che in sempre maggior numero non hanno imparato a scuola neanche a comprendere il senso dei testi, e che sono schiacciati mentalmente sul presente al punto da essere privi non soltanto di ogni conoscenza storica, ma addirittura di ogni percezione della storicità delle cose. «Il mio», ha detto, «non è un atto di accusa alle singole scuole, ma un grido di allarme sul sistema-scuola nel nostro Paese».
Non si sarebbe potuto dire meglio. Siamo arrivati allo sfacelo del sistema-scuola, vale
a dire a un disastro epocale, perché proprio nel momento in cui la rovina del lavoro, della sanità, della giustizia e della legalità del Paese esigerebbe cittadini capaci di comprendere i problemi e di pretendere che siano affrontati, l’istruzione ricevuta dai giovani tende a renderli consumatori ottusi, inintelligentemente adattati a un sistema politico corrotto.
Lo sfacelo del sistema-scuola, dunque, è nello stesso tempo espressione e concausa dello sfacelo della nazione. Chi voglia reagire a questo disastro antropologico deve prima di tutto comprendere da quale contesto storico discende, perché soltanto questa comprensione consente un orientamento giusto rispetto alla scuola, per ora purtroppo impotente, ma almeno non accecato dal coinvolgimento negli alienanti e stupidi dettagli di tanta parte dell’odierna quotidianità scolastica.
C’è una storia dell’Italia contemporanea svoltasi nel silenzio dell’insieme delle forze politiche, dei mezzi di informazione e degli ambienti intellettuali, e oggi completamente assente nella memoria collettiva, che contiene in sé le ragioni originarie dello sfacelo del sistema nazionale della pubblica istruzione, e da cui sono partiti quindi i primi impulsi a sfasciarlo.
È la storia del disastro sociale provocato dal grande ciclo delle privatizzazioni che tra il 1993 e il 1999 ha smantellato l’economia pubblica italiana. Le pressioni più forti ad avviare tale ciclo non sono state nazionali, ma estere, provenendo dalle nuove regole iperliberiste dell’Unione economica e monetaria europea nata da Maastricht nel 1992, e dalla grande finanza anglosassone, desiderosa di prendersi a buon mercato i pezzi più produttivi e profittevoli della nostra industria nazionale. Per farlo c’è stato bisogno dell’attivo concorso di influenti personaggi italiani, privi, o perché americanizzati, o perché corrotti, o perché ignari, di ogni senso nazionale del bene collettivo. Guido Carli come ministro del Tesoro del settimo governo Andreotti (1991-92), Giuliano Amato come capo del governo (1992-93), Carlo Azeglio Ciampi come capo del governo (1993-94), Mario Draghi come direttore generale del Tesoro, nominato da Ciampi presidente del comitato per le privatizzazioni (nel 1993), l’economista Beniamino Andreatta come ministro degli esteri del governo Ciampi (1993-94), Romano Prodi nel suo secondo mandato all’IRI (1993-96) e nella sua prima fase di governo (1996-98), e infine Massimo D’Alema come capo del governo (1998-2000), formeranno, il giorno in cui sarà portata alla luce la storia reale e non artefatta del nostro Paese, la lista nera di coloro che hanno spinto l’Italia nel baratro, dando in pasto all’avidità di profitto privato immediato ogni pezzo e meccanismo dell’economia.
La storia reale, quando sarà raccontata, ricorderà che nel 1993 il grande ciclo di smantellamento dell’economia pubblica italiana ha potuto essere avviato nel silenzio acquiescente del Paese perché il gruppo dirigente dell’ex partito comunista, riciclatosi intatto nel nuovo partito del PDS, ha accettato di non opporsi alle
privatizzazioni, e di non parlarne, in cambio della sua legittimazione a governare. La successiva cancellazione, da parte di Berlusconi, della operatività di ogni regola giuridica e di ogni costume etico come limiti alle lotte per il danaro e per il potere, non è stata che un corollario della grande svendita dell’Italia ai privati tra il 1993 e il 1999.
La scuola pubblica e nazionale non poteva sopravvivere alla privatizzazione del pubblico e alla svendita della nazione compiutesi negli anni novanta. Nel 1993-94, con la privatizzazione delle banche dell’IRI per opera di Ciampi, Prodi e Draghi, il risparmio nazionale è diventato una risorsa usabile senza limiti a scopi speculativi privati. Nel 1997, con la privatizzazione della telefonia per opera del governo Prodi, sono stati messi nelle mani di interessi privati potenti strumenti di controllo sociale. Nel 1999, sotto l’egida di D’Alema, i trasporti italiani e l’energia petrolifera ed elettrica disponibile per la nazione sono passati alla gestione di società per azioni con azionisti privati. In conclusione, risorse di portata strategica per la vita collettiva quali il risparmio del Paese, il suo sistema di trasporti, il suo approvvigionamento energetico, le sue infrastrutture territoriali, tra il 1993 e il 1999 sono state svincolate da una destinazione esclusiva a finalità pubbliche e nazionali, e ricollocate in un quadro di gestione aziendalistica, i cui parametri sono soltanto i clienti paganti (non il diritto dei cittadini al servizio), i ricavi da massimizzare (che hanno comportato riduzioni di personale anche a prezzo di una dequalificazione delle prestazioni). Se si capisce questo contesto storico e ideologico degli anni novanta si capisce come non potesse sopravvivergli un sistema nazionale di istruzione pubblica. L’istruzione dei cittadini è, oltre quelle già menzionate, un’altra risorsa di portata strategica, immateriale anziché fisica, per la vita collettiva, la cui importanza è decisiva per la riproduzione storica di un’identità nazionale.
Ma una volta che le forze politiche, divenute prone alla cosiddetta globalizzazione e liberalizzazione dell’economia, hanno perso di vista l’idea stessa dell’identità nazionale, una volta che le forze produttive sono state svincolate da qualsiasi obbligo di tener conto di finalità pubbliche, e una volta che gli stessi servizi fondamentali ai cittadini, come i trasporti e la stessa sanità, sono stati ridefiniti in termini di prestazioni aziendali anziché di oneri statali, la scuola non poteva che essere anch’essa collocata entro queste categorie. C’è stata dunque, attorno alla metà degli anni novanta, entro la tendenza storica e il clima ideologico della privatizzazione del pubblico e della denazionalizzazione del collettivo, una forte spinta a considerare la centralizzazione nazionale del sistema-scuola un appesantimento burocratico, la spesa statale per finanziarla un onere eccessivo, l’istruzione non vendibile come risorsa per le attività professionali e produttive inutile retorica. A questo punto occorreva un uomo interamente condizionato da tale spinta, ma del tutto ignaro di esserlo, così da non avere esitazioni a tradurla in atto grazie alla convinzione di agire seguendo le proprie idee progressiste. Un uomo sufficientemente sciocco da distruggere il sistema nazionale della pubblica istruzione narcisisticamente credendo di compiere una
grande operazione di riforma della scuola. La storia crea sempre i personaggi di cui ha bisogno. È quel processo che Hegel ha concettualizzato come astuzia della ragione, anche se bisognerebbe in questo caso parlare piuttosto di astuzia della sragione. Al momento giusto compare infatti, a occuparsi della scuola, Luigi Berlinguer. Nell’aprile 1996 ci sono le elezioni politiche. La sinistra postcomunista si presenta agli elettori sotto la guida di un democristiano già allievo di Andreatta e cliente di De Mita, Romano Prodi. Lo ha scelto D’Alema, non in quanto postdemocristiano, ma in quanto garante, presso la grande finanza transnazionale e italiana, della piena accettabilità capitalistica dell’ingresso dei postcomunisti nel governo. Prodi, infatti, è stato il presidente dell’IRI che ha dato l’avvio alla liquidazione del suo patrimonio, ed è stato il consulente retribuito di grandi gruppi economici stranieri, quelli stessi ai quali ha fatto cedere dall’IRI a prezzi d’affezione i pezzi più remunerativi dell’economia pubblica italiana. È un uomo emerso da una vita facile, spianata dai legami familiari e dall’appartenenza cattolica, il cui orizzonte spirituale è la contabilità finanziaria. Vinte le elezioni del 1996, sulla base di un programma di generica modernizzazione del Paese, che mette al centro del processo innovativo anche la modernizzazione, intesa in senso tecnocratico e mercantile, del sistema scolastico, Prodi, diventato capo del governo, affida la gestione dell’innovazione scolastica appunto a Berlinguer, facendone il suo ministro dell’istruzione.
Luigi Berlinguer è uno dei postcomunisti a cui Prodi apre le porte del governo del Paese garantendone presso il mondo finanziario l’affidabilità capitalistica. Pur venendo da una diversa sponda politica, e avendo interessi diversi, i due uomini si somigliano molto: devono tutto alla famiglia e alla cerchia da cui provengono, tendono a scambiare le certezze del loro angusto e superficiale perimetro mentale per grandi idee, e sono in ogni circostanza vacuamente soddisfatti di sé, sopravvalutandosi e rimuovendo le conseguenze negative dei loro atti. Berlinguer, così, già nel 1997, disarticola il sistema nazionale della pubblica istruzione, assimilando i singoli istituti scolastici ad aziende che producono ciascuna una propria offerta formativa, ma credendo di compiere una riforma progressista nel nome della cosiddetta autonomia delle scuole. Autonomia è una parola seducente, che evoca una prassi democratica e una libertà da pastoie burocratiche. La realtà che si nasconde dietro quella parola è però il diminuito impegno dello Stato nel finanziare il sistema- scuola, la consegna data ai singoli istituti scolastici, sia pure per un futuro non immediato, a cercarsi finanziamenti privati, e l’abbandono di ogni progetto educativo nazionale con contenuti culturali vincolanti per l’insegnamento nelle singole scuole, tutti elementi che discendono dal contesto storico e ideologico, proprio dell’epoca, di privatizzazione del pubblico. Berlinguer fa inoltre entrare in vigore, nell’anno scolastico 1998-99, un nuovo esame di Stato, tutti i cui nuovi caratteri (commissioni esaminatrici per metà interne, terza prova scritta ricalcata su prove date dalla scuola, colloquio orale non seriamente valutabile per l’affollarsi di troppe discipline in troppo poco tempo, e altri consimili) convergono in maniera strisciante nella sua
trasformazione in un giudizio su ciò che ciascuna scuola ha insegnato dato dalla scuola stessa. Il nuovo esame contribuisce quindi, mediante l’allentamento di ogni controllo esterno sulla preparazione fornita da ciascuna scuola, a disarticolare ulteriormente il sistema nazionale della pubblica istruzione, dopo i colpi infertigli dalla cosiddetta autonomia scolastica.
Il nuovo esame retroagisce inoltre sulla conduzione dell’anno scolastico che con esso si conclude, favorendo la superficialità degli insegnamenti e incoraggiando il disimpegno di insegnanti e studenti, dato che, alla fine, in ogni scuola sono gli stessi insegnanti che hanno preparato gli studenti a giudicare la preparazione che hanno loro dato. Gli anni scolastici 1998-99, 1999-2000 e 2000-01, sono quelli del maggiore impulso dato al decadimento della scuola italiana, elementare, media e superiore, per la pressione esercitata su di essa dalla lobby, quanto mai incolta, presuntuosa e lautamente retribuita, dei pedagogisti accademici. Formulari vuoti, e divoratori di tempo, si sostituiscono alla serietà dei contenuti dell’insegnamento, progetti parcellari interrompono la continuità dei percorsi disciplinari, la demenziale esaltazione della flessibilità organizzativa corrode forme di omogeneità indispensabili alla scuola, persino l’unità del gruppo-classe alle elementari.
Scocca, in quegli anni, l’ora degli insegnanti mediocri, che sono finalmente legittimati a disinteressarsi alla loro preparazione culturale e di ogni vincolo di contenuto ai loro insegnamenti, e possono ritagliarsi un’immagine positiva indaffarandosi nel nulla di scartoffie, griglie, funzioni promozionali, formule valutative (come il demenziale giudizio tripartito su capacità conoscenze e competenze). La percentuale dei promossi alla fine dei cicli cresce in proporzione alla diminuzione dei livelli di preparazione.
Nel 1996, a pochi mesi dal suo insediamento come ministro della pubblica istruzione, Berlinguer contesta pretestuosamente la facilità non seria dell’esame di Stato introdotto nel 1969, che si basa soltanto su due prove scritte e due orali, rendendo troppo agevoli le promozioni, e promette un nuovo esame più impegnativo. Ebbene: negli esami di Stato del 1996, quelli che danno occasione alla critica di Berlinguer, la percentuale dei promossi è del 93,3%. Il nuovo esame di Berlinguer, con il suo diluvio di prove, provette e tesine, registra al suo esordio, nel 1999, il 94,9% dei promossi, che salgono al 95,9% nel 2000, e al 96,1% nel 2001. La legge 62 del 2000, sotto il governo D’Alema, amplia i diritti delle scuole private. Nel 2002 la Moratti, ministro della pubblica istruzione del governo Berlusconi, rende completamente interne le commissioni d’esame. L’effetto combinato dei due provvedimenti è che ora tutte le scuole, comprese quelle private, possono farsi il proprio esame di Stato su misura.
A questo punto il sistema nazionale della pubblica istruzione è quasi completamente sfasciato. Le scuole trasmettono, fin dalle elementari, contenuti di istruzione sempre
più poveri e disorganizzati, rispetto ai quali assicurano facili promozioni, distribuendo diplomi ormai socialmente non spendibili. Sono diventate quindi luoghi in larga misura di parcheggio di fasce di età, senza più mezzi per impedire che una società senza più coesione e valori vi riversi un numero crescente di allievi indisciplinati, maleducati, talvolta fortemente aggressivi. I più scolarizzati, preso un diploma che non garantisce nulla, ne sono indotti a proseguire gli studi fino alla laurea, che egualmente non garantisce nulla, e poi magari anche a corsi di perfezionamento postlaurea, per scoprire che anch’essi non servono. Gli sbocchi sociali e professionali, infatti, non hanno più alcuna connessione con il sistema scolastico, e tanto meno con il merito individuale, ma dipendono dalla possibilità di ottenere favori da un sistema generalizzato di corruzione.
Recentemente Guidalberto Guidi, amministratore delegato della Ducati e presidente dell’associazione delle industrie elettromeccaniche ha dichiarato quanto segue: a fronte di un reddito globale tagliato dagli effetti della crisi, di un dollaro svalutato rispetto all’euro che rende sempre meno accessibile il grande mercato statunitense, e di aree sudamericane e asiatiche che rispondono sempre più con le loro produzioni interne ai loro bisogni economici, l’economia italiana produce troppo rispetto a quello che il mondo può assorbire. A questa diagnosi perfettamente realistica Guidi risponde con una prospettiva di pura follia, secondo la quale, poiché: l’insufficienza della domanda mondiale obbliga l’Italia, seguendo le leggi del mercato, a lasciar morire il 50% del suo universo di piccole e medie imprese, la saggezza imporrebbe alla gioventù italiana di attrezzarsi per andare a lavorare e vivere all’estero, soprattutto in Cina, India e Brasile (dato che l’Europa ha problemi simili a quelli italiani), e a considerare l’Italia come il luogo in cui tornare nelle vacanze per rivedere i parenti (sic!).
Si tratta della follia mercatistica che ha colonizzato le menti negli anni novanta: se le conseguenze degli assiomi di un’economia mercantile globalizzata sono devastatrici della società e della civiltà, non si cambiano gli assiomi, come la sanità mentale imporrebbe, ma, pur di non metterli in discussione, se ne accetta qualsiasi conseguenza. Dovrebbe essere evidente, invece, che se rimanere senza Stato in un’economia totalmente privata inserita nella concorrenza mondiale, porta come conseguenza la distruzione di metà della più utile industria manifatturiera italiana, quel che occorre è evitare questa conseguenza ritornando a una economia regolata dallo Stato e sottratta ad almeno alcuni degli imperativi della concorrenza mercantile. Torna qui la necessità di ricostituire uno Stato- nazione capace di reintrodurre in campo economico parametri vincolanti di interesse collettivo. La ricostituzione di questo Stato è la condizione della salvaguardia non solo della nostra industria manifatturiera, ma anche della nostra scuola.
Riassumendo questa dichiarazione di Guidi non abbiamo quindi cambiato argomento rispetto al tema della scuola. L’impossibilità che ha oggi una quota sempre più ampia
della popolazione di vivere dignitosamente di un lavoro utile nel proprio Paese, e il collasso del sistema-scuola, non sono infatti che due lati della medesima realtà: la scomparsa di ogni ruolo regolatore e di indirizzo dello Stato nella vita sociale e produttiva (con conseguente riduzione della politica a mera lotta per la spartizione del potere tra gruppi corrotti), di ogni garanzia dei diritti di cittadinanza attraverso funzioni pubbliche finanziate dalla fiscalità generale, e di ogni sentimento della nazione come spazio spirituale di appartenenza solidale dei cittadini. Non si può dunque ricomporre un sistema-scuola, contrastando l’analfabetismo culturale, e l’impoverimento mentale di massa diffusi dal suo sfacelo, senza ricomporre uno Stato-nazione, finalità generali ben distinte dagli interessi particolari, funzioni pubbliche ben distinte dalle attività private. Solo una tale dimensione statale, infatti, ha bisogno di una cultura della cittadinanza e di una scuola che la promuova, mentre una società di mercato ha bisogno di ottusità consumistica, non di scuola.
Ciò è del resto provato dal fatto, naturalmente dimenticato dall’odierno analfabetismo culturale, che tutti i moderni sistemi-scuola sono nati al costituirsi degli Stati-nazione e per loro opera. Emerge a questo punto un circolo vizioso. Per rifare la scuola occorre una cultura dello Stato e della cittadinanza oggi scomparsa, e per ridiffondere una cultura dello Stato e della cittadinanza occorre una scuola che la insegni. Per uscire da questo circolo vizioso occorre avere chiaro che abbiamo bisogno di un progetto-scuola, cioè del disegno di una scuola funzionante e non soltanto di una critica ai provvedimenti che la sfasciano, ma nella consapevolezza che nessun progetto-scuola ha la benché minima possibilità di concretizzarsi nell’attuale contesto storico e per opera dell’attuale ceto politico, di destra, centro o sinistra che sia, e che esso deve essere elaborato, ed elaborato in positivo, come una proposta legislativa, ma non per arrivare a un’impossibile legislazione che lo attui, bensì come strumento di lotta, all’inizio necessariamente molto minoritaria, con cui contribuire alla formazione di una nuova cultura sociale e politica. Ci sono molti esempi storici di circoli viziosi rotti in questo modo. Le prime femministe che si batterono per il voto alle donne non avevano la benché minima possibilità di ottenerlo, ma le loro battaglie fecero lentamente esplicitare la contraddizione tra l’ideale democratico e la cultura patriarcale, portando in un’epoca storica successiva il suffragio veramente universale, cioè anche femminile.
Oggi si tratta di far maturare, da posizioni necessariamente molto minoritarie, la contraddizione tra la cultura dell’aziendalismo antistatalista (nel senso di ostile a uno Stato autentico, ma niente affatto a quello da mungere per alimentare i profitti) e l’esistenza stessa della scuola. La scuola-azienda non è che un ossimoro, un asino volante che non può esistere, tanto è vero che la concezione aziendalistica degli istituti scolastici li distrugge come scuole, applicandovi criteri incongrui alla formazione culturale, senza neppure farli rinascere come aziende, perché la formazione culturale non può essere venduta secondo un rapporto tra ricavi e costi come un elettrodomestico. Si può modificarla e trarne profitto soltanto declassandola
a istruzione tecnica per professioni privilegiate, cioè in pochissimi casi. Avete mai visto un istituto scolastico che, senza sostegni statali, sia in grado di fare profitti vendendo i suoi insegnamenti ad allievi-clienti disposti a pagare molto per comprarli? Occorre dunque, prima di tutto, battere e ribattere contro i falsi luoghi comuni che hanno reso sensata all’apparenza l’insensata idea della scuola azienda, andando faticosamente contro corrente, e avendo dalla propria parte solo la forza dell’evidenza, che oggi conta poco.
Primo falso luogo comune: la gestione privata di una qualsiasi attività, e di conseguenza anche dell’insegnamento, è sempre più efficiente di quella pubblica. Per far passare questo luogo comune si confrontano le gestioni pubbliche reali, per di più di un Paese ad altissimo tasso di corruzione politica come l’Italia, con una gestione privata ideale, basata su una onesta e trasparente concorrenza nei prezzi e nelle prestazioni.
È evidente che si tratta di un confronto scorretto. Se i due termini sono paragonati sul piano ideale, cioè senza le distorsioni e le corruzioni del contesto storico reale, la gestione privata è peggiore di quella pubblica, perché contiene nel suo stesso concetto gli scopi e i costi dei profitti da realizzare. Se i due termini sono paragonati sul piano reale, il confronto è ancora più svantaggioso per il privato. Le privatizzazioni reali hanno creato monopoli privati, maggiori intrecci corruttivi tra affari e politica, prezzi più alti e maggiori imbrogli per gli utenti. Basti pensare ai casi delle banche, dei telefoni e delle ferrovie, per vedere in tutta evidenza come la gestione privata, pur con il vantaggio di doversi confrontare con una antecedente gestione pubblica sprecona e corrotta, è riuscita a rendere molto peggiore di prima i servizi ai cittadini: quando mai le banche di Stato hanno strozzato le imprese come fanno oggi quelle private? Quando mai i telefoni di Stato hanno truffato i cittadini come fa Telecom? Quando mai i treni di Stato hanno conosciuto guasti, ritardi e soppressioni della stessa portata di quelli attuali?
Si obietta: se le privatizzazioni fossero state fatte meglio, tutto questo non sarebbe successo. Si ripete così l’argomento capzioso di certi comunisti di un tempo, quando dicevano che, se i principi comunisti fossero stati applicati bene, tutti i gravi aspetti negativi della società sovietica non ci sarebbero stati. Giustamente Breznev replicava: il nostro è il comunismo reale. Bene, cantori delle privatizzazioni: quelle che avete sono le privatizzazioni reali. Né si capisce come si possa giustificare la gestione privata dicendo che poteva essere realizzata in maniera migliore senza concedere che la stessa gestione pubblica, allora, avrebbe potuto essere migliore di quel che è stata. Senza contare che i difetti crescenti della gestione pubblica di un’ampia area dell’economia italiana sono dipesi tutti da crescenti interferenze partitiche che vi hanno distratto risorse finanziarie e imposto clientele, e dunque già da una privatizzazione del pubblico, dato che i partiti non sono lo Stato, ma, come spiega la nostra Costituzione, sono associazioni private.
Secondo falso luogo comune: il sistema-scuola si è ridotto a uno stato fallimentare perché i suoi percorsi sono troppo facilitati e per niente selettivi, tutti vengono promossi, e i titoli di studio che ottengono sono senza valore. Questo pseudoragionamento, oltre a basarsi su una nozione generica e acritica di selezione (la selezione è valida non in astratto, ma soltanto se ci sono validi contenuti trasmessi rispetto ai quali selezionare l’apprendimento, ed è accettabile soltanto se seleziona livelli diversi di scolarità, non certo tra lo stare a scuola e l’esserne espulsi), scambia la causa con l’effetto. Non è, cioè, che i titoli di studio siano senza valore perché la scuola non impegna a sufficienza gli allievi. Tutto al contrario, il disimpegno sempre più diffuso nella società è l’effetto della perdita di valore dei titoli di studio, diventati non spendibili negli sbocchi sociali, a causa dell’affermazione di un capitalismo senza Stato orientato sempre più verso la massimizzazione dei profitti nel breve periodo, che restringe sempre più quegli sbocchi e vi filtra forza-lavoro il più possibile ricattabile e quindi poco istruita.
Per riguadagnare una scuola costruttivamente impegnativa e sensatamente selettiva è dunque necessario restituirle la funzione di promuovere la mobilità sociale verso l’alto attraverso l’istruzione e la cultura che ha avuto, pur con tutte le restrizioni classiste, in tanti periodi della nostra storia. È sociologicamente dimostrato che se la scuola consente, sia pure a pochi, di salire a un livello sociale superiore a quello dei propri genitori, i suoi allievi, anche se non hanno in questa ascesa la loro motivazione psicologica, o se sono addirittura inconsapevoli di una tale possibilità, studiano con più impegno, e ciò indipendentemente dalla natura dei contenuti loro insegnati. La condizione della serietà della scuola è insomma che i titoli che essa rilascia siano di vantaggio per l’inserimento sociale. Essendo impossibile realizzare questa condizione nella società di mercato, la serietà della scuola dipende dalla ricostituzione di un ruolo forte dello Stato.
Terzo falso luogo comune: lo stato fallimentare del sistema-scuola si spiega con i suoi contenuti di insegnamento, che sono arcaici, lontani dalla concretezza della vita, e senza rapporto, quindi, con le competenze richieste dalle professioni e dal mercato del lavoro. Il disimpegno e la fannullonaggine di coloro che frequentano la scuola dipendono, si dice, dalla percezione della sua inutilità, dato che la preparazione che essa fornisce non aiuta a trovare lavoro e a inserirsi in una professione. Se coloro che hanno ottenuto un diploma di scuola secondaria sapessero parlare perfettamente l’inglese, fossero capaci di usare al meglio il computer, e conoscessero bene i segreti del marketing e le tecniche finanziarie, si conclude, troverebbero facilmente lavoro, e ciò mobiliterebbe le energie degli allievi per il conseguimento dei diplomi. Bisogna dire che questo modo di argomentare è un imbroglio, e talvolta un autoimbroglio, dannoso e crudele. La richiesta di lavoro da parte di un sistema sociale dipende infatti non dalle competenze lavorative dei suoi individui, ma dalle strutture di potere riprodotte dai suoi meccanismi economici. Se, per esempio, prevale un’economia di
sfruttamento sregolato del territorio, che non tiene conto dei suoi assetti geologici, le migliori competenze di geologia non assicureranno un posto di lavoro. Se nelle ferrovie privatizzate la ricerca di maggiori profitti porta alla riduzione dei costi della sicurezza, e quindi alla rinuncia a dipendenti specializzati nella meccanica ferroviaria, sostituiti da meno costosi appalti a ditte di meccanica generica, trova più facilmente lavoro non chi ha più competenze di meccanica specializzata, ma, paradossalmente, chi ne ha meno.
Chi, dall’alto, propaganda l’idea che se un giovane è disoccupato la colpa è della scuola che non gli ha insegnato ciò che serve per essere assunto, diffonde una falsità che non è soltanto stupida, è anche infame, perché trova nello sconforto e nella inconsapevolezza di massa un terreno di facile credulità, sottraendo ai giovani la visibilità di coloro che li privano di ogni futuro, vale a dire i responsabili di questo sistema socioeconomico in cui l’avidità degli interessi privati non ha più alcun limite di natura pubblica.
La soluzione del problema drammatico della mancanza di lavoro (e soprattutto dei diritti del lavoro riconosciuti dalla nostra Costituzione) è compito di un esteso intervento statale nell’economia, da ricostituire secondo il dettato costituzionale e in nome dell’integrità della nazione, e non rientra nella possibilità della scuola. È persino banale: se i ristoranti di una città hanno bisogno di dieci cuochi, e l’istituto professionale della medesima ne diploma quaranta, è matematico che trenta di loro, anche se di ottimo livello, rimarranno disoccupati. L’esempio mostra chiaramente che, se la scuola creasse più giovani molto competenti per svolgere determinati lavori, creerebbe semplicemente più disoccupati impossibilitati a usare la loro preparazione. Ma la scuola non deve insegnare le competenze utili per lavori e professioni non soltanto perché ciò non serve a risolvere il problema del lavoro, ma soprattutto perché così tradirebbe la sua funzione specifica, non sarebbe più scuola.
Nella società non mancano luoghi in cui imparare abilità, nozioni e tecniche con le quali ampliare e perfezionare le proprie capacità di azione nel presente. Quando la scuola si comporta nello stesso modo, offre in ritardo e con minore efficacia, data la sua maggiore inerzia strutturale, le stesse prestazioni offerte in maniera più allettante altrove, e si rivela inutile. Se invece ci poniamo in un’altra prospettiva, quella dello Stato-nazione, dello spazio della cittadinanza che ne costituisce l’appartenenza, e del sistema nazionale della pubblica istruzione come funzione statale di produzione culturale di tale cittadinanza, allora emerge l’unico senso possibile della scuola nella società moderna. Essa deve trasmettere contenuti distanziati dal presente, che il giovane non può apprendere in nessuno dei luoghi sociali che frequenta, che non hanno nessuna immediata valenza utilitaria, neanche per il lavoro, ma che aprono la mente a dimensioni categoriali e universali della realtà, consentendo di non rimanere mentalmente schiacciati sul presente, ma di sapervisi orientare in maniera critica e di saperlo intendere in profondità, così da collocarvisi come cittadini consapevoli e
responsabili. Non possiamo costruire alcun positivo progetto-scuola senza inscriverlo nel ristabilimento di questa prospettiva della modernità infranta dal mercatismo privatistico della postmodernità.
Quale progetto-scuola deve dunque essere proposto, sapendo che la politica attuale non lo prenderà neppure in considerazione, e intendendolo dunque come mezzo di mobilitazione delle coscienze per arrivare a liberarci di questa politica, e ad avere di nuovo uno Stato, un’economia pubblica e una scuola vera?
La scuola elementare dovrebbe essere destinataria delle maggiori risorse ed essere organizzata a tempo pieno sulla base di unità-classe permanenti e non frazionabili. A queste sole condizioni essa può svolgere il suo grande compito di avvicinare il più possibile livelli mentali infantili inizialmente diversissimi tra loro a causa delle marcate differenze sociali, culturali e psicologiche delle famiglie in cui i bambini vivono. Se questi squilibri non vengono colmati in larga misura ancora in età infantile
– cosa per cui è indispensabile una scuola elementare pubblica in cui i bambini passino la maggior parte del tempo diurno e siano seguiti con competenza didattica e relazionale – si ripercuotono quasi sempre inalterati su tutto il resto della vita, cristallizzando dannosi divari intellettuali e sociali.
La scuola media inferiore copre un’età della vita – la tarda fanciullezza e la preadolescenza, tra gli undici e i quattordici anni – che coincide, secondo le acquisizioni della psicologia dell’età evolutiva, con la fase dello sviluppo delle capacità di autocontrollo comportamentale e di astrazione mentale. Vi si gioca, dunque, la partita decisiva per formare allievi scolarizzati, in termini di disciplina, attenzione e potenziale intellettivo, in maniera adeguata alla prosecuzione degli studi. Là dove fallisce la scuola media inferiore, cioè, sono compromesse le capacità di apprendimento liceale e universitario. Un serio progetto-scuola deve perciò prevedere, per la scuola media inferiore, classi numericamente ridotte, e un tempo di scuola rigidamente strutturato, senza spazi vuoti, con presenze sostitutive immediate di insegnanti assenti, senza vistose flessibilità di orari e percorsi, come condizioni indispensabili per creare una adeguata disciplina scolastica, la cui odierna mancanza si ripercuote in modo disastroso sull’efficacia della successiva scuola media superiore. Gli insegnanti dovrebbero essere mobilitati per promuovere questo disciplinamento scolarizzante dei loro allievi, e liberati dagli oneri, pesanti e demenziali in questo grado di scuola, di riempire scartoffie di ogni genere. L’asse culturale – cioè il principio formativo unitario di convergenza delle discipline insegnate, che dovrebbe essere definito e operante in ogni scuola seria – dovrebbe essere nella media inferiore di tipo matematico, e una prima familiarizzazione con la geometria euclidea dovrebbe avervi largo peso. Come infatti Hegel ha spiegato nella sua Scienza della logica, la matematica è la disciplina più adatta a promuovere le facoltà astrattive della mente nella prima fase del loro sviluppo e come migliore base di partenza per ulteriori diramazioni del pensiero logico, mentre troppa concentrazione su di essa nelle fasi successive è di ostacolo a un’intelligenza della
vita reale e della sfera emotiva.
L’asse culturale della scuola media superiore dovrebbe quindi essere diverso, e anzi duplice. Non si può infatti ignorare che la realtà delle scuole medie superiori è oggi profondamente spaccata, con una frattura non superabile, anche nel caso impensabile di una rapida trasformazione sociale, in un orizzonte di medio termine. C’è un’area di scuole, prevalentemente di tipo tecnico e professionale e in zone di insediamento socialmente povere di reddito, servizi e luoghi di incontro, in cui mancano le condizioni disciplinari minime per l’efficacia dell’insegnamento, e in cui quindi il primo problema, finché non verranno allievi scolarizzati dalla scuola media inferiore, è quello di contrastare con ogni mezzo l’indisciplina o addirittura il bullismo.
In quest’area l’asse culturale dovrebbe essere di tipo linguistico, perché soltanto il possesso, finora mancante, di corretti strumenti comunicativi e di comprensione effettiva del senso dei messaggi circolanti nella società consentirebbe ai giovani di sottrarsi a una pericolosissima cecità mentale riguardo al mondo reale. Occorrerebbe quindi in queste scuole, contrariamente a quanto falsi luoghi comuni inducono a pensare, una netta riduzione del peso degli insegnamenti tecnici e professionalizzanti, che nelle condizioni attuali, anche di formazione dei docenti preposti, alimentano l’analfabetismo sociale e politico, e un altrettanto netto aumento del tempo dedicato all’insegnamento dell’italiano e alla lettura dei testi.
C’è poi un’altra area di scuole, prevalentemente insediate in zone socialmente più fortunate e costituite per lo più, ma non solo, da licei classici e scientifici, in cui gli allievi sono sufficientemente scolarizzati. In quest’area l’asse culturale dell’insegnamento dovrebbe essere di tipo storico, per almeno tre motivi. In primo luogo la formazione di una consapevolezza storica è oggi indispensabile per il semplice fatto che le menti sono state totalmente destoricizzate. Famiglie, partiti, sindacati, parrocchie, associazioni cittadine, non sono più come fino a trent’anni fa, luoghi in cui i giovani si sentano raccontare e investire di significati il passato e possano quindi, riallacciandovisi, acquisire una memoria storica, ma sono soltanto, per così dire, bolle senza densità galleggianti sulle onde del mercato integrale. Non esistono più, cioè, filiere di trasmissione da una generazione all’altra della memoria storica, e la società integralmente mercantile mette l’individuo in rapporto immediato, senza cioè alcun tramite riflessivo con il passato storico, con gli oggetti del suo consumo. Per molti giovani di oggi, infatti, è inimmaginabile un mondo senza cose, elencando a caso, come il telefono cellulare con tutti i suoi molteplici usi, il
«Grande Fratello», il razzismo leghista, il lavoro a termine, l’euro come moneta, senza cui tutti vivevano appena l’altro ieri. Esiste solo l’oggi come presente senza spessore, con la conseguenza che questo presente di sola superficie incombe sulle vite come necessità assoluta, inintelligibile e immodificabile anche quando distrugge. La scuola deve quindi trasmettere prima di tutto storia per la stesso motivo per cui si deve dare prima di tutto acqua a chi è disidratato.
Ogni genere di scuola deve dunque insegnare più storia di quanto oggi non faccia, ma là dove è gravemente carente il possesso del linguaggio, che è esso stesso la condensazione di una storia – senza il quale la storia non ha letteralmente parole con cui venire mentalizzata – l’asse culturale deve essere ovviamente linguistico. Nelle scuole autenticamente liceali, invece, l’asse culturale deve essere proprio storico, in modo da promuovere la creazione di avanguardie culturali in grado di diffondere in più ampie cerchie, attraverso le loro stesse comunicazioni usuali, la consapevolezza storica.
In secondo luogo, in un frangente di tragico trapasso epocale come quello che stiamo vivendo, in cui se non cambiamo il nostro modo di produrre, di consumare, di spostarci e di stare insieme saremo prima o poi sfigurati e devastati da montagne di rifiuti non smaltibili, da veleni depositati ovunque, da collassi finanziari, da guerre rovinose, da catastrofici mutamenti climatici, e da carenza di acqua potabile, abbiamo bisogno della consapevolezza storica, perché essa costituisce la condizione mentale indispensabile per progettare un cambiamento, appunto, del nostro modo di produrre, di consumare, di spostarci e di stare insieme.
Per poter pensare al cambiamento non di questa o quella cosa particolare, ma di un cosmo sociale, occorre infatti che esso non sia naturalizzato dalla nostra mente, ma sia relativizzato sulla scala del tempo. La storia è la grande tastiera di comparazione attraverso la quale un cosmo sociale viene relativizzato dal confronto con altri cosmi sociali di altri tempi e di altri luoghi.
Chi conosce la storia delle pòleis greche può comparare il dominio dell’economia sulla politica del nostro tempo con il dominio della politica sull’economia nel tempo greco, e quindi relativizzarlo e pensarlo di conseguenza modificabile.
Chi conosce le forme della convivenza collettiva dei secoli medioevali può comparare con i loro rapporti di scambio gerarchicamente obbligato di prestazioni i nostri rapporti totalmente mercantili, e capire che essi non sono gli unici possibili.
Chi conosce l’alternarsi, nel Medioevo, di periodi di presenza territoriale di un potere imperiale – prima carolingio, poi sassone, poi francone, poi svevo – e di periodi di frammentazione feudale del territorio, può comparare l’attuale ideologia privatistica e antistatalistica (nel senso di uno Stato negato come attivo tutore del bene comune, ma richiesto come apparato da mungere per nutrire l’affarismo privato) con una realtà di secoli in cui l’affermazione di istituti statali garantiva migliori livelli di vita, maggiore libertà di pensiero e più rispetto delle leggi, e l’affermazione di poteri locali privati in assenza di Stato generava peggiori condizioni di vita, più forti repressioni ecclesiastiche, più facili sopraffazioni dei potenti sui deboli. E gli esempi potrebbero continuare.
In terzo luogo la storicizzazione di tutte le discipline insegnate nella scuola, di cui consiste un suo asse culturale di tipo storico, è oggi l’unico modo di sottrarle all’inutilità o al dogmatismo. Non è possibile in questa sede affrontare una questione di tale rilevanza epistemologica. Si pensi però, intanto, all’insegnamento delle scienze sperimentali. Esse hanno rappresentato, al momento del loro sorgere, una forma di cultura e di pensiero critico che apriva le menti contro il dogmatismo della tradizione religiosa e aristotelica di quel tempo.
Nel nostro tempo, invece, il loro insegnamento, scolastico e non solo, trasmette un dogmatismo che chiude le menti. Consiste infatti nell’addestramento a operazioni matematiche e strumentali di cui è dato per valido, e mai messo in discussione, il paradigma teorico che ne costituisce la premessa a differenza di quanto avevano fatto, per esempio, Galilei e Keplero, che avevano difeso i loro paradigmi affrontando con discussioni teoriche i sostenitori di prospettive avverse. Oggi, al contrario, coloro che sono riconosciuti come scienziati difendono il loro paradigma in maniera puramente tautologica: tutto ciò che si muove al di fuori della scienza ufficiale viene respinto senza discussione come privo di valore conoscitivo perché non è conforme al metodo scientifico, essendo scientifico il metodo della scienza ufficiale.
Viene così naturalizzato un metodo di conoscenza, senza tener conto degli scopi a cui è funzionale e a quelli a cui non lo è, e degli assiomi che presuppone. Di qui il dogmatismo, che consiste sempre in una naturalizzazione di ciò che è storico. Di qui la necessità di storicizzare anche la scienza, e quindi di rendere il pensiero storico asse culturale di riferimento, per restituite al pensiero la sua criticità. Le scoperte scientifiche avvenute nella storia vengono oggi trasmesse, in una sequenza linearmente cumulativa di acquisizioni, isolate dal contesto in cui sono nate, come se fossero frutto dell’applicazione rigorosa del metodo scientifico attualmente riconosciuto come l’unico concepibile. La storicizzazione dell’insegnamento delle scienze restituirebbe invece la verità di ciò che sono e sono state le scienze stesse. Si saprebbe che, per esempio, Keplero ha scoperto le sue leggi sulla base degli assunti di una metafisica platonico-pitagorica, Boyle le sue sulla base di una concezione finalistica della natura, e Newton ha elaborato la sua teoria intrecciando calcoli matematici con nozioni tratte dai saperi magici, e via dicendo.
Abbiamo bisogno, insomma, in questo frangente storico, di una scuola che educhi il pensiero ad affrontarlo attraverso la comprensione di ciò che è stata la storia che lo ha prodotto. Nessuno, oggi, ci darà questa scuola.
Ma essa va proposta nel quadro di una battaglia culturale contro il vuoto «pensiero zero» (per dirla con il grande sociologo francese Todd) funzionale a una logica distruttiva di sviluppo sociale.
Roberto Renzetti
DISASTRO SCUOLA: DENTRO IL DISASTRO LIBERISTA EUROPEO
[Roberto Renzetti, dottore e professore di Fisica, dal 1970 ha insegnato e lavorato in Università e Licei in Italia ed all’estero. Si è occupato di questioni energetiche, di fisica, di storia della fisica, di filosofia, di problemi scienza e fede, di problemi della scuola, di didattica e di politica. Ha scritto diversi libri sugli argomenti suddetti, sia tecnici che divulgativi. Ha inoltre pubblicato su varie riviste scientifiche e divulgative italiane e straniere. È curatore del sito www.fisicamente.net].
La crisi economica che ha colpito l’Italia, crisi che parte dagli USA, che gli USA, al solito, trasferiscono ad altri e che in Italia ha avuto un forte impulso dai craxisti degli anni Ottanta e dai medesimi, ora diventati craxifascisti, degli ultimi anni, ci vede sotto esame da parte della UE. Il governo europeo di destra (non lo si dimentichi, quel governo snobbato dall’Italia che ha in Europa come massimo rappresentante un tal Tajani, noto per le sue visite all’ex Re d’Italia Umberto II in esilio in Portogallo), quel governo europeo, dicevo, ci ha rivolto 39 domande su come intendiamo far fronte alla crisi. Alcune di queste domande riguardano la scuola. Di seguito riporto la premessa generale alla lettera della UE e quindi le domande relative alla scuola:
Richiesta di chiarimenti relativi alla lettera indirizzata dall’allora primo ministro Silvio Berlusconi al presidente del Consiglio europeo e al presidente della Commissione europea.
Domanda generale:
- Per favore fornite una versione postillata della lettera che indichi, per ciascun provvedimento/misura se:
- È già stato varato, e in caso di risposta affermativa indicare i progressi ottenuti tramite la sua attuazione;
- È già stato adottato dal governo, ma non ancora da Parlamento; in caso di risposta affermativa chiarire i tempi necessari all’approvazione da parte del Parlamento e alla sua entrata in vigore; in caso contrario,
- È un nuovo provvedimento: in questo caso fornire un piano d’azione concreto per l’adozione e la sua applicazione, comprensivo di scadenze e di tipologia dello strumento legislativo che il governo intende utilizzare
- Si prega di indicare anche, ove appropriato, l’impatto stimato sul bilancio di ciascun provvedimento/misura e i mezzi con i quali lo si finanzierà.
Capitale umano
- Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test INVALSI?
- Come intende il governo valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivo il governo intende varare?
- Il governo potrebbe fornirci ulteriori dettagli su come intende migliorare ed espandere l’autonomia e la competitività tra le università? In pratica, che cosa implica la frase “maggior spazio di manovra nello stabilire le tasse di iscrizione”?
- Per quanto riguarda la riforma dell’università, quali misure e quali provvedimenti devono essere ancora adottati?
Cosa rispondere? Vi sono due possibili approcci: quello di un governo liberista ma non cialtrone con spruzzate catto-democristiane e quello di chi considera la scuola come motore dell’evoluzione politico-sociale e quindi economica del Paese. Mi attengo a questo secondo approccio ritenendo il primo antagonista al mio modo di pensare.
CONSIDERAZIONI GENERALI
La soluzione alla crisi che la destra ipotizza è una soluzione liberista che prevede l’affossamento dei diritti e dello stato sociale conquistato in anni di dure lotte e, mentre in ambito economico, spinge per abolire l’articolo 18, nella apparentemente meno importante scuola spinge per una formazione scolastica che prepari cittadini acritici, ubbidienti e flessibili senza ritorno alla produzione ed al consumo. Sono anni che le cose vanno avanti così e la destra italiana ha solo le colpe che il suo livello di preparazione le permette mentre la pretesa sinistra è dietro ogni disastro sociale con cui abbiamo a che fare.
Serve, tra il molto altro, ricordare Tiziano Treu ed il lavoro flessibile? E D’Alema con la svendita del patrimonio pubblico a zero lire? E Bassanini con il taglio delle cattedre per la riduzione degli insegnamenti, l’accorpamento di classi che non raggiungano un determinato numero di alunni, la chiusura di scuole che non abbiano un dato numero di alunni, il licenziamento (meglio: la non riassunzione) della pletora di precari che da almeno 20 anni permettono che la scuola vada avanti, il licenziamento dei fondamentali “bidelli”, la riduzione a meno dell’osso del personale ATA, … con il Ministero che perde la qualifica di Pubblica Istruzione, con la dirigenza? E Luigi Berlinguer, con il concorsone, i pedagogisti della domenica e la scuola dell’autonomia? E Panini con il suo contratto scuola del 1998?
La scuola pre Berlinguer era molto ben strutturata e, negli anni che ci separavano dal 1923 (inizio Riforma Gentile con i contributi dei massimi pedagogisti non fascisti dell’epoca: Croce, Salvemini, Mondolfo, Lombardo Radice, Codignola…), erano stati fatti qua e là cambiamenti di enorme importanza: la Scuola Media Unica del 1962-63 e la Riforma della Scuola Elementare (con l’introduzione dei moduli) del 1990-91.
Con governi ballerini e mancanza di continuità legislativa non si era proseguito sulla strada dei raccordi tra riforme fatte e da fare. In particolare erano rimasti dei buchi neri nella stessa Scuola Media che non si capiva bene cosa fosse tra una scuola elementare pregevole ed una degna scuola di secondo grado (le superiori).
Vi erano altri buchi neri sia negli istituti tecnici, che riguardavano la mancanza di flessibilità ed aggiornamento dei loro programmi per stare al passo quotidiano con le innovazioni tecniche e scientifiche che entravano nel mondo produttivo, sia e soprattutto nei professionali che erano diventati uno strumento di finanziamento indiretto per le scuole di tale natura a gestione confessionale (la maggioranza), poi sindacale, quindi regionale e che, salvo rarissime eccezioni, erano vere fabbriche di ignoranza. Questa scuola si doveva e poteva riformare nella linea della strutturazione forte che, a quei livelli scolari, non può mancare pena l’inarrestabile decadenza. Ed io intendo per ristrutturazione forte quanto si tende a dimenticare e che fu detto con estrema chiarezza da Gramsci:
“Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola “disinteressata” (non immediatamente interessata) e “formativa” o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di signori e di donne che non devono pensare a prepararsi un avvenire professionale e di diffondere sempre più le scuole professionali specializzate in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminati”.
Ed aggiungeva:
“Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare- nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. … Occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato”
[Volume III dei Quaderni dal Carcere]
Ben altro rispetto alle sciocchezze di Maragliano che pensa ad una scuola che non sa di scuola, fosse anche con l’ausilio didattico di videogiochi.
Cosa hanno fatto Berlinguer ed il suo staff di pedagogisti e psicologi? L’operazione in uso in regimi liberisti: iniziare la fase della liberalizzazione della scuola preparandola per la privatizzazione. E questa non è una boutade perché Berlinguer ha seguito
pedissequamente ciò che voleva l’OCSE le cui nefandezze vedremo più oltre.
Sul fronte della scuola i nostri sinistri politici avevano letto da qualche parte che la scuola sarebbe una potenziale fonte di infiniti guadagni (la seconda fonte dopo la sanità) se solo si fosse riusciti a renderla privata. Chissenefrega di quell’idiozia di scuola pubblica come istruzione garantita almeno (almeno!) fino ai 16 anni! Costi, solo costi dai quali i potenti non guadagnano nulla (gli idioti sono sempre ricchi). La scuola così come è costa troppo ed è una spesa superflua per i fini che si vogliono conseguire. Occorre pensare una scuola che costi molto meno e che prepari dei cittadini a livello di buoni consumatori in questa società tecnologica.
Occorre che i cittadini conoscano, ad esempio: digitale, satellitare, DVD, Laser, Hi Tech, PC, Internet, Provider, CD, masterizzatore, Ipod, …; non è invece in alcun modo necessario che conoscano i meccanismi scientifico-tecnologici che sono dietro questi nomi.
Per intenderci: occorre che si abbia la preparazione tecnologica sufficiente per essere consumatori ma non tale da essere creatori di scienza e tecnologia. Questo almeno a livello di impegno di scuola pubblica, di quella che è pagata dalla fiscalità generale.
Vi è naturalmente necessità di cittadini preparati a livelli superiori, ma è del tutto inutile e soprattutto è un vero spreco di risorse pensare di formare tutti in modo che possano pensare all’accesso a queste superiori specializzazioni. Chi serve per tali fini verrà preparato in scuole speciali. La selezione per accedere a queste scuole la faranno: le stesse scuole private e le imprese. Non ha senso continuare a dissipare denaro nell’istruzione pubblica.
Il mercato è buono e gli interventi dello Stato sono cattivi: deregulation anziché controllo statale, liberalizzazione di commercio e capitali, privatizzazione di ogni cosa abbia il sapore del pubblico (come sosteneva l’economista protoliberista americano Friedman, grande ispiratore del Cile di Pinochet).
E come si privatizza la scuola? Così come era, l’impresa sembrava impossibile. Nessun privato si accolla tanti insegnanti utili per un’istruzione di qualità ma non per i profitti. E chi si accolla i ragazzi con handicap che richiedono insegnanti di sostegno (le scuole confessionali, ad esempio, già respingono l’handicap)? Chi edifici, laboratori, trasporto, preparazione docenti (quest’ultima cosa è oggi altra fonte di guadagno per potentati collaterali al potere politico)? Nessuno fa questo, di modo che l’affare sfuma ed i tanti soldini che si tirano fuori dalla scuola, ad esempio negli USA, da noi niente!
Ma anche se ci fosse stato qualcuno che avesse voluto acquistare in blocco tale sommo bene non avrebbe rischiato di fare lui l’operazione finalizzata al profitto perché sarebbe stato chiaro che si veniva meno in servizi e qualità con proteste popolari importanti. Berlinguer e i pedagogisti buoni per ogni stagione hanno risolto il problema con le seguenti operazioni. Primo: destrutturare, cioè togliere ogni
rigidità al sistema e renderlo liquido (un poco come D’Alema pensava il suo partito che tutti sappiamo la fine indegna che ha fatto). In tale situazione, poiché si aveva a che fare con giovani fanciulli e non con idrocarburi o caselli autostradali insensibili a scelte politiche, gli utenti giovani della scuola hanno iniziato a credere che si potesse giocare a scuola così come teorizzavano i pedagogisti di regime (Vertecchi, Maragliano, Tagliagambe, Bertagna, Ribolzi, Ceruti & C) che volevano una scuola che non sapesse di scuola, che inventavano l’autonomia scolastica (ogni scuola fa per sé ed è in concorrenza con l’altra), che caparbiamente insistevano su di essa, che introducevano i percorsi educativi per gli studenti (ognuno si fa il suo curriculum e studia ciò che vuole) e che se ne fregavano dell’impegno e dell’indispensabile fatica.
E gioca oggi e gioca domani, con i genitori di tali sfortunati fanciulli (formatisi negli anni del rampantismo craxiano) che hanno creduto di partecipare al gioco facendo i sindacalisti dei figli, la scuola si è completamente dequalificata tanto da dare risultati completamente insoddisfacenti (e non mi riferisco solo alle indagini internazionali ma a quello, ad esempio, che lamentavano sempre con maggior forza gli insegnanti del primo anno di università, quella indegna del 3 + 2: i ragazzi non sanno leggere, scrivere e far di conto; e neppure capire concetti elementari).
Cosa aspettarsi del resto di diverso se è iniziata una caduta verticale della credibilità della scuola fino a situazioni che paiono ormai irrecuperabili? Si è permesso da legislatori incompetenti che la magistratura decidesse chi deve essere promosso o meno, si è permesso che i genitori sindacassero tutto, si sono resi responsabili gli insegnanti, si sono assunti sempre più insegnanti senza verifiche adeguate, si sono fatte sanatorie con apporti sindacali vergognosi (abilitazioni e passaggi di cattedra del 2001, ad esempio) ed in definitiva si è lasciata marcire la scuola.
Poi è arrivata Moratti, altra ignorante degli argomenti in discussione, che ha spinto con maggiore decisione verso la dequalificazione (tagli di risorse continui e pedagogista cattolico Bertagna che tagliava pezzi culturali fondamentali come l’evoluzionismo) e che partiva dal volere una scuola libera (insieme a vari intellettuali come Adornato ed Antiseri, … che fine hanno fatto, oggi? ed anche Dino Boffo, Innocenzo Cipolletta, Emma Marcegaglia, Antonio Martino, Angelo Panebianco, Sergio Romano, Cesare Romiti, Marco Tronchetti Provera, Giorgio Vittadini, …) per arrivare alle scuole confessionali, sempre e comunque da foraggiare alla faccia di chi paga le tasse, che notoriamente non vanno alle scuole di lusso dei preti (Nazzareno, Massimo, San Giuseppe di Merode, San Leone Magno…).
Quindi tal Fioroni che è emerso alle cronache solo per i finanziamenti tolti alle scuole pubbliche e dati (con lettera di accompagnamento ammiccante) alle scuole dei preti (ancora ed ancora!). Un vero disastro la scuola dopo anni come questi. L’istituzione non riesce a preparare gli studenti ed in più costa un mare di soldi per tutto il personale che impiega. È qui che arriva Gelmini che più ignorante non si può (ma ha dietro le spalle una tal Aprea che ignorante non è pur rappresentando i mal protesi nervi e la clientela meridionale al servizio dei padroni del dané del Nord).
Gelmini non ha riformato la scuola, ha semplicemente tirato una linea in fondo al bilancio fallimentare degli ultimi anni ed ha detto, con l’avvocato Tremonti aleggiante come un vampiro, che la scuola va ridotta drasticamente al nulla. Ed è ovvio che il degrado può resistere fino ad un certo punto, dal quale poi le famiglie iniziano a pensare alla scuola seria che Berlinguer ha cancellato (con il sostegno di tanti ignavi furbacchioni e profittatori di corsi d’aggiornamento come CGIL Scuola, CIDI, Legambiente Scuola, Proteo, …).
Nel frattempo, tagliando e riformando a modo loro, mai si sono occupati di salari, diventati un contributo per non morire di fame (a parte quelli degli insegnanti di religione che, dopo il miracolo dell’immissione in ruolo senza concorso, godono di aumenti incredibili, mai sognati da altri insegnanti), così sempre più la scuola è diventata appetibile ai cercatori del secondo lavoro. Al suo interno ormai andiamo ad una popolazione docente che all’85% è femminile e ciò vuol dire che gran parte degli insegnanti è (al di là della preparazione che può ed anzi è certamente eccellente) soprattutto fatto di madri e mogli di professionisti che non hanno la scuola medesima come primo lavoro perché la famiglia è la famiglia, altrimenti Ruini e Bagnasco di Santa Romana Chiesa che ci stanno a fare ?
Gli ultimi sciagurati interventi sulla scuola sono di Gelmini-Tremonti. Gelmini non sa nulla di scuola ed è inutile pensare al recupero di encefalogrammi piatti. Faceva pena vederla pontificare in una situazione che la vedrà presto indicata nella storia d’Italia come quella che ha fatto il maggior danno al Paese compatibilmente con le sue capacità (cioè: meno male che ne ha poche).
La scuola non si riforma per decreti legge decisi in fretta dentro il Ministro dell’Economia che era retto da un avvocato che neppure era in grado di capire un economista che gli parla di derivata seconda e che quindi non è in grado di leggere curve e concavità di esse (crescite e decrescite, per intenderci). E costui doveva interpretare il comune sentire degli italiani ammazzando il primo bene di un Paese? Costui doveva dare l’indirizzo al declino completo del Paese portandolo ad essere un Paese non industriale ma di servizi da offrire a padroni localizzati altrove ed alla cui corte va rubizzo l’avvocato con il cappello craxista in mano.
Qualche dettaglio lo posso dare in attesa di avere uno scritto in cui le bestialità di tali intelligenze siano raccontate nel consueto disordine, approssimazione, incomprensibilità, incongruenze ed idiozie varie.
La scuola non serve molto se non punta ad una preparazione ampia e non direttamente e strettamente finalizzata ad un qualche uso. Spiego meglio. Vi sono alcuni bipedi che credono sia possibile insegnare l’uso di una macchina e con questo di aver risolto il problema. Il giovane sa tutto su quella macchina ed è insostituibile… fino a che quella macchina non è sostituita, dopodiché la rigida preparazione di quell’ex ragazzo non serve più ed è conveniente assumerne un altro lasciando il primo come un vecchio arnese, a quel punto non più riciclabile (eccheglienefrega del capitale umano al padrone liberista? Si tratta di massa eccedente!).
Gli avvocati, sia tributaristi che divenuti tali a Reggio Calabria, non sanno che questa operazione di preparazione specialistica su tecniche precise è fallimentare soprattutto per lo studente che deve diventare un lavoratore. Una preparazione meno specialistica e più umanistica rende molto più flessibili ed in grado di riciclarsi continuamente.
Una scuola insomma (ed ormai non so se ridere o piangere di fronte ad una reiterazione che da parte mia ha almeno 45 anni) che più che insegnare nozioni insegni come imparare, come essere educatori di se stessi per tutta la vita. Non è un caso che più la preparazione scolare è spinta in un settore tecnico e meno successi di studio superiore si hanno (i dirigenti ministeriali dovrebbero studiare le esperienze avute nel mondo, come quelle disastrose delle scuole che dovevano preparare alla fabbrica di occhiali nella ricca Baviera in Germania).
Le sperimentazioni, buttate con fare negligente ed ottuso da Gelmini e non solo, avrebbero dovuto servire a questo ed io che ho lavorato per molto tempo alla teoria ed alla pratica di sperimentazioni so che non vi è mai chi legge i risultati per trarne conseguenze. E chi doveva farlo? Un preteso ministro che non sapeva di cosa parlava, se parlava? O chi entra in istituti come Invalsi o BDP/INDIRE? Se il merito non c’è in tali assunzioni, e non c’è, si ingenera una catena di cattiva trasmissione dei processi che porta al disastro e noi siamo al disastro. Possibile che, ad esempio, non si sappia che per apprendere la matematica, per diventarne non solo uno che conosce a memoria i teoremi ma uno che la pratica con divertimento e successo, serve prima di tutto conoscere la lingua italiana ed essere stato educato a ragionare attraverso le più disparate discipline non matematiche? Se non si capiscono concetti elementari, connessioni logiche semplici, è impossibile imparare la matematica. E Gelmini, con cavalcata di barbari a lato, ha lavorato per insegnare più matematica tagliando proprio ciò che permette il suo apprendimento. Non hanno capito un tubo e, lor signori medesimi, sono l’esempio dei disastri che provocano culture abborracciate e finalizzate al successo e non alla formazione. Intanto cedono i nostri studenti tecnici e professionali direttamente a Confindustria perché li utilizzi gratis al fine, dicono gli ipocriti, di formarli.
E VENIAMO ALLA PRIMA DOMANDA DELLA UE
- Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test INVALSI?
Questa prima domanda, come le altre, parte dal dare per scontata l’oggettività e la giustezza dell’approccio liberista alla scuola e quindi delle valutazioni INVALSI. Per carità, niente di più errato, indipendentemente dal grado di preparazione degli studenti. Per raccontare cosa è l’INVALSI serve premettere qualcosa sul suo papà, l’OCSE.
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) è stata istituita con la Convenzione di Parigi firmata il 14 dicembre 1960 ed entrata in vigore
il 30 settembre 1961.
Attualmente aderiscono all’OCSE una trentina di Paesi industrializzati, che rappresentano i due terzi dell’intera produzione mondiale di beni e servizi ed i tre quinti delle esportazioni complessive. La possibilità di diventare membri dell’OCSE è condizionata all’impegno da parte dello Stato richiedente di avere un’economia di mercato ed una democrazia di tipo pluralistico, come quella di Berlusconi, per intenderci.
In base al proprio statuto, l’OCSE si occupa delle più rilevanti questioni in campo economico e sociale. Uno spettro di questioni molto ampio.
L’OCSE è anche l’agenzia che promuove, come visto, le indagini comparative sulla scuola dei vari Paesi membri. L’interesse per la scuola di un’agenzia per lo sviluppo economico è tutto un programma finalizzato ad armonizzare i sistemi d’istruzione con un mondo globalizzato. È d’interesse rendersi conto di cosa raccomandava l’OCSE nel 1967, e come vi sia stata una non casuale identità di vedute con Bassanini, Berlinguer e liberisti comunisti, con la CGIL Scuola come mosca cocchiera.
È inutile soffermarsi sul fatto che l’OCSE è interessata al massimo profitto mediante persone che siano educate ad essere brave nel produrre e/o brave nel consumare. Con queste finalità interessa la scuola, almeno una scuola di un certo tipo, ma è indifferente, almeno in prima battuta, che la scuola sia pubblica o privata.
Possiamo ora discutere dell’INVALSI, Istituto Nazionale per la VALutazione del Sistema d’Istruzione. Esso nasce per produrre in Italia le famigerate prove PISA- OCSE. Vediamo con ordine:
PISA (Programme for International Student Assessment) è l’acronimo che definisce un programma di valutazione degli apprendimenti degli studenti quindicenni lanciato dall’OCSE nel 1997.
In quanto ‘programma’, PISA è qualcosa di più e di diverso rispetto alle tante indagini internazionali attraverso le quali i Paesi hanno finora misurato e confrontato gli esiti dei loro sistemi educativi in determinati ambiti disciplinari e in diversi momenti del percorso formativo. PISA, infatti, è lo strumento di cui i Paesi OCSE si sono dotati per acquisire, a scadenze regolari, dati affidabili su cui calcolare gli indicatori di risultato degli studenti.
La produzione degli indicatori internazionali dell’istruzione è stata avviata dall’OCSE alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, attraverso il progetto INES (Indicators of Education Systems), quando l’esigenza di fronteggiare i gravi problemi della recessione economica e della disoccupazione spinse i Paesi più sviluppati a guardare con interesse diverso alle questioni dell’istruzione e della formazione e a considerarle come leve essenziali dello sviluppo economico.
In questa prospettiva furono avviate significative azioni di riforma dei sistemi formativi e, in molti Paesi, furono impiantate strutture di valutazione dell’efficacia ed efficienza dei sistemi stessi. Parallelamente si rafforzarono la cooperazione e la
comparazione internazionale nei Paesi dell’area OCSE, anche attraverso la costruzione di un sistema di indicatori internazionali dell’istruzione. Da circa 15 anni, quindi, gli indicatori dell’istruzione forniscono informazioni sull’organizzazione e sul funzionamento dei sistemi educativi così come informazioni sulla realtà socioeconomica dei Paesi membri sono fornite dagli indicatori economici che l’OCSE pubblica da diversi decenni e che sono ben più noti al vasto pubblico.
Gli indicatori dell’istruzione sono pubblicati, in media ogni due anni, nel volume intitolato Education at a Glance (Regards sur l’éducation nella versione francese), nel quale gli indicatori sono presentati non isolatamente, ma raggruppati in modo da rappresentare le caratteristiche strutturali, il funzionamento e i risultati dei sistemi formativi.
Così nell’edizione del 2001 di Education at a Glance (EAG 2001) i 31 indicatori sono raggruppati nei seguenti sei ambiti:
- contesto dell’istruzione (3);
- risorse umane e finanziarie investite in istruzione (6);
- accesso e partecipazione all’istruzione (6);
- ambiente educativo e organizzazione degli istituti scolastici (7);
- risultati dell’istruzione in termini di risultati individuali, sociali e come sbocchi sul mercato del lavoro (5);
- risultati dell’istruzione in termini di ‘apprendimento’ degli studenti (4).
Dei 4 indicatori presenti nell’ambito dei risultati di apprendimento degli studenti, tre sono stati calcolati su dati forniti dalle indagini TIMSS (Third International Mathematics and Science Study, la terza indagine internazionale su matematica e scienze) e TIMSS R (Third International Mathematics and Science Study Repeat, la seconda fase della stessa indagine), rispettivamente nel 1995 e nel 1999. Queste indagini sono state condotte dalla IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement), un’organizzazione privata cui aderiscono istituti di ricerca educativa di diversi Stati che dal 1959 conduce studi internazionali sui risultati degli studenti in matematica, scienze, composizione scritta, lettura, educazione civica.
Il quarto indicatore è stato elaborato su dati forniti dall’indagine IALS (International Adult Literacy Survey), condotta negli anni 1994-98 da Statistics Canada. La popolazione di riferimento è nel caso di TIMSS quella dei tredicenni, mentre nel caso di IALS è quella adulta oltre i 25 anni.
In alcuni ambiti sono compresi indicatori ‘solidi’, quelli, cioè, calcolati su dati che per lunga tradizione sono raccolti in tutti i Paesi (spese per l’istruzione, tassi di scolarizzazione, numero degli insegnanti, dei diplomati e dei laureati); nell’ambito relativo ai risultati di apprendimento degli studenti, invece, non è stato possibile costruire fino al 2001 indicatori pienamente affidabili per mancanza di una solida base di dati.
Si è cercato di sopperire alla lacuna utilizzando, di volta in volta, i dati acquisiti in
precedenti indagini internazionali condotte prevalentemente dalla IEA, indagini che hanno riguardato, nel corso degli anni, gli ambiti più diversi (dalla Reading Literacy alla Computer Education) e le popolazioni scolastiche più diverse (dalla scuola della prima infanzia alla secondaria superiore). La produzione regolare degli indicatori, invece, richiede un altrettanto regolare produzione di dati, proprio quella che il programma PISA intende assicurare.
Ebbene i cosiddetti ricercatori dell’INVALSI sono intercambiabili con IEA-PIRLS e OCSE-PISA. Si tratta di persone con studi in statistica (il responsabile del gruppo di ricerca) che hanno lavorato per analizzare i risultati dei test OCSE-PISA o di insegnanti comandati che si occupavano di cose come il disagio educativo (ed io so, per mia conoscenza dei comandi al Centro Europeo Educazione, poi Centro Europeo Dell’Educazione, presso Villa Falconieri prima che ivi si insediasse l’INVALSI o all’Ufficio IV del Ministero degli Esteri, come si ottengono tale comandi, in modo spesso indipendente dalle singole abilità). In ogni caso, in linea generale si tratta di pedagogisti e docimologi, il peggio dei fornitori di ogni giustificazione al sistema di potere regnante. Se si aggiunge a questo il clamoroso errore nelle griglie di valutazione del giugno 2011, ci si deve chiedere con molta ragione chi valuta chi?
Costoro sanno, perché se non lo sapessero sarebbero da scalciare e cacciare con disonore, che non esiste una valutazione interna al sistema d’istruzione indipendente dai fini (obiettivi) che ci si è prefissi. Altra cosa è la valutazione che farebbe un datore di lavoro che volesse assumere. Altra dallo Stato che deve garantire una corretta e sana preparazione e non si deve occupare delle esigenze di chi vuole assumere (se non in seconda battuta). Dico meglio. Nonostante la quantità spropositata di pedagogisti, sociologi e docimologi al servizio dei vari governi (non importa quali), nessuno ha mai osservato che una valutazione risponde ad una data finalità che ci si è data per raggiungere determinati obiettivi.
NON HA ALCUN SENSO INTERVENIRE DALL’ESTERNO su processi didattici in corso con dei test preparati altrove che ingannevolmente vorrebbero misurare le conoscenze in determinati ambiti. In realtà questi test servono per modificare il piano di intervento dell’educazione formale che, non a caso, è decaduta da quando sono iniziati gli interventi OCSE ed UE a partire da Berlinguer, attraverso i test PISA. Sono anni che sentiamo i vari ministri dell’istruzione, che ignorano l’ABC della didattica in senso lato, affermare che occorre modificare l’insegnamento in modo da rendere i nostri studenti in grado di rispondere a quei test.
Si vogliono pian piano creare degli ubbidienti a stimoli predefiniti, con risposte uguali negli oltre 30 Paesi industrializzati aderenti all’OCSE. Gli addetti ai lavori sanno di cosa parlo. Per i non addetti valga un esempio semplice. Per risolvere un problema di matematica dello scientifico sono necessarie alcune abilità, per risolvere un test OCSE di matematica ne servono altre.
Tutti sanno che lo studente dello scientifico ha bisogno di un paio di mesi per imparare a risolvere un test OCSE mentre uno che risolve agevolmente i test OCSE
ha bisogno di qualche anno per imparare a risolvere i problemi dello scientifico. Allora che facciamo? Bocciamo i nostri studenti dello scientifico? Evidentemente non si vuole più uno studio approfondito e critico ma solo l’impadronirsi di alcune tecniche molto meno dispendiose per la società che bada solo al dané. Ma nessuno lo dice e ci fanno sembrare ineluttabile ciò che accade demoralizzando studenti ed insegnanti.
Provo ad argomentare ancora di più poiché conosco i trascorsi dell’INVALSI, fin dal 1970 quando Gozzer mise su Villa Falconieri a Frascati. L’inizio era buono, poi quel luogo divenne rifugio di quegli insegnanti che per scappare dalla fatica della scuola si fecero comandare. Non avendo mai o poco insegnato e comunque girando intorno ad improbabili discipline, costoro spiegavano a chi lavorava senza raccomandazioni nella scuola, come si faceva scuola. Hanno dedicato una vita ai test e, poveretti, non ci hanno mai capito un tubo. Ora fanno gli idraulici e si lanciano verso questa scelta non perché le cose siano cambiate rispetto alla bestialità della prova ma perché il padrone OCSE ordina e lor signori, sempre ubbidienti, eseguono.
Poiché il test dovrebbe avere una valenza epistemologica superiore al rapporto o scritto o orale che nella massima parte si è sempre tenuto nelle nostre scuole, chiedete ai docimologi qual è tale valenza epistemologica superiore, quali prove sono state fatte con quali risultati, quante classi, quante di controllo, a che livello, con test preparati da chi e su quali discipline. Insomma: dove si fanno i test? Come funzionano? Le scuole dove si fanno test forniscono risultati migliori nella preparazione degli studenti? Se sì, dove, come e quando? I docimologi di oggi, che si suppone abbiano letto Gattullo, hanno l’obbligo di dire tutte queste cose ed aggiungere: chi prepara i test? Chi li testa? Dove si testano? Sono state previste classi di controllo? Oppure andiamo, come sempre, random?
Ma assumiamo un tono didascalico prendendo il discorso da lontano. Un insegnante preparato, come la gran parte degli insegnanti che lavorano in Italia (il riferimento è a mia conoscenza almeno fino a 10 anni fa), sa che non esiste un programma a priori da somministrare ad una data classe di una data scuola di una data città. Quella classe, quella scuola, quella città, … qualificano i fruitori del servizio scuola e l’insegnante non può partire come se nulla fosse.
Anche i patiti dei test, coloro che hanno letto letteratura anglosassone inutilmente perché non hanno appreso nulla, devono sapere che esistono le prove di ingresso, DOPO le quali, è possibile capire cosa fare e come farlo. Esemplifico per tutti. Se si è in una città con nefaste influenze di camorra occorre recuperare i ragazzi riportandoli anzitutto alla conoscenza ed al rispetto della legalità. Questo tempo è perso rispetto allo studio delle poesie ma è fondamentale per il Paese. Alla fine del ciclo di studi i ragazzi riconquistati vanno premiati su valutazioni che non siano fiscali sulle poesie. Che facciamo, questa scuola la vendiamo ai privati, cioè alla camorra che potrà educare a suo modo i pargoli? Se in alcune zone del Paese la scuola deve occuparsi di inserire stranieri, extracomunitari o no, farà inizialmente più fatica e non dovrà essere penalizzata per questo rispetto al Collegio delle Fanciulle frequentato (inutilmente)
dalla Moratti.
Ogni persona pensante capirebbe questo ragionamento.
Ma oltre ai casi citati vi sono motivazioni molto più interne all’insegnamento. Ogni classe è differente e ve ne sono alcune che ti tirano e ti portano rapidamente molto avanti nei programmi, negli approfondimenti, nelle discussioni extra programmi (per tranquillizzare Garagnani, l’esimio fustigatore di insegnanti della CGIL, che merita l’encomio del pernacchio di Eduardo; esemplifico sulle domande del tipo: che ne pensa del film ultimo uscito? e di quel libro?…). Insomma il programma di un insegnante si costruisce lungo la strada e, attenzione!, la prova di valutazione deve avvenire su ciò che si è fatto in sintonia con quegli obiettivi prefissati e che, alla fine del percorso educativo, possono trovare una qualche modifica.
Che senso ha, a questo punto, che arrivi una prova INVALSI? Che ricercatori sono quei personaggi che lì lavorano (?)?
Purtroppo so rispondermi anche per averlo appreso da quella virago di nome Moratti che fece il Ministro dell’Istruzione. Ma prima occorre dire che queste prove furono richieste proprio dall’OCSE nel 1997 in un documento indirizzato all’Italia. Leggiamo:
Abbiamo dedicato un po’ di tempo all’esame delle implicazioni che i principi dell’autonomia e del decentramento e il processo di valutazione potrebbero avere per le scuole, e ciò al fine di rendere comprensibile gli effetti delle riforme.
Il punto critico è, a nostro avviso, il miglioramento delle scuole e siamo persuasi che i principi dell’autonomia possano essere utili a questo scopo. In effetti, alle istituzioni scolastiche è stata conferita l’autonomia affinché esse possano migliorare, e non perché possano “fare le proprie cose” in maniera disinvolta. Abbiamo anche visto che il decentramento della presa delle decisioni, poniamo, in campo finanziario o della responsabilità gestionale potrebbe anche, se non fosse strettamente legato al miglioramento pedagogico, non avere successo e non recare alcun beneficio alle scuole.
L’autonomia è stata conferita alle istituzioni scolastiche italiane nel quadro di una legge sul decentramento. Essa resta tuttavia un concetto distinto e deve essere concepita come un mezzo per migliorare l’insegnamento, implicando quindi la necessità di rendere conto, di sottoporsi alla valutazione e di beneficiare di un sostegno [si noti come Berlinguer sia stato alunno diligente dell’OCSE, ndr].
[…]
Sosteniamo l’opportunità di creare un sistema nazionale di valutazione indipendente con il compito di esaminare l’efficacia delle riforme una volta che queste siano attuate. Riteniamo, inoltre, che sia molto valida l’idea di istituire un centro indipendente di ricerca che intraprenda un programma a lungo termine di indagini in campo educativo, come ad esempio il monitoraggio di una particolare classe di età nel passaggio dalla scuola al lavoro, o progetti di ricerca per conto di alti enti
interessati ai problemi della scuola, come le associazioni imprenditoriali.
Noi raccomandiamo che sia istituito un sistema di valutazione indipendente, che incentri la sua attività sulla definizione di parametri di valutazione, per mettere le scuole nella condizione di autovalutarsi con riferimento a tali parametri, sviluppi test, svolga verifiche ai vari livelli scolastici e fornisca consulenza su come devono essere allocate le risorse perché si ottengano risultati più equi e migliori.
Raccomandiamo altresì che il Governo consideri l’opportunità di istituire un ente indipendente incaricato di svolgere ricerche indipendenti in materia di istruzione utilizzando sia fondi pubblici che fondi provenienti da altre fonti, se c’è interesse ad avere un parere indipendente sul funzionamento del sistema formativo.
[…]
Raccomandiamo la creazione di un sistema di testing per valutare gli alunni in determinati momenti del corso di studi o in determinate classi, specialmente al termine della scuola dell’obbligo. Spetta al governo decidere quale tipo di estensione debba avere la valutazione: se a campione o per l’intera coorte, in modo che ogni allievo e la sua famiglia possano conoscere il livello medio di rendimento della scuola frequentata.
Raccomandiamo, inoltre, che i risultati di questa valutazione vengano messi a disposizione dei genitori e della comunità, in genere sotto forma di media delle scuole, in modo che si possa decidere come le singole scuole possano migliorare e come le pratiche che hanno successo possano essere disseminate a favore di un maggior numero di insegnanti.
Passiamo ora alle sciocchezze che la virago Moratti è riuscita a dire. Innanzitutto occorre lavorare a scuola per preparare i ragazzi alle prove OCSE-PISA. Quindi che occorrono insegnanti più preparati ed infine che, per vincere l’abbandono scolastico serve avere più scuole professionali. Un campionario davvero incredibile. Nel 2002, così Paola Tonna, in Scuola e Didattica n° 1, 2003, riassumeva le posizioni della Moratti:
Il Ministro Moratti, dal canto suo, ascrive i modesti risultati dell’Italia, alla prevalenza di una cultura delle procedure, del processo e dell’economicità, piuttosto che di una cultura della valutazione dei risultati. È necessario perseguire quella trasparenza dei risultati (accountability) per fornire i risultati attesi. […][…] Da ultimo, la Moratti ha posto l’accento sul fatto che una maggiore qualificazione degli insegnanti può essere un fattore determinante alla risoluzione del problema. Rispetto al problema, anch’esso emerso dai risultati presentati, dell’abbandono scolastico che vede l’Italia in una posizione di netto svantaggio rispetto alla media europea, il nostro Ministro risponde che la via del rafforzamento del canale della formazione professionale, come sta avvenendo nella U.E. dove molti Paesi stanno già e da tempo investendo moltissimo, va proprio nel senso di rimediare a questa pesante situazione.
Roma 29 maggio 2002
Insomma mi pare sia chiaro cosa si vuole fare attraverso uno strumento, il test INVALSI, che con la didattica, con l’insegnamento in una scuola di un Paese democratico, non c’entra nulla.
In definitiva, le scuole che hanno dato risultati negativi alle prove INVALSI resteranno lì perché non vi è alcuna autorità che sappia come intervenire se non punendo insegnanti e Dirigenti su pretese colpe di leso liberismo. Io manderei a dirigere tali scuole dirigenti come quell’alto funzionario del MIUR che riuscì a pensare a tunnel fantastici per neutrini, tunnel che collegherebbero Ginevra ed il Gran Sasso, o quei funzionari Invalsi che hanno preparato le griglie di valutazione di matematica agli esami di Terza Media nel giugno 2011.
ED ORA RISPONDIAMO ALLA SECONDA DOMANDA UE
- Come intende il governo valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivo il governo intende varare?
Sugli insegnanti, in questi anni, si è scatenato un fuoco di fila di attacchi che hanno chiari secondi fini ed in questa guerra svetta per impegno la TreeLLLe, un’organizzazione che lavora per la Confindustria e nella quale lavorano gomito a gomito Tullio De Mauro e Giuliano Ferrara. Nel Quaderno 3 di questa organizzazione si legge: “Realizzare una Agenzia nazionale di valutazione, autonoma e indipendente, con funzioni di authority per la valutazione esterna della ricerca, della didattica e degli atenei, mediante la trasformazione, entro un tempo ragionevole, degli attuali organismi di valutazione – Cnvsu e Civr.” Quando si parla del sistema di valutazione, dei Dirigenti che dovrebbero controllare, e di ammennicoli simili, si mente spudoratamente anche perché non si sa bene chi valuta coloro che dirigono la TreeLLLe.
Un insegnante, in Italia, passa attraverso prove molto selettive (laurea, abilitazione, concorso, frequenza di due anni di corsi di Scienze dell’Educazione e varie altre prove come tirocinio, tutoraggio…). Si tratta di esami di Stato per l’abilitazione all’insegnamento e non di sciocchezze, come fare gli esami facili a Teramo (Brunetta) ed a Reggio Calabria (Gelmini), e screditare questi corrisponde a screditare quelli che generano avvocati, ingegneri ed architetti. Ultimamente erano entrate in funzione le scuole di perfezionamento SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Superiore) che coloro che parlano di impreparazione degli insegnanti e di merito, hanno subito chiuso. I nostri precari sono persone preparate che hanno fatto innumerevoli prove che nessuno però prende ora in considerazione. La loro denigrazione passa attraverso quella pletora di pedagogisti che hanno il ruolo di eseguire ciò che i governi vogliono senza verifiche finali (per costoro è così, altrimenti i Vertecchi e Maragliano li dovrei incontrare a chiedere l’elemosina in un
angolo di strada).
Le valutazioni le preparano loro e loro dovevano prepararle per il famigerato concorsone Berlinguer-Panini. Ora un professionista in fisica può accettare di essere valutato da un fisico ma da un pedagogista no, perché non si sa bene cosa il pedagogista deve accertare e quale preparazione avrebbe per farlo. Se è la capacità di fare l’insegnante, indipendentemente dalla disciplina, vi erano quei corsi delle SSIS e cose simili, anche universitarie.
Se si ritiene che non basta conoscere la fisica per insegnare io acconsento ma debbo dissentire che sia mio giudice, in quanto insegnante, un pedagogista che sa di didattica del nulla ma non di fisica (più volte ho chiesto ai pedagogisti di turno come introdurre il concetto newtoniano di forza visto che la definizione nasce da concetti non tutti definiti. La risposta è sempre stata che questo problema lo dovevo risolvere io. Caspita!). Se solo si pensa che alla fine di ogni ciclo di studi, quando vi sono gli esami, ogni commissario DEVE fare una relazione sulla preparazione media degli studenti… Dove valutare meglio gli insegnanti di quel corso? Io di relazioni ne ho fatte varie decine, sia di lode all’insegnante sia di sua stroncatura, ma non sono a conoscenza di ricadute che abbiano promosso o bocciato l’insegnante del quale parlavo.
La valutazione degli insegnanti ha in realtà altri fini tra cui, il più importante è rendere la persona dipendente sempre più dal suo diretto Dirigente e quindi sempre più ubbidiente. Ancora non a caso: quando partirono le mamme di tutte le riforme destrutturanti la scuola, quelle del 1997-99 realizzate da Berlinguer e Bassanini, ad esse si accompagnava la legge sulla dirigenza e sulla parità scolastica. I Presidi e Direttori Didattici divennero Dirigenti senza colpo ferire, niente esami con promozione generalizzata (il candidato, dopo aver autocertificato il collegamento di 300 ore ad internet, poteva andare all’orale o con il suo avvocato o con il sindacalista di fiducia).
Costoro possono non essere preparati perché servono come capireparto da cui dipende (è recentissimo) anche la punizione diretta dell’insegnante e da cui dipenderà (prestissimo) l’assunzione degli insegnanti (Basta con il modello iper accentrato della scuola italiana. Una scuola più snella e meno burocratizzata è quanto chiede TreeLLLe al governo. Dove le assunzioni dei docenti siano fatte direttamente dalle istituzioni scolastiche. Sarebbe auspicabile poi, secondo TreeLLLe, istituire nuovi organi di governo della scuola autonoma: un consiglio di istituto come unico organo di indirizzo e controllo che delibera lo statuto della scuola, nomina il capo di istituto, approva il POF, i bilanci, l’organico e le assunzioni). La scuola si destruttura, si perde la fiducia e si apre la strada alla privatizzazione sulla quale sono d’accordo tutti i partiti in Parlamento, i Sindacati confederali, la Chiesa (gli altri parlano ma sono cialtroni che non conoscono i problemi e non fanno alcuno sforzo).
Come si valorizzeranno allora gli insegnanti? Credo che ora servirebbe l’opera diretta di Dio. Andiamo tutti in pellegrinaggio da qualche parte e, mossi da incrollabile fede,
chiediamo l’intervento diretto di Dio, poiché un santo qualunque non basta.
Quali incentivi si daranno? Una mancia sul salario? Da ridere! Hanno tagliato tutto il tagliabile e non hanno mantenuto alcuna promessa (i tagli servivano a pagare meglio i meritevoli). E su quali meriti da misurare? Se gli studenti del tale insegnante hanno ben risposto ai test INVALSI quest’ultimo avrà 100 euro in più l’anno? O, per caso, non si daranno i soldi ad una data scuola, a disposizione del Dirigente per le sue clientele interne? Questo sarà l’incentivo agli insegnanti! Se non si cambia tutto alla radice le cose andranno in questo modo indegno.
Con salari per gli insegnanti che sono i più bassi in Europa, con il blocco dei salari realizzato nel 2010, con la contrattazione collettiva, unica fonte titolata a decidere le retribuzioni, bloccata fino al 31 dicembre 2014, con il taglio di ogni minimo sostegno accessorio, con la creazione del discredito sociale, come si può seriamente pensare ad un qualche reale incentivo che cambi la situazione? Non dico altro perché credo sia chiaro a tutti.
LE ULTIME DUE DOMANDE UE SULL’UNIVERSITÀ
- Il governo potrebbe fornirci ulteriori dettagli su come intende migliorare ed espandere l’autonomia e la competitività tra le università? In pratica, che cosa implica la frase “maggior spazio di manovra nello stabilire le tasse di iscrizione”?
- Per quanto riguarda la riforma dell’università, quali misure e quali provvedimenti devono essere ancora adottati?
Poiché l’Università rappresenta interessi materiali più immediatamente toccabili, i problemi sono molto più complessi e di difficile lettura. Provo a dire, oltre a quanto già detto, alcune cose, sperando siano utili.
Il 10 novembre 2008 è stato approvato il Decreto Legislativo (180/08) riguardante l’Università, decreto nato anche su suggerimenti degli economisti Perotti e Giavazzi dell’Università privata Bocconi. Perotti ha scritto un libro, L’università truccata, in perfetta sintonia con il governo, del quale è l’unico fondamento teorico. Egli, con un’operazione spregiudicata in cui utilizza numeri che stimano la produzione del sistema di ricerca italiano ma non la sua produttività, tende a screditare il nostro sistema di ricerca manipolando i numeri tanto da sembrare lo sprovveduto che non è.
Il solo modo di operare sui dati della ricerca è stato quello di Ugo Amaldi che con aritmetica elementare ha mostrato che l’operazione di Perotti è funzionale come solo sostegno ideologico al governo (il suo libro è uscito per la casa editrice Einaudi dell’ex Presidente del Consiglio Berlusconi il 30 settembre). Giavazzi, l’editorialista del Corriere della Sera, ha invece suggerito con estrema chiarezza a Gelmini e Tremonti il DL 180 dalle pagine di quel giornale il 3 e 5 novembre di quell’anno (Tre segnali da dare in una settimana, Ma il Pd ora si impegni per favorire un rinvio), affermando che tutti i concorsi sono truccati (meno quello che lo ha riguardato). Garavaglia, ministro
ombra del PD per la scuola, e Modica, responsabile università del PD, in un articolo sullo stesso Corriere del 5 novembre, Concorsi, sì a nuove regole. Bene i segnali del governo, mostrando apprezzamento per le indicazioni di Giavazzi, gli hanno fornito alcuni consigli tecnici dei quali è stato fatto un uso parziale.
Nel Decreto 180 ci si rifà ancora ad una delle leggi Bassanini (449/97) per non permettere più assunzioni e non assegnare più fondi a quelle Università che eccedano per spese fisse il 90% di quanto gli assegna lo Stato (nessun riferimento alla qualità). È opportuno osservare che con i tagli ai finanziamenti e con questa norma sempre presente, presto molte università, anche se al momento virtuose, rischieranno la chiusura. Si fissano alcune norme per i concorsi universitari e per la valutazione per il reclutamento dei ricercatori che mantengono le cose come stanno in termini di possibilità di pilotare i concorsi da parte delle deprecate baronie. Giuliano Cazzola del Pdl ha detto che: “Si complicano le procedure senza mutarne la sostanza”.
A partire dall’anno 2009 il 7% dei fondi assegnati all’Università andrà per sostenere l’efficacia e l’efficienza della ricerca e dell’offerta formativa con criteri che la Gelmini fisserà entro il 2008. Si stanziano dei fondi per il diritto allo studio. Ma si individua un nemico nell’università, il povero studente fuoricorso. Vi è nelle Linee Guida il progetto di aumentare loro le tasse universitarie e la cosa sarà realizzata in un disegno di legge organico di riforma.
In una Italia dove nel 2006 il 66% dei 271.115 laureati era fuori corso, dove da almeno dieci anni non si hanno agevolazioni per gli studenti lavoratori, dove il lavoro giovanile è precario e al nero, dove lo studente fuori sede ha spese ingenti e dove il diritto allo studio non è mai realmente esistito, Gelmini ha individuato i nemici nei fuoricorso, in quegli studenti che hanno scambiato l’università per un parcheggio. Stessa opinione doveva avere per i precari che, pur avendo titoli maturati da anni e concorsi già vinti, chissà perché, vengono considerati come dei postulanti e comunque tali da non essere neppure presi in considerazione.
Questo è uno degli ultimi decreti ma l’Università resta colpita dall’articolo citato della finanziaria che la riguarda, il quale prevede che “dall’attuazione […] del presente articolo, devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456 milioni di euro per l’anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l’anno 2010, a 2.538 milioni di euro per l’anno 2011 e a 3.188 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012”. Un totale cioè di 7 miliardi ed 832 milioni di euro dei quali, in modo ancora non definito, 1 miliardo e 800 milioni saranno a carico dell’Università (lo sanno i legislatori che in Italia la ricerca è quasi tutta fatta nell’Università e che se si tagliano i fondi a quest’ultima si uccide la ricerca ? Forse sì, ma la cosa non li interessa).
I provvedimenti del governo, rintracciabili negli articoli 16 e 66 della finanziaria (Legge 133/08), con l’assenso del ministro ombra del PD, la teodem Garavaglia che, dopo aver sostenuto su AprileOnLine.info del 4 novembre 2008 che al PD le Fondazioni vanno bene a patto che si diano loro adeguati finanziamenti statali (sic), incontratasi
con Gelmini, ha dato l’OK del PD, prevedevano il blocco del turn over, il taglio dei finanziamenti, la trasformazione degli atenei in fondazioni private (con la conseguente sottrazione degli atenei alle regole del diritto pubblico) come dall’articolo 16 della 133 scritto dall’ex diessino poi democratico ed ora nel gruppo misto Nicola Rossi.
Ma il PD, tramite Garavaglia, ha difeso sia l’attacco di Gelmini all’autonomia dell’università che allo stato giuridico dei docenti, affermando sul Sole 24 Ore (24 luglio) che le proposte Gelmini sono insufficienti perché non bastano le fondazioni per sbarazzarsi degli organi accademici. E, con l’accordo del PD, sparisce circa il 25% del FFO entro il 2012 ma, in compenso, anche in finanziaria sono spuntati conflitti d’interesse: infatti al fine di sbaragliare tutti i favoritismi e le clientele, vengono trasferite risorse alla fondazione IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Genova il cui presidente è dal dicembre 2005 Vittorio Grilli che dalla stessa data è, a 500 mila euro/anno, anche direttore generale del Tesoro, al ministero dell’Economia e della Finanze (oggi è il vice di Monti).
Ricordo che questo ITT nacque su spinta Moratti per accogliere i cervelli fuggiti e che nonostante la montagna di soldi che gli è arrivata non risulta abbia messo in piedi qualche ricerca di rilievo. Di fondi per la ricerca neanche a parlarne. Solo tagli sul già da molti anni tagliato. La formazione di un ricercatore costa allo Stato 250 milioni. Noi li formiamo e li facciamo emigrare (solo il CNRS, l’analogo francese del CNR, ha in ruolo il 50% di ricercatori italiani). Geniale!
Chiunque sappia di ricerca sa che questi tagli suonano come la fine dell’università e della ricerca pubbliche. Se la cosa si realizzasse occorrerebbe passare a finanziamenti privati (fondazioni) con contributi pubblici (alle fondazioni). E chi sta operando per realizzare questo fine mostra totale ignoranza delle dinamiche che fanno crescere la sana economia, lo sviluppo e la conoscenza. Al solito, in questo Paese, usiamo bistrattare i Galileo, i Fermi, i Dulbecco, le Montalcini, gli Ippolito, i Marotta, i Maiani. Mentre abbiamo persone senza pubblicazioni a capo di enti di ricerca e predicatori laici come Enrico Medi, nominati vicepresidenti dell’Euratom, che arricchirebbero l’uranio “Just a bit”.
Dal punto di vista dell’Università come massimo ente deputato alla formazione, si deve denunciare con molta forza la bestialità del 3+2, bestialità, anch’essa, tutta di Bassanini-Berlinguer. L’effetto è stato perverso perché questa riforma si è sommata alla scarsa preparazione offerta dalla scuola secondaria che subiva la Riforma dell’autonomia con i suoi POF ed i suoi percorsi. I livelli di preparazione degli studenti che si iscrivono all’Università risultano notevolmente più bassi di quelli della pre-riforma.
Le facoltà scientifiche della Sapienza per un quinquennio hanno fatto test a cinquemila studenti degli ultimi anni delle superiori che intendevano iscriversi a uno dei tanti corsi per conseguire la laurea di primo livello: solo il 5% aveva una conoscenza di base della geometria, appena il 12,7% sapeva rispondere a 8 domande
facili su 10, su 100 studenti appena 15 erano in grado di centrare risposte sul lessico, e poco più di 27 sapevano di ortografia, sfiorava il 17% la quota di studenti che riusciva a completare correttamente le frasi con il verbo giusto… Vi sono poi analoghe ricerche di Alma Laurea di Bologna con medesimi risultati. Ciò vuol dire che il primo anno di università se ne va per alfabetizzare gli studenti che in maggioranza mostrano lacune, queste sì, alla base del gran numero di abbandoni.
La laurea triennale diventa quindi una sorta di super liceo con l’aggravante del sistema dei crediti, mediante i quali è possibile saltare qualche esame o renderlo molto più semplice, che ha introdotto elementi clientelari nel sistema universitario degli esami. Per far laureare tutti prima, si diceva, la laurea di primo livello è triennale. Poi, chi vuole, può passare alla specializzazione magistrale con un altro biennio. Così la laurea triennale è un liceo robusto che non c’entra nulla con la laurea del passato. L’idea di questa riforma nasce, su sollecitazione OCSE, a Parigi nel 1998 tra Francia, Germania, Gran Bretagna ed Italia con seguito in un incontro dei Ministri dell’Istruzione a Bologna nel giugno 1999 (questi Paesi forti, hanno aggregato gli altri e Berlinguer prese spunto da questo per promuovere la riforma).
Il corso di studi di uno studente è stato calcolato in ore annuali di impegno che sono risultate 1500 per lo studio (studio individuale, lezioni, laboratori, stage). Queste ore sono state suddivise per i crediti formativi (CFU) ai quali ogni studente ha diritto e 1500 ore corrispondono a 60 CFU. Con ulteriore calcolo si è stabilito che un CFU corrisponde a 25 ore di impegno, delle quali ore almeno la metà deve essere di studio individuale. Ogni esame universitario, a seconda della sua mole, dell’impegno richiesto ecc., dà diritto ad un certo numero di CFU. Superato un numero di esami che fanno cumulare 180 CFU, si è laureati (primo livello).
Se si aggiungono altri 120 CFU si è laureati (secondo livello). Vi sono poi ulteriori traguardi raggiungibili con altri CFU (i Master, ad esempio, che durano un anno, valgono altri 60 CFU, ecc.). Data poi l’autonomia, ogni università deve allettare la clientela con qualcosa di più accattivante, più gradevole di ciò che offre l’università concorrente, ad esempio con nuove professioni da inventare mettendo insieme un certo blocco di discipline che aumentano ancora i corsi di laurea e le cattedre creando spesso, oltre al fatto in sé, grossi danni agli studenti per la loro vacuità e stravaganza rispetto al mercato. Ed in questa rincorsa alla cattedra, a parte vicende da codice penale in genere da assegnare alle facoltà di medicina, vi è la proliferazione dei massimi cantori di queste riforme liberiste, i pedagogisti. Costoro hanno instaurato una sorta di perverso sistema epistemologico senza verifiche, potendo cambiare i loro postulati in corso d’opera al fine di essere graditi dal governo in carica. Costoro, con questi meriti, si sono costruiti infiniti feudi nelle facoltà di Scienze dell’Educazione e/o della Formazione inventandosi cattedre fantasiose di ogni tipo. Se un gruppo sociale ti permette di giustificare risparmi e lavora per il consenso, merita di essere premiato.
Anche qui la scuola/università diventa azienda cambiando radicalmente la sua natura. Rinforzare la linea gerarchica, procurare che le funzioni logistiche prendano il
sopravvento e controllino le funzioni dei professionisti, è una strategia che è necessario chiamare, con ragione, aberrante dal punto di vista stesso della gestione aziendale. Il controsenso sull’atto pedagogico, negato nella sua complessità, non può che provocare una perdita della ricercata efficacia.
Colui che in tutto questo ci rimette di più è lo studente sistemato non più in un progetto educativo ma nell’economia aziendale, dove ciò che conta è solo l’accumulo dei crediti. Ed i crediti hanno anche snaturato lo studente che oggi vede in ogni sua attività una possibilità di reclamarla a credito o, peggio, che si dedica solo ad attività che producono crediti. Conta solo il raggiungimento del 180 dopo di che sono tutti felici a cominciare dalle statistiche che danno un laureato in più indipendentemente dalla sua preparazione. Anche i docenti, quelli non miracolati, hanno problemi con questo sistema per il carico burocratico (gestionale, amministrativo, organizzativo…) che è ricaduto nelle loro attività, analogo a quello avvenuto nella Scuola Secondaria. E l’analogia si estende anche al discredito sociale conseguente.
È un mio perfido giudizio quello che parla di dequalificazione? Neanche per idea. Chiunque cerchi lavoro (si leggano i bandi) cerca lauree “vecchie” con ordinamenti quadriennali o quinquennali. L’esperienza mia personale è quella del rispondere a inchieste e sondaggi. Alla fine si chiede il titolo di studio. Si tratta di varie possibilità disposte in crescendo. Arrivati alla laurea c’è: “laurea triennale e specialistica” e, dopo, “laurea quinquennale”. Solo i ciechi non vedono quanto sta accadendo in termini di dequalificazione totale della gran parte degli studenti fino ai più elevati livelli di studio. Vi è un generale appiattimento dell’università verso i gradini più bassi del sapere. Da questo generale appiattimento del “tutti promossi” è difficile saper estrarre coloro di cui ha bisogno chi fornisce il lavoro. Solo chi è in grado di fare quei famosi master all’estero ha una qualche possibilità. Da cui, naturaliter, il sistema è diventato un perfetto prodotto per i ricchi. E Berlinguer o non l’ha capito perché non capisce in genere o è stato (è) in completa malafede.
Umberto Galimberti scriveva nel 2002:
“la formazione della personalità, l’autovalorizzazione, il riconoscimento, senza il quale nei giovani non si costruisce alcuna salda identità sono tutti valori spazzati via dalla riforma universitaria, perché sono valori che appartengono ad un’altra economia che non è l’economia aziendale, dove ciò che conta è solo l’accumulo dei crediti e la parziale remissione dei debiti. L’università, infatti, come fanno le banche con i debitori in procinto di fallire, pratica sconti, e a chi aveva trascinato gli studi senza speranza scrive una letterina per dirgli che può farcela ancora, perché con la riforma la strada è più breve e più spianata, basta che si procuri una calcolatrice e traduca tutti gli esami sostenuti, quando era in corso e fuoricorso, in crediti, fino a raggiungere la fatidica quota 180 che gli concede la laurea di primo livello per la gioia delle statistiche che in questo modo attestano la produttività dell’istituzione”.
Ed aggiungeva Vittorio Coletti:
“Se i professori non studiano più o studiano meno; se i loro corsi sono inevitabilmente più ripetitivi e meno vitalizzati dalla ricerca; se le loro mansioni sono sempre più burocratiche, scuole e atenei vedranno emergere una tipologia di docente burocrate e logorroico, intellettualmente ammuffito, che si rianima solo nelle mille riunioni come un solitario pensionato del condominio che si eccita nelle assemblee annuali per il rifacimento delle scale“.
Dal punto di vista dell’Università come creatrice di potere a vari livelli, il discorso è quindi diverso e l’Università, per i suoi padroni-baroni, può essere qualunque cosa dal punto di vista formativo, per lor signori le cose stanno allo stesso modo. La “riforma” Gelmini, altro non è che “tutto il potere ai rettori” che, al solito non rappresentano altro che potenti interessi anche e soprattutto esterni all’Università. I delegati dei Rettori ormai la fanno da padroni; i delegati sono come quei piccoli manager politicamente qualificati che hanno diretto e portato al disastro le ASL della sanità.
Questi delegati non sono poi quasi mai professori qualificati che, come nelle ASL, se sono qualificati, non entrano in beghe da sottogoverno ma portano avanti le loro ricerche generalmente con successo. Anche qui il richiamo, improprio come mai, è all’esperienza anglosassone. Cosa ha a che fare la nostra Università con il sistema piramidale per ricchi delle Università britanniche o degli Stati Uniti? Davvero si tende ad una Università per pochissimi ricchi, costosissima, affiancata da una Università dequalificata pubblica che dà un qualche contentino dequalificato, magari a pagamento via internet, ai meno abbienti? Ad una Università che dovrebbe vivere di miracoli con mancanza di incentivi veri alla ricerca, alla promozione di giovani studiosi e all’assenza di vera autonomia. E ciò che ho appena detto è relativo ad una critica alta perché la critica dovrebbe andare al suk inaugurato da Berlinguer e fortemente potenziato dalla Gelmini.
Altrimenti a che serve il proliferare di Università alla carta che danno lauree anche agli analfabeti, in cambio di quel dané che la fa da padrone in ambienti nordisti? Soldi ai privati, alla Chiesa, anche qui, con tagli indegni alle Università pubbliche.
E quando si taglia, dato il livello dei sarti, si toglie quanto di meglio fanno le Università ed i nostri giovani, per dare sostegno a coloro che, in un’ipotetica classifica INVALSI, dovrebbero essere cacciati in malo modo. Cosa vuol dire altrimenti il numero chiuso se non l’ubbidienza supina al liberismo sfrenato? Soprattutto in Italia dove l’accesso alle Facoltà avviene con criteri di selezione che nulla hanno a che fare con la preparazione scolastica (oppure si dica qual è l’abilità di chi sa dove si trova un certo chiosco che fa i gelati rispetto alla professione di chirurgo…). Infine il precariato dei cervelli è ormai legalizzato con l’art. 12, comma 4, della famigerata riforma: per i ricercatori a tempo determinato i contratti hanno durata triennale e possono essere rinnovati una sola volta per un solo triennio previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte. Da qui si può facilmente capire che le vecchie sparate della abilitata a Reggio Calabria contro i baroni, in realtà erano
una vera crociata contro le nostre migliori speranze, ovvero i giovani ricercatori.
Dal punto di vista dei concorsi per acquisire la docenza, non serve io dica nulla. Le cronache raccontano di un potere baronale accresciuto con nomine ditocratiche ormai a figli, mogli, nipoti ed amanti. Si faccia comunque attenzione ad un piccolo ma non insignificante dettaglio. La corruzione universitaria riguarda sempre le facoltà intorno alle quali gira denaro, molto denaro: medicina ed ingegneria principalmente. Non a caso la maggioranza dei rettori di potere proviene da queste facoltà.
Con queste premesse, che risposte dare se la prima delle due domande implica una Università che diventa ancora più costosa di quello che già è? Se dà per scontato il proseguire sul fallimentare cammino di derivazione berlingueriana ma di esecuzione Gelmini-Tremonti?
Che vuol dire la competitività tra le Università? Nel nostro Paese abbiamo nostre peculiarità. Se le migliori Università sono quelle che aveva indicato la Gelmini su parametri, da lei e “costruttori di Tunnel”, inventati al fine di dare più soldi alle Università del Nord, non ci siamo. Non ci siamo tanto da reclamare la guerra. Con l’Università non si può fare lo spezzatino che tanto piace ai palati barbari. Non si mescolano pere con aragoste mediando cose che non sono compatibili. Quando si dice che tra le prime Università italiane nelle graduatorie universitarie vi è La Sapienza di Roma che pure si trova oltre il duecentesimo posto, si dice che la media tra le prestazioni tra le varie facoltà ci porta a quel livello.
Ma se si discutesse di fisica, matematica, … allora saliremmo ai primi posti. Come rimediare a questo, ce lo dicono coloro che si occupano di Università? Inoltre in questo disgraziato Paese dobbiamo sorbirci favole per tranquillizzarci e queste favole sono anche nella realizzazione del governo Monti? Qualcuno vi ha detto mai che nessuna Università cattolica è classificata per eccellenza nelle graduatorie di merito? E che non vi è LUISS o Bocconi che possano tener testa alle facoltà economiche delle Università pubbliche? Eppure i nostri informatissimi giornalisti non ci dicono mai nulla in proposito e i bocconiani Giavazzi e Perotti possono imperversare solo perché nessuno ha spiegato agli italiani che, a proposito di merito, sono molto indietro rispetto a tutti coloro che provengono da Università di Stato (tra cui – serve ricordarlo? – vi è la Normale di Pisa che non ha rappresentanti al governo).
Piuttosto le Università in genere sono un buco nero in cui far cadere ogni protezione e privilegio di potenti e politici. Il bravo ministro della Pubblica Istruzione, Matteucci, di uno dei primi governi italiani, dopo l’Unità, un governo della Destra Storica, disse amareggiato, quando volle razionalizzare il sistema universitario non riuscendoci, che in Italia è più facile spostare la capitale che non riformare l’Università. Infatti crescono le Università senza che ve ne sia necessità e più crescono e più l’insieme risulta dequalificato perché i fondi ed i migliori cervelli che debbono preparare le nostre giovani speranze non sono infiniti. Eppoi, diciamoci la verità: meno Università ma un sistema di borse e case dello studente che aiuti i fuori sede sarebbe la vera primaria soluzione.
Da ultimo il problema del salario e del sostegno al ricercatore-docente. Una persona che inizia a dedicare se stesso all’insegnamento deve poter essere pagato in modo degno e, soprattutto, deve poter accedere facilmente alla ricerca con i finanziamenti adeguati necessari. Tutto questo in Italia non esiste più e per questo paghiamo la fuga dei migliori cervelli all’estero che ringrazia per tanta generosità a costo zero. E che vuol dire “paghiamo”?
La scuola nel suo insieme, per quanto noi paghiamo per utilizzarla, rappresenta un costo economico enorme per lo Stato. Quest’ultimo ne trarrà vantaggio sia nel disporre di cittadini preparati ed in grado di interagire positivamente per la crescita morale e civile dell’intero Paese sia nell’avere alla fine persone preparate che producono beni e servizi per il Paese. È un comportamento idiota dei governi il preparare cittadini a livelli anche di eccellenza e poi farli utilizzare da altri Paesi che li prendono rivendendo poi a noi i prodotti delle loro ricerche.
CONCLUDENDO
Stupisce il fatto che i commenti che ho letto, relativi a queste domande UE, commenti di persone anche in ottima fede, partano dall’esistente.
Non si ha il coraggio (spero non la capacità) di fare la rivoluzione copernicana che riporti i liberisti alle brutte figure che Galileo imponeva agli aristotelici. Insomma difendere la scuola pubblica ed i suoi valori per avere dei cittadini evoluti deve diventare il nostro imperativo categorico.
Non si può cedere al liberismo come se lo sfruttamento bestiale dell’uomo sull’uomo sia ineluttabile.
Non si deve entrare nei tecnicismi di importazione riferiti a scuole che hanno ben altre tradizioni. Per esperienza personale non empirica i nostri studenti della scuola pre-Berlinguer riuscivano bene ad inserirsi in ogni università e/o centro di ricerca negli USA, in Francia, in Germania, in Canada… divenendo in breve tempo dirigenti qualificati. Il viceversa non era (ora, dopo le cure destrutturanti iniziate da Berlinguer, non so più).
Chi ha avuto a che fare con studenti di High School britannici, americani e canadesi, sa bene che i loro livelli erano molto più bassi dei nostri studenti omologhi per età e classe di studio.
Luigi Olivieri de lavoce.info dice: “Il governo in questi anni non ha fatto altro che parlare di scarsa produttività dell’amministrazione pubblica, di costo troppo elevato dei dipendenti e del loro numero eccessivo. In Europa, per coerenza, si aspettano concrete riduzioni di questi indicatori. Come spiegare ora che era solo propaganda?” E che, aggiungo io, i pretesi esperti non sanno proprio cosa è scuola, cosa è intervenire su di essa, cosa sui suoi operatori?
Data questa situazione, se qualcuno mi chiedesse Che fare? non saprei rispondere. Mi
sembra che noi si sia già al punto di non ritorno. Ci siamo persi un bene eccellente per le fregole di quattro cialtroni per non dire del cane. Risento ancora le parole del mio maestro Giorgio Salvini (1968): “Renzetti, per distruggere una scuola ci vuole pochissimo, per costruirla possono non bastare cento anni!”.
Gruppo Scuola e Università di Alternativa
UNA BUSSOLA PER LA SCUOLA
Le parole ingannano
Chiarimenti terminologici: liberismo, liberalismo, neoliberismo, globalizzazione e tecnica.
Per disporre di quadri concettuali di comprensione della storia di quest’ultimo trentennio è necessario un chiarimento del significato di alcuni fondamentali termini quali liberismo, liberalismo, neoliberismo, globalizzazione e tecnica. Un chiarimento più che mai necessario, soprattutto in un momento in cui le parole sono utilizzate sganciandole dal significato di cui sono state storicamente portatrici.
La libertà di movimento e di penetrazione dei capitali, caratteristica della cosiddetta globalizzazione economica, è solitamente considerata l’espressione ultima e conseguente del liberismo, inteso, a sua volta, come un aspetto del liberalismo, cioè come il principio stesso di libertà individuale umana del liberalismo applicato alla sfera economica.
In realtà la storia del liberalismo europeo ci dice che liberalismo e liberismo sono idee tra loro nettamente distinte: spesso sono connesse come base ideale generale (liberalismo) e sua manifestazione specifica (liberismo), ma talvolta sono anche divergenti e persino in reciproco contrasto. Benedetto Croce, uno dei massimi maestri del liberalismo, sia sul piano filosofico, come studioso dei presupposti etici, metafisici e storici delle ideologie, sia sul piano strettamente politico, come presidente del partito liberale italiano nella fase di passaggio dal fascismo alla democrazia, ha ripetutamente sostenuto con dovizia di argomentazioni, che il liberalismo è una religione politica compatibile con qualsiasi configurazione dei rapporti economici, compresi quelli collettivistici.
Il liberismo, ideologia nata nell’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento, è una dottrina e una prassi il cui scopo è la salvaguardia dell’autonomia dell’economia da ogni vincolo di natura extraeconomica. Il libero mercato, cioè la rete complessiva degli scambi dei beni economici costruita dal puro gioco della domanda e dell’offerta monetaria, deve essere, secondo il liberismo, il solo regolatore dell’economia, senza alcuna interferenza da parte della politica. È tassativamente escluso dal liberismo, quindi, che lo Stato isoli un mercato dall’altro con il protezionismo doganale, alteri i prezzi di mercato con controlli limitativi di vario genere, imponga produzioni non generate dal gioco della domanda e dell’offerta, vincoli gli scambi a criteri etici, o religiosi, o sociali, o estetici, o di costumi, tradizionali.
Il liberismo non è sinonimo di liberalismo: quest’ultimo è nato nella Francia dell’età
della Restaurazione, ed è una dottrina più generale, il cui scopo non è la salvaguardia dell’autonomia dell’economia dalla politica, ma la salvaguardia, proprio ad opera della politica, di una sfera della libertà individuale attraverso la quale la persona può autodeterminarsi nei suoi contenuti biografici, nelle sue specificazioni relazionali e nei suoi orientamenti valoriali. Il liberismo è una dottrina strettamente economica, il liberalismo è più in generale una dottrina etico-politica: può accadere che il liberalismo assuma il liberismo come suo elemento, ma ciò accade nelle fasi storiche in cui la libera iniziativa economica privata, caposaldo del liberismo, appare indispensabile alla libera autodeterminazione complessiva della persona. Nell’Inghilterra vittoriana, grandi capi di governo liberali come Peel, Russel e Gladstone sono stati anche grandi artefici del liberismo. In altre fasi storiche, però, altri grandi esponenti del liberalismo hanno contrastato il liberismo: Giovanni Giolitti, regista egemonico dell’Italia liberale dei primi tre lustri del Novecento, è stato l’artefice del decollo industriale e dello sviluppo economico nazionale attraverso il protezionismo doganale, i prezzi amministrati, le nazionalizzazioni e le municipalizzazioni, cioè tutto il contrario del liberismo. Nel momento in cui la libertà di mercato, intesa come una tra le libertà civili, e come tale promossa dal liberalismo, diventa lesiva di altre libertà civili, un liberalismo che sia veramente tale si vede costretto a ripudiare il liberismo.
Il liberismo, come non è equivalente al liberalismo, ancor meno lo è al neoliberismo. La parola sembra suggerire il contrario: il neoliberismo, secondo il suo etimo, si presenta come una semplice nuova forma di liberismo, una sua riedizione adatta ai nuovi tempi. Un tratto distintivo dei nuovi tempi, però, è quello di coniare le parole in un vuoto di memorie e di significati, per cui accade spesso di registrare uno scarto clamoroso tra il contenuto semantico manifesto e il contenuto reale, pratico, che la parola assume nella prassi sociale. Detto semplicemente: le parole ingannano. Il neoliberismo, dunque, anche se così chiamato, non è un nuovo liberismo emerso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta come ripresa, in forma nuova, del liberismo tradizionale travolto dalla crisi del 1929: esso rappresenta, infatti, la pratica negazione di due elementi fondamentali e costitutivi del liberismo storico.
Abbiamo detto che il liberismo è, nella sua idea, il non intervento dello Stato e della politica nella sfera economica e l’autoregolamentazione della sfera economica attraverso il libero mercato. Nella sua effettività storica non è mai stato proprio questo, perché anche all’apogeo della sua capacità di imporsi e convincere, non ha mai eliminato del tutto gli interventi statali, quanto meno allo scopo di farsi aprire con le cannoniere gli spazi esterni chiusi ai suoi commerci, e perché il libero mercato è un’astrazione irreale, essendo gli scambi, in ogni mercato concreto, permanentemente attraversati da rapporti di potere che condizionano e distorcono quella che dovrebbe essere la determinazione degli scambi sulla base del puro gioco di domanda ed offerta. Il liberismo ottocentesco ha cercato tuttavia di conformarsi alla sua idea, che è stata un’idea-forza effettivamente orientatrice dei comportamenti economici privati e pubblici.
Il neoliberismo emerso vittorioso negli anni Ottanta è invece una politica economica di pesante interferenza statale nella sfera economica. In Inghilterra il governo di Margaret Thatcher ha combattuto con la massima durezza il potere dei sindacati operai sul mercato del lavoro, lasciando però intatto quello dei sindacati padronali; ha defiscalizzato ampiamente i profitti d’azienda, ma non i redditi da lavoro, distorcendo così in modo pesante il funzionamento dell’ideale mercato liberistico basato sulla sola interazione di soggetti individuali in posizione formale di eguaglianza. Negli Stati Uniti il governo di Ronald Reagan ha aperto nel bilancio statale un deficit più ampio di qualsiasi “deficit spending” di ispirazione antiliberistica keynesiana, anche se per alimentare la spesa militare anziché quella sociale, ed ha fatto prosperare prevalentemente con le sovvenzioni pubbliche centinaia di aziende dei settori aereospaziale, componentistico, elettronico e metallurgico. Il neoliberismo, dunque, è liberistico soltanto nel lasciare senza sostegni gli strati inferiori della società, per il resto è un indirizzo di promozione statale dell’accumulazione economica delle aziende, con un impegno tale da costituire la negazione completa di quell’elemento fondamentale dell’idea liberista che è la non interferenza della politica nella sfera economica. La stessa definizione di questo indirizzo come neoliberismo produce confusione e disorienta: la parola è ormai entrata universalmente in uso, per cui non è opportuno sostituirla, ma si abbia l’accortezza di non confonderla con una forma nuova, per quanto modificata di liberismo, ma di intenderla per quello che realmente è, vale a dire una forma di estremismo filoaziendalistico.
C’è un’altra differenza capitale tra il cosiddetto neoliberismo e il liberismo storico: quest’ultimo ha sempre mirato a salvaguardare da ogni interferenza di natura politica o comunque extraeconomica l’autoregolamentazione della sfera economica, ma presupponendone già costituiti i confini. Per questo i governi autenticamente liberisti hanno accettato, o addirittura costruito, sistemi scolastici regolati da logiche culturali e non mercantili, a cominciare addirittura, alla fine del Settecento, dal progetto di scuola del girondino ultraliberista Condorcet. Essi hanno infatti trovato la scuola, come altre istituzioni, fuori dai confini della sfera economica di cui volevano tutelare l’autoregolamentazione mediante il mercato. Il neoliberismo nega anche questo tratto fondamentale del liberismo, perché non concepisce alcun confine per la sfera economica, che identifica integralmente con la sfera sociale, per cui, quando trova istituzioni non economiche, interviene aggressivamente per sradicarle da ogni vincolo pubblico che le disciplini secondo regole non mercantili, e per imporre loro il modello aziendale. Il filoaziendalismo estremistico che ispira le politiche neoliberiste arriva così a configurarsi come vero e fisicamente.itproprio totalitarismo della logica aziendale, alla quale tutte le articolazioni della società sono poi costrette a conformarsi. L’ospedale deve essere un’azienda e la scuola deve essere un’azienda: le “riforme” della scuola di stampo neoliberista hanno in comune di affrontare solo problemi organizzativi da allineare a quelli aziendali. Non si corre mai il rischio, quando parlano i riformatori neoliberisti, di dover affrontare seriamente un discorso
di contenuti culturali: lo scopo è allineare qualsiasi realtà sociale, qualsiasi essere vivente e non vivente alle esigenze del mercato. Per essere più competitivi.
La traduzione concettualmente esatta del fuorviante termine (che pure continueremo ad usare) di “neoliberismo” è dunque “totalitarismo del principio aziendalistico mediante il mercato deregolamentato coatto”. Questo è nella sua realtà il neoliberismo: parlare di “libero mercato” in questo contesto è pura mitologia, perché esso ha sottratto il mercato economico ad ogni limite politico mediante una serie di atti politici, perché ha imposto a colpi di forza il suo mercato deregolamentato come modello di funzionamento di istituzioni prima non economiche, e perché questo mercato deregolamentato coatto mette in gioco, nella determinazione dei suoi prezzi e dei suoi investimenti, ogni sorta di pressioni e contropressioni politiche e mafiose.
E la globalizzazione? Se fosse, come spesso si dice, l’integrazione di tutte le regioni del pianeta in un unico mercato globale, e la riduzione del mondo a “villaggio globale”, non sarebbe una novità storica. Già all’inizio del Novecento il mercato capitalistico copre il mondo intero, è un mercato globale, e, per una piccola gamma di prodotti, un mercato globale c’è stato addirittura già nel Cinquecento. La circolazione mondiale delle merci e i mercati regionali reciprocamente chiusi, si alternano ciclicamente nella storia dell’economia capitalistica. Ci sono tuttavia segni indicatori della radicale novità storica della situazione attuale che designiamo come globalizzazione. Per cogliere questa novità bisogna intendere la globalizzazione non, per così dire, in senso orizzontale, come estensione di un unico mercato integrato, perché sotto questo aspetto, che certamente anche la caratterizza, essa non è che la ripetizione di una fase ciclica, ma in senso verticale, come integrazione di elementi sempre più profondi di realtà nella produzione di plusvalore. Il mercato, cioè, dà luogo alla globalizzazione allorché diventa pressoché l’unico luogo di accesso alla fruizione di ogni bene, per cui, oltre a quello delle merci tradizionali, c’è il mercato dei servizi, il mercato delle informazioni, il mercato della salute, il mercato dell’immagine, il mercato della genetica, e via dicendo. Tutti questi mercati sono sostenuti da potenti tecnologie. Senza le più recenti tecnologie della telecomunicazione e dell’informatica, le informazioni non potrebbero essere enucleate dal loro contesto e rapidamente elaborate in maniera da poter essere veicolate come merci. Senza le più avanzate tecnologie farmacologiche e chirurgiche, non ci sarebbe un mercato degli organi da trapianto e il mercato della salute in generale sarebbe più limitato. Senza l’ingegneria genetica, i segmenti di vita biologica non sarebbero isolabili e riproducibili come merci. La tecnica è dunque l’indispensabile mezzo di attuazione della globalizzazione capitalistica. Ciò non equivale a dire, si faccia attenzione, che ne sia il principio generatore. Lo sviluppo della tecnica come inarrestabile e irreversibile primo mobile della società, è una mistificazione volta a presentare gli esiti della globalizzazione capitalistica come un esito ineluttabile insito in una tecnica concepita come destino. La tecnica non è un destino, e non è una forza che ha annullato in sé quella del capitalismo, come
sostiene una certa moda intellettuale, ma è lo strumento principe del meccanismo autoreferenziale dell’accumulazione del plusvalore dal quale trae l’impulso a quel suo sviluppo illimitato che la fa erroneamente sembrare un destino. L’accumulazione continua di plusvalore esige infatti una continua espansione dell’area delle merci, ed una continua riduzione dei diritti del lavoro, la cui realizzazione pratica passa attraverso la tecnica. La tecnica, infatti, non è più, come un tempo, la procedura d’uso di strumenti isolati, ma è un ambiente di strumenti interrelati, in cui l’uso di ogni strumento prescrive un rinvio ad altri strumenti, e prescrive le azioni stesse da compiere, in quanto le azioni eseguite al di fuori della mediazione dell’ambiente tecnico, ne sono rese inefficaci. Ad esempio, se non si agisce in conformità a quanto richiesto da costose tecniche pubblicitarie, non si vende né ai consumatori un solo yogurt né agli elettori un solo capo del governo. La tecnicizzazione del mondo, è l’altra faccia della sua economia, ed entrambe queste facce non sono una causa, ma un effetto, l’effetto del meccanismo di accumulazione del plusvalore.
Scuola e neoliberismo
Chiarito ciò, un dibattito sul dissesto della scuola e su eventuali proposte di riforma presenta difficoltà e rischi di fraintendimento come poche altre questioni.
Facciamo, al proposito, un breve riassunto della storia recente: le politiche neoliberiste che si sono affermate a livello globale tra gli anni Ottanta e Novanta, in Italia sono state recepite dai governi di Giuliano Amato (1992-93) e di Carlo Azeglio Ciampi (1993-94). Tali governi hanno segnato anche in Italia il passaggio alle politiche neoliberiste richieste dalla globalizzazione capitalistica. Sono gli anni in cui le Confindustrie europee premono per il superamento della scuola “disinteressata” e dei suoi inutili costi. Prodi, l’uomo che negli anni Ottanta, alla testa dell’IRI, ha inaugurato il ciclo delle privatizzazioni a prezzi di favore, come candidato alla guida del governo dell’Ulivo, mette al centro del programma elettorale del 1996 anche la questione della scuola da modernizzare. Vittorioso alle elezioni del 1996, e diventato capo del governo, Prodi realizza quanto promesso. Mentre il suo ministro Tiziano Treu comincia a demolire con lucida consapevolezza i diritti del lavoro, l’altro suo ministro (quello dell’Istruzione) con incosciente inconsapevolezza, comincia a demolire la scuola, lasciando operare a tutto campo schiere di pedagogisti incolti, sperimentatori nevrotici, furbi profittatori del nuovo e falsi eredi di Don Milani. Da qui in poi inizia la sistematica distruzione del sistema nazionale della pubblica istruzione e l’abbandono di ogni progetto educativo nazionale.
I danni culturali e antropologici prodotti dalle politiche neoliberiste sono stati e sono catastrofici. Ma se la distruzione del sistema della pubblica istruzione (statale e nazionale) è un fatto eclatante, perché è così difficile a vedersi ed è così difficile
individuare i grimaldelli che lo hanno scardinato? La risposta è che tali danni, per essere “visti” richiedono una complessa mediazione culturale e, soprattutto, richiederebbero un pensiero non colonizzato dal neoliberismo, quindi non colonizzato dagli adoratori del mercato, dell’aziendalismo e della tecnica.
Per capirci: prendiamo ad esempio la questione della TAV in Val di Susa. Anche in questo caso, come nella scuola, siamo in presenza di danni catastrofici prodotti da un capitalismo senza più limiti che per accumulare plusvalore si mangia e distrugge il territorio con una virulenza mai conosciuta nella storia. Per vedere quei danni, però, è sufficiente affacciarsi alla finestra: anche coloro che non dispongono di mediazioni culturali per riconoscere i connotati devastanti assunti dall’attuale capitalismo vedono con i propri occhi che cosa significhi un’economia della crescita e dello sviluppo. Il dissesto del territorio colpisce direttamente e drammaticamente la vita e l’identità di un’intera popolazione, da qui la reazione compatta.
Diverso è il caso della scuola. Il sistema nazionale della pubblica istruzione, come la Val di Susa, ha subito interventi distruttivi di pari portata: ma come riconoscere le ruspe che hanno spianato il paesaggio della cultura, e le trivelle che hanno smantellato l’organizzazione della scuola e del sistema nel suo complesso? Qui sta il punto: chi mai penserebbe che dietro a tante parole accattivanti (autonomia, libertà di scelta, comunità educante…) e a tante formule “buoniste” (la scuola di tutti e di ciascuno…..) sostenute con apparenti intenzioni democratiche e progressive si cela invece quanto di più distruttivo si possa immaginare in termini culturali e sociali?
Un decennio di autonomia (aziendale) ha predisposto il terreno, il linguaggio e l’assuefazione mentale per dare il via alla “soluzione finale” della scuola italiana che perderà anche l’aspetto formale di scuola pubblica (oltre a quello sostanziale, già perso). Poiché si tratta di un passaggio di eccezionale portata storica (in senso distruttivo) per portarlo a compimento è necessario un clima di emergenza nazionale come quello che è stato creato: solo così si possono far accettare all’opinione pubblica provvedimenti come quelli sulle pensioni o sull’abolizione dell’art. 18, o sul definitivo allineamento di scuola e università alle esigenze del mercato con drastica riduzione dei finanziamenti pubblici (v. a tal proposito la proposta di legge Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti presentata all’inizio del 2012 per una sua discussione in Parlamento; per semplificazione la denominiamo Legge Aprea).
A questo punto, appare chiaro come il progetto scuola di ALTERNATIVA NON È COMPATIBILE con questo modello ultraliberista, né con analoghi modelli che, pur mimetizzandosi dietro linguaggi più accattivanti, convergono oggettivamente, su uno o più punti, con il “modello Aprea” in discussione.
Per scuola s’intende l’istituzione deputata a trasmettere da una generazione all’altra valori, saperi e memoria di una società, per i quali quella società esprime una forma di civiltà.
Questo è il compito dello Stato: Stato inteso nel senso autentico di attivo tutore del bene comune, come luogo di definizione e appartenenza delle giovani generazioni alla comunità nazionale, alla sua storia e ai suoi valori. Lo Stato del neoliberismo è lo Stato inteso come apparato da “mungere” per alimentare profitti e poteri locali. Da questo punto di vista il cosiddetto “modello lombardo” è quello che sperimenta le innovazioni più avanzate e quindi più distruttive: in Lombardia opera il potere delle imprese, del denaro, del peggiore localismo (Lega, Comunione e Liberazione con la Compagnia delle Opere di cui si veda il programma per la scuola) e infine Valentina Aprea, attuale (2012) Assessore all’Istruzione della Regione Lombardia.
Detto per inciso, discutere di scuola con tali riformisti neoliberisti è pressoché impossibile: si tratta di soggetti che fuggono da qualsiasi confronto che implichi un’analisi dei contenuti culturali da trasmettere alle nuove generazioni. Parlano soltanto di organizzazione (aziendale), di tecnologie e di competenze legate al mercato: quale sarebbe il valore aggiunto portato dalle tecnologie nella formazione culturale di un fanciullo, di un preadolescente e poi di un giovane? Parlare di cultura a tali soggetti è come discutere delle qualità del vino con gli astemi.
Per quanto riguarda poi il rapporto con le comunità locali, c’è da dire, sinteticamente, che la cultura, per definizione, è uscita dalla dipendenza dalla comunità locale.
ALTERNATIVA con ciò non intende di certo riproporre la scuola del passato, degli anni Settanta/Ottanta, perché quella era una scuola morta. Nell’epoca del totalitarismo neoliberista la scuola si deve aggiornare, ma nella prospettiva di rispondere adeguatamente alle esigenze formative di nuove generazioni condannate a vivere nell’orizzonte unico della tecnica e del mercato (Vedi sopra, Storia di uno sfascio epocale di Massimo Bontempelli). Quella di Alternativa è una proposta aperta a tutti i contributi che si muovano nella prospettiva della cultura e della formazione umana.
Crimini contro l’umanità
C’è anche un altro aspetto, tragico, e inconsapevolmente criminale, nelle proposte di riforma neoliberiste della scuola.
Lo storico Piero Bevilacqua, a conclusione di una dettagliata e rigorosa analisi sulle conseguenze che la superstizione del mercato, della competitività e della crescita hanno determinato a livello planetario, scrive (Miseria dello sviluppo, Laterza, Bari, 2009, p. 103):
“Lo sviluppo è il Grande Avversario. Il più potente produttore di ricchezza, il modo di produzione più rivoluzionario della storia umana, dopo tante incarnazioni, oggi mostra il suo volto finale: è diventato la macchina di distruzione più potente che sia mai apparsa sulla terra”.
A proposito della scuola (pp. 140-141):
“…Anche le istituzioni formative devono incorporare principi artificiali di gara, supremazia, vittoria, sconfitta…..Eppure, per secoli il merito culturale, anche dentro scuole e Università, non ha avuto certo bisogno di incentivi alla competizione per emergere. E a cosa porta un arricchimento culturale incentivato dal fine di prevalere sul prossimo? Perché il medesimo agonismo debba essere replicato più tardi all’interno dell’azienda, dove operai, tecnici e dirigenti dovrebbero guerreggiare reciprocamente per il bene dell’impresa? Anche sotto il profilo di questo fine ultimo, noi crediamo che si tratti di un delirio. È sulla cooperazione dei suoi membri che si regge qualunque impresa…… L’imperativo, ormai da tutti invocato, è uno solo:
<modellare la scuola secondo le esigenze della società>. Una perorazione eterna, com’è noto, che perde il suo antico significato positivo se nel frattempo la società si identifica con l’impresa e con il cosiddetto libero mercato. In realtà l’esigenza di rimodellare le strutture formative non è che il frustrante tentativo di piegare scuola e Università a un mercato del lavoro sempre mutevole”.
Viviamo in un frangente storico di eccezionale gravità: in questi trent’anni gli adoratori del mercato, dell’aziendalismo coatto, delle “competenze da spendere sul mercato”, dello sviluppo e della crescita ecc… hanno trascinato il mondo in una crisi che non ha equivalenti nella storia. Il dissesto ambientale, il clima, l’acqua, l’insolubile problema dello smaltimento dei rifiuti, il pericolo di folli guerre per la competizione mondiale, i giovani privati del futuro… Ebbene questi adoratori del mercato, ripropongono per la scuola (come per il lavoro, per lo Stato sociale e per qualsiasi dimensione umanamente pubblica e non mercantile) la medesima ricetta che ha portato il mondo alla rovina: ciononostante esigono che le imprese dettino i programmi alle scuole, che i giovani siano formati allo scopo di sviluppare competenze utili all’innovazione e a risolvere problemi “concreti”, anziché perdere tempo nell’inutile cultura disinteressata; che gli insegnanti (non si sa più di che cosa) siano assunti direttamente dalla scuola azienda in conformità al progetto di offerta formativa da vendere alle famiglie! Il vuoto culturale e spirituale di questi personaggi è assoluto. È giunto il momento di tracciare una netta linea di demarcazione e di trasformare ogni scuola e ogni università in una Val di Susa, per respingere quest’ultimo e definitivo assalto.
Gruppo Lazio di Alternativa
RIFLESSIONI SU SCUOLA E UNIVERSITÀ
Il ruolo del sistema educativo – La difesa del bene comune istruzione
Stiamo assistendo oggi, quasi inermi, all’ultimo attacco distruttivo mosso al sistema educativo pubblico italiano dall’attuale governo, attacco che si sferra senza praticamente alcuna resistenza da parte della cosiddetta “opposizione”. Anche se è palesemente assurdo che il sapere sia trattato alla stregua di una merce, il sistema italiano della formazione e della ricerca ha finito, nell’ultimo decennio, per adeguarsi al modello liberista, con l’approvazione dei governi sia di destra che di centro- sinistra. I governi di centro-sinistra hanno tentato, anche se con pessimi risultati e molte contraddizioni, un compromesso fra le istanze liberiste e il carattere pubblico del sistema formativo; i governi di centro-destra hanno perseguito con tenacia la distruzione del sistema pubblico e l’introduzione di una sua privatizzazione selvaggia. Il progetto è molto chiaro: smantellare la scuola e l’università pubblica, garantita dalla Costituzione Italiana nata dalla Resistenza, come mezzo per la creazione e la trasmissione della conoscenza intesa come bene comune. La scuola e l’università pubblica non vengono mai considerate come beni pubblici strategici, cruciali per il Paese in termini di sviluppo sociale, culturale ed economico, ma solo come centri di spesa, o perfino spreco, ai quali è necessario ridurre i fondi in modo sostanziale.
In tutti i tempi, il sapere e il saper fare, spesso spinti a livelli molto elevati, in ambito artistico, tecnico e scientifico, hanno rappresentato il valore distintivo che ha differenziato la specie umana dalle altre specie animali e reso possibile lo sviluppo della società tecnologica che oggi conosciamo. Nelle società contadine o tribali, con bassi o nulli livelli di alfabetizzazione, il sapere e il saper fare erano tramandati oralmente e informalmente, attraverso le famiglie e i contatti con le altre persone, mentre nelle società industrializzate il processo educativo è stato sistematizzato mediante l’istituzione di percorsi di formazione in scuole e università. Il complesso delle conoscenze, comunque esse siano tramandate, insieme all’intricata interazione neurale che si stabilisce tra esse, alla lunga e metodica elaborazione che porta a sedimentare i concetti e al confronto di questi nella comunicazione con altri individui, rappresenta quella che chiamiamo cultura della singola persona e che, quando estesa all’intera società, riconosciamo come identità di un popolo.
Nell’ultimo trentennio tuttavia, l’importanza dei mezzi di comunicazione di massa nel processo di formazione della personalità e della cultura delle persone ha finito per prevalere su quello della famiglia e della scuola. Con la sostanziale differenza che le conoscenze veicolate dai grandi mezzi d’informazione come la televisione, essendo
mediate dal mercato e ad esso quasi sempre finalizzate, finiscono per non essere neutrali, ma imposte dagli interessi dei potentati politici e commerciali. Certo, spesso la scuola è imperfetta e la famiglia può avere un basso livello culturale, e quindi trasmettere conoscenze fallaci, ma queste non arriverebbero mai ad essere intrise di falsificazioni e finalizzate al controllo della mente e della personalità, allo scopo di ridurre la persona a consumatore compulsivo e a cittadino ed elettore consenziente. Oggi più che mai è fondamentale avere un sistema educativo libero e pubblico che si riappropri del suo ruolo fondamentale nella formazione dei cittadini e che produca individui capaci di esprimere opinioni e fare scelte libere. Privatizzare il sistema educativo pubblico, significa recintare uno degli ultimi beni comuni rimasti e abbattere una delle ultime barriere che separano ancora l’individuo dal suo asservimento incondizionato al mercato.
Oggi più che mai è importante comprendere che il sapere, così come il lavoro, non può essere regolato dalle logiche del mercato, la cui mano invisibile del resto, non solo non riesce a garantire un’esistenza dignitosa alla maggior parte degli abitanti del pianeta, ma è arrivata a mettere a rischio la vita su di esso. La conoscenza, che da sempre ha rappresentato per l’uomo il bene supremo che da solo può arrivare a dare senso all’esistenza, è un bene comune del quale abbiamo oggi assoluto bisogno per affrontare le nuove sfide che i limiti dello sviluppo ci impongono. In un mondo sempre più popolato, sempre più avvelenato, con sempre meno risorse e sempre maggiore competitività, con rischi di guerra sempre più elevati, poter disporre di una base culturale ampia e non settoriale, per essere in grado di fare scelte libere e consapevoli, è divenuta condizione necessaria per la stessa sopravvivenza. Compito della scuola e dell’università è quindi mantenere elevato il livello culturale della società, fornire cioè alle persone il sapere nella forma più ampia possibile, perché siano cittadini in grado di scegliere ed esprimere opinioni. E questo sapere innescherà certamente il meccanismo virtuoso della propagazione oltre che, in alcuni casi, della generazione di nuovo sapere.
Nella visione liberista, scuola e università sono invece equiparate a impianti di produzione della forza lavoro e il sapere, specializzato e indirizzato ai vari settori d’interesse, è visto come puro fattore di produzione e come tale monetizzato. A partire dal 1992, dopo il trattato di Maastricht, i Programmi Quadro dell’Unione Europea fissavano come settori prioritari della ricerca quelli che erano d’interesse per lo sviluppo industriale. In altre parole, il complesso industriale avrebbe fornito alle istituzioni di ricerca le linee guida per perseguire lo sviluppo attraverso l’innovazione scientifica e tecnologica. Nel 1999 questa tendenza è apparsa ancor più chiara in occasione del “Processo di Bologna”, quando i ministri dell’istruzione dei Paesi europei si sono riuniti per discutere e approvare il “Piano dell’Istruzione Superiore”. L’Europa ha, in questa occasione, indicato agli stati membri un modello per la formazione e la ricerca scientifica e tecnologica, finalizzato alle esigenze dello sviluppo e del mercato, con il compito cioè di creare una forza lavoro e un sapere innovativo rivolti a soddisfare la domanda del sistema produttivo.
Questo sistema perverso forma l’individuo a misura delle esigenze contingenti dell’industria, ritagliando, senza ridondanze, i profili professionali con lo scopo di accorciare al massimo i tempi della formazione, riducendo simultaneamente il costo del lavoro. In questa ottica, l’istituzione scolastica o universitaria sono l’analogo esatto, applicato al sapere, del nastro trasportatore fordista, che sforna prodotti impacchettati per il mercato e, ovviamente, la precarizzazione degli insegnanti e la loro bassa retribuzione sono parte integrante di questo disegno. L’implementazione di un tale modello ha comportato in Italia profonde riforme a livello sia di scuola che di università, con una radicale revisione dei contenuti, delle tecniche d’insegnamento e di valutazione. Per i corsi universitari professionali, ad esempio, la cui durata con l’implementazione nel 2001 della riforma Berlinguer è stata ridotta del 40%, questo ha significato tagli indiscriminati ai contenuti delle discipline di base e l’inserimento, fin dal primo anno del corso di studi, di discipline professionalizzanti.
Tali interventi hanno trasformato le istituzioni di alta formazione e ricerca, che dovrebbero garantire l’unitarietà del sapere, all’origine stessa di “Università”, in imprese delle quali, mutuando un termine introdotto nel processo di Bologna, si misura il throughput cioè la quantità di studenti che entrano nel processo produttivo per anno accademico. I più fortunati dei quali, catapultati nel mercato del lavoro con un sottile spessore di conoscenze, potranno sì trovare impiego (più o meno precario), ma incontreranno difficoltà a riconvertirsi sui nuovi segmenti produttivi, imposti dalla rapida evoluzione della tecnologia, una volta che le superficiali conoscenze e i saperi appresi nel processo formativo accelerato, siano divenuti obsoleti. A questo punto, il datore di lavoro, agevolato in questo dalle leggi a favore della mobilità, non avrà che da rimpiazzare il lavoratore che ha maturato anzianità retributiva e perso produttività, con un giovane aggiornato e più economico. Quando, come avviene nella nostra società, le persone vivono gran parte del tempo isolate davanti a un computer o a un televisore e leggono pochissimo, una formazione a banda stretta, puntata agli obiettivi contingenti del sistema produttivo, non genera cittadini colti e consapevoli ma, per usare un’espressione di Marcuse, uomini a una dimensione, consumatori e lavoratori usa-e-getta, estremamente vulnerabili alle forti e rapide variazioni imposte dal mercato.
Dopo solo tre anni dall’impianto della riforma Berlinguer, è stata varata la riforma Moratti e in seguito, con i provvedimenti del ministro Gelmini, sono stati assestati altri duri colpi al sistema italiano della formazione e della ricerca. Come se tutto ciò non bastasse, le continue variazioni delle norme che regolano il funzionamento dell’offerta didattica universitaria e le innovazioni profonde del sistema di formazione, come il passaggio dai corsi di laurea a ciclo unico ai corsi di laurea triennali e biennali (specialistiche/magistrali), non hanno consentito che l’intero nuovo ciclo di studi fosse sperimentato nella sua completezza. Tempi più brevi e improvvisazioni sperimentali portano inevitabilmente alla destabilizzazione del sistema e inducono confusione e demotivazione in docenti e studenti, impegnati sempre più a districarsi negli aspetti formali imposti dai crescenti vincoli della
normativa.
Ciò che si è detto per la formazione, vale anche per la ricerca scientifica e tecnologica svolta presso le istituzioni pubbliche, universitarie e non: nella visione liberista, il finanziamento pubblico della ricerca rappresenta un investimento dello stato indirizzato non alla conoscenza, ma all’innovazione e allo sviluppo. Secondo questa visione quindi, tutta la ricerca di base è vista come voce di spesa improduttiva, da ridurre al massimo. Il finanziamento della ricerca dovrebbe invece essere slegato da immediate dinamiche economiche ed occupazionali e in nessun caso finalizzato alla sola ricerca applicata. La ricerca di base è il terreno di coltura indispensabile alla nascita di nuove idee, fondamentale per garantire il bagaglio di conoscenze necessario al raggiungimento di un elevato livello culturale e necessaria a creare innovazione industriale. La ricerca di base e la ricerca applicata non sono tra loro in contrapposizione, ma la seconda ha necessariamente bisogno della prima come bacino di idee e di conoscenze e devono essere quindi entrambe adeguatamente finanziate. Solo giovani preparati a confrontarsi con la ricerca di base su tematiche di frontiera acquisiscono la preparazione necessaria a svolgere attività di ricerca applicata nelle aziende che li assumeranno.
Le continue modifiche della legislazione in materia universitaria e la progressiva riduzione delle risorse statali, con conseguente estesa riduzione e precarizzazione del personale, stanno portando le università italiane verso il collasso finanziario e organizzativo. Nei prossimi anni il finanziamento delle Università e della Ricerca subirà ulteriori pesanti tagli, portando il sistema, già pesantemente sottofinanziato, al di sotto della soglia di sostenibilità. Se si riconosce che la società ha diritto alla conoscenza, è necessario che al sistema che la produce e la trasmette siano garantite risorse adeguate, almeno al livello della media europea, sia in termini di finanziamento che di personale. Questo obiettivo potrebbe essere raggiunto semplicemente con il recupero delle somme evase da pochi evasori totali, con le quali si potrebbe addirittura triplicare il finanziamento annuale della ricerca delle università statali, che attualmente è dell’ordine annuo di meno di 100 milioni di Euro.
La libertà d’insegnamento e di ricerca, sancita dalla Costituzione, non solo tramite l’esclusione di ogni condizionamento politico, confessionale e burocratico, ma anche attraverso l’effettiva disponibilità di strutture, finanziamenti e tempo per dedicarsi a queste funzioni, non è una prerogativa di ricercatori e docenti, ma è un diritto dei cittadini. È lo studente che ha diritto a insegnanti liberi; è la società che ha diritto a una ricerca libera. Una vera riforma dell’università deve perciò mettere al centro il diritto al sapere, come diritto al futuro per l’intera società. Va garantito un effettivo sostegno al diritto allo studio, non solo tramite un consistente numero di borse di livello economico sufficiente, ma soprattutto tramite l’effettiva disponibilità per tutti gli studenti di adeguate infrastrutture logistiche come alloggi, mense e trasporti, didattiche come biblioteche, laboratori e aule, nonché un accettabile rapporto docenti/studenti. Lo scenario che si sta prefigurando prelude invece alla trasformazione degli Atenei in fondazioni private, con la privatizzazione dei rapporti
di lavoro per tutto il personale, il conferimento dei beni dell’Università al nuovo soggetto privato e l’indeterminatezza degli organi di gestione degli Atenei, senza che si abbia più nessuna garanzia per la libertà di ricerca e di insegnamento. Si aggiunga a ciò l’inevitabile e forte aumento delle tasse universitarie, che provocherebbe un’ulteriore selezione classista ed una sostanziale riduzione del diritto all’accesso al sapere.

LE PROPOSTE
Alternativa, in quanto laboratorio politico-culturale, è in cerca di soluzioni per affrontare, in un’ottica realmente alternativa e rinnovata, il necessario cambiamento della scuola e dell’università italiane, prendendo come faro guida le idee basilari espresse al riguardo nel testo della Costituzione della Repubblica Italiana.
Presentiamo quindi due proposte che costituiscono due punti di vista non completamente sovrapponibili ma che sono state delineate dentro la stessa cornice così come è stata definita nella sezione “Le analisi”.
Premessa alla Proposta quadro di riforma della scuola pubblica statale
- La scuola moderna nasce in Francia, con la legislazione della Convenzione del 1792-95, e si diffonde in Europa tra l’ultimo scorcio del Settecento e i primi due decenni dell’Ottocento (in Italia con la legge Moscati-Paradisi del 1802), come istituzione nazionale, statale, laica, con il compito di fornire agli individui gli strumenti culturali per comprendere ed esercitare i diritti di cittadinanza. Questa è la concezione della scuola che, con contenuti e metodi ovviamente aggiornati all’orizzonte storico attuale, dobbiamo ancora oggi difendere in modo intransigente e coerente.
- Allo stato delle cose la scuola pubblica è tale solo formalmente: la cosiddetta “autonomia” ha trasformato ogni singolo istituto in modello privatistico-aziendale, così come, all’opposto, la scuola privata, è stata di fatto trasformata in scuola pubblica.
Al di fuori di un sistema nazionale della pubblica istruzione non rimane, entro le dinamiche integralmente capitalistiche della società attuale, che deculturizzazione di massa, passività mentale generalizzata, pragmatismo impoverito.
- La concezione di un sistema nazionale della pubblica istruzione traduce in pratica, a livello di scuola, il dettato dell’articolo 3 della Costituzione sui diritti egualitari della cittadinanza integrativi dei diritti universali dell’uomo tutelati dall’articolo 2: tale articolo esige la rimozione, da parte specificamente dello Stato (“è compito della Repubblica rimuovere”), degli impedimenti all’eguaglianza dei diritti dei cittadini ed alla loro partecipazione alla vita democratica del Paese. Tra gli impedimenti di natura sociale devono essere annoverati la deprivazione culturale prodotta da determinate condizioni ambientali, familiari, di reddito, urbane e di induzione pubblicitaria.
- Esistono oggi tendenze, nella sinistra anche radicale, a valorizzare innovazioni introdotte nella scuola negli ultimi decenni, non importa qui se reali o finte, con lo scopo dichiarato di rendere la scuola più democratica e al passo con i tempi: dall’autonomia dei singoli istituti alle valutazioni mediante test, dalle risposte ad esigenze puramente localistiche all’assunzione di tecnicismi spacciati per scientifici, dalla scomposizione dei gruppi classe a ventagli di nuove discipline attualizzanti e
via dicendo. La diffusione di queste idee nella sinistra, spesso con il vacuo argomento che il sistema nazionale della pubblica istruzione sarebbe “gentiliano”, è l’ennesima prova della necessità non più rimandabile di superare la dicotomia storicamente datata di destra-sinistra.
Una vasta letteratura ha ormai dimostrato il carattere illusorio di tali innovazioni e gli effetti destrutturanti sull’intero sistema. I fatti stanno comunque a dimostrare che, sotto la cascata di queste innovazioni, tutte le componenti della scuola e le sue dinamiche interne sono tragicamente peggiorate.
- Chi sostiene queste innovazioni, ritenendo che i loro effetti negativi siano dovuti al loro uso ministeriale, e che possano venire riempite da contenuti di progresso, opera inconsapevolmente per una scuola destrutturata, in funzione di un addestramento al consumo e non di un’educazione al pensiero.
- Quello per cui occorre battersi, cercando di mobilitare le forze disponibili dentro la scuola su pratiche di obiettivi, è una scuola di contenuti di vero spessore culturale la cui assimilazione da parte dei giovani consenta loro di decodificare dal punto di vista sociale, politico, antropologico ed esistenziale il mondo in cui si è chiamati a vivere; si tratta di diradare le nebbie spiritualmente asfissianti delle false narrazioni mediatiche dei poteri costituiti, e di superare gli schemi esplicativi precostituiti al sapere.
- A questo scopo la scuola, proprio perché diretta a nuove generazioni senza memoria collettiva, abitanti di una società senza radici, dovrà darsi un asse culturale di tipo storico: ciò significa la storicizzazione di tutti i suoi contenuti, non soltanto specificamente storiografici, ma anche scientifici, tecnici, artistici e letterari.
Per definire gli itinerari didattici di una simile storicizzazione occorrerà – come per tante altre questioni inerenti la scuola – un serio lavoro collettivo, culturale e politico. Alcuni spunti propedeutici a tale lavoro sono indicati nella Proposta di riforma che segue.
PROPOSTA QUADRO DI RIFORMA DELLA SCUOLA PUBBLICA STATALE
Per un’idea regolativa di scuola pubblica statale nazionale
Con questo scritto intendiamo proporre, anche attraverso l’indicazione di obiettivi concreti, la prospettiva entro cui a nostro giudizio hanno un senso la discussione e il confronto sui temi della scuola e della formazione della gioventù del nostro tempo.
Il disegno del sistema-scuola che tracciamo come auspicabile non è una possibilità concreta dell’oggi, dato che tutte le forze economiche e politiche dominanti, alleate con il prevalente senso comune, spingono in direzione opposta a quella qui indicata, ma serve ad indicare, appunto, la prospettiva entro cui muoversi. Quanti, magari
ritenendosi oppositori delle politiche scolastiche dei governi, condividono l’idea di senso comune che la scuola debba istruire i giovani a proiettarsi nell’agone competitivo, possono evitare la fatica di leggere quanto segue. Diversamente, con quanti concepiscono la scuola come luogo di educazione dei giovani attraverso il mondo del pensiero e della cultura, sarà possibile una feconda discussione.
Si potrebbe obiettare: se si ritiene che il disegno di scuola che segue non sia oggi concretizzabile, a che cosa serve parlarne? Serve a mantenere in vita un’idea regolativa di scuola pubblica statale nazionale. Il fatto che tale idea possa vivere oggi soltanto sul piano teorico, non ne depotenzia la forza, perché mantenere in vita un criterio di giudizio razionalmente fondato è l’unico modo per cogliere gli aspetti difettivi dell’attuale scenario scolastico (e non solo). Si potrebbe fare un’analogia con un’ipotetica riforma fiscale che realizzi davvero il dettato costituzionale promuovendo un’effettiva progressività del prelievo tributario. Anche in questo caso si tratterebbe di un’idea che oggi può vivere solo sul piano teorico, perché non ci sono le condizioni storiche per realizzarla. Nessuno, però, riterrebbe inutile mantenere in vita l’idea della necessità della giustizia fiscale, anche se esclusa dall’attuale orizzonte storico.
Sotto questo riguardo il mondo della cultura, gli intellettuali, gli insegnanti, e comunque quanti hanno a cuore il pensiero vivo e creativo, dovrebbero esser coscienti che la linea della resistenza (nel senso di preservare la possibilità di costruzione di un futuro diverso), passa anche attraverso la conservazione di idealità razionalmente fondate, anche quando queste sembrano del tutto oscurate dall’orizzonte storico.
Uno stupendo frammento di uno dei più grandi filosofi dell’antichità, Eraclito, vissuto anch’egli in un frangente storico in cui sembravano persi alcuni fondamentali valori della civiltà, e con essi la speranza di poterli rigenerare, ci ricorda che la giustizia e la verità spariscono definitivamente dall’orizzonte umano, non tanto a causa delle contingenze storiche che le oscurano, ma ad opera del pensiero che si arrende ai fatti, e che non cercando più né la giustizia né la verità le rende introvabili e quindi davvero irrealizzabili.
Un’ultima nota ad evitare equivoci e sterili discussioni. È diventato costume etichettare come difensore della “scuola tradizionale” chiunque critichi la “scuola delle riforme e dell’innovazione”, inaugurata da Luigi Berlinguer e portata avanti dagli ultimi governi di centrosinistra e centrodestra. Si tratta di una sciocchezza, ma è talmente in uso che merita di essere liquidata sia pure in due parole. Quella che si è soliti chiamare la “scuola tradizionale” era ormai giunta al capolinea, nel senso che in quella scuola i contenuti erano trasmessi in modo meccanico, arido, con formalismi insopportabili. Quella scuola, dunque, doveva essere radicalmente riformata, attingendo però i criteri della riforma dalla cultura e dal pensiero. Si trattava cioè di rivitalizzare la scuola culturalmente e didatticamente, guidati da idee forti. Come sono andate le cose ormai lo sappiamo: è stata imboccata la direzione opposta, attingendo i criteri della riforma da una sorta di aziendalismo caricaturale. Gli effetti
(ampiamente prevedibili e previsti) sono sotto gli occhi di tutti, e se mai si potrà uscire da questo immane disastro, non è certo riproponendo una scuola morta.
Il sistema scolastico
Tre ordini di scuola corrispondenti alle tre fasi dell’età evolutiva
Un valido sistema scolastico dovrebbe ancora oggi rimanere articolato nei tre ordini di scuola –elementare, media e superiore- sui quali sono stati originariamente edificati in Europa, sull’onda della Rivoluzione francese, i sistemi nazionali della pubblica istruzione.
Oggi, tutti dicono che la prima legge italiana sulla scuola è stata la legge Casati del 1859, che ha predisposto il sistema scolastico nazionale nella prospettiva imminente dell’Unità d’Italia. Non è così. La legge Casati attinge, oltre che al modello prussiano di scuola (che portava l’impronta di personalità della statura di Humboldt e di Hegel), alla legge Moscati-Paradisi del 1802, che per prima ha costituito un sistema nazionale della pubblica istruzione, concepito per la Repubblica italiana, uno dei nuovi Stati nazionali nell’ambito dell’Europa napoleonica. Essa, per prima, ha articolato la scuola in tre livelli successivi, corrispondenti a tre fasi dell’età evolutiva, caratterizzate da distinte strutture cognitive – che richiedono modi distinti e distinti contenuti di apprendimento- che non sono cambiate negli ultimi due secoli.
Dopo l’infanzia vera e propria c’è la fanciullezza ancora infantile, caratterizzata da un pensiero non in grado, se non scarsamente ed episodicamente, di superare nell’astrazione l’immediatezza delle percezioni e delle immagini; a questa fase corrisponde l’insegnamento elementare.
C’è poi una fanciullezza diversa, preadolescenziale, ancora emotivamente inglobata nelle dipendenze parentali, e quindi incapace di dislocarsi nella concretezza delle molteplici prospettive del mondo, ma vigorosamente capace di apprendere a compiere procedimenti astrattivi e a manipolare mentalmente entità formali; a questa fase corrisponde l’insegnamento medio.
Infine l’adolescenza, in cui le astrazioni mentali diventano capaci di calarsi nella concretezza del mondo per adattarla all’idea, e di agire come riferimenti di ridefinizioni identitarie; a questa fase corrisponde l’insegnamento superiore.
La funzione dell’esame di Stato al termine di ciascun ciclo scolastico
Ogni ciclo scolastico dovrebbe terminare con un esame di Stato affidato a esaminatori esterni, quale forma di pubblico controllo dell’effettivo raggiungimento delle finalità educative di quel tipo di scuola.
In questi anni l’idea “gentiliana” di esami di Stato conclusivi di ogni ciclo scolastico è stata oggetto di continui attacchi, con due argomentazioni sopra a tutte:
- è un’idea da superare per il solo fatto di essere “gentiliana” (e questo rivela l’acume dei critici);
- è un’idea da superare perché riflette un’idea di scuola selettiva, mentre la “vera” scuola è quella che porta tutti al successo formativo (“la scuola di tutti e di ciascuno”).
L’esperienza di questi anni ha mostrato il contrario: la mancanza di esami, finalizzati allo scopo di cui si è detto, si è tradotta nel favorire prassi didattiche che hanno reso più virulento quel classismo che si voleva eliminare. Se la scuola, infatti, fornisce titoli privati del loro valore sociale, se i suoi esiti sono espressione di percorsi parziali e incontrollabili, è inevitabile che accada quel che è accaduto, e cioè che la selezione si sposti a momenti successivi alla scuola ed alla stessa università, quando lo svantaggio dei ceti bassi è incolmabile, perché si misura sull’entità del patrimonio familiare e sul livello delle relazioni sociali che possono garantire l’accesso alle professioni.
Un asse culturale per la scuola elementare
La scuola elementare è quella da cui maggiormente dipende il successo o l’insuccesso dell’intero sistema di istruzione pubblica statale.
La scuola elementare (attualmente denominata “primaria”) è quella da cui maggiormente dipende il successo o l’insuccesso dell’intero sistema di istruzione pubblica statale. Sulla trasmissione di saperi e valori di una civiltà attraverso la sua scuola, oggi si esercita la doppia pressione destrutturante di un’economia del profitto socialmente totalitaria e di una tecnica universalmente pervasiva. Perciò, a parte l’eccezione di quei bambini che hanno la fortuna di vivere in un ambiente costruttivo e stimolante dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il depauperamento intellettuale e morale, prodotto su scala di massa dall’odierna società del mercato e della tecnica, diventa un destino inevitabile se non è vigorosamente contrastato dall’insegnamento scolastico a livello dell’istruzione primaria e dell’età infantile. Se l’insegnamento elementare non incide adeguatamente sui bambini, questi non saranno in grado di interiorizzare i contenuti della scuola media e ancor più di quella superiore; essi finiranno così per proteggersi da questa incapacità con l’indisciplina scolastica, la distrazione mentale e la reazione di rigetto per lo studio.
Quindi, soltanto degli individui che hanno ricevuto un’educazione elementare solida e strutturata sono in condizione di ricevere l’insegnamento medio e superiore. Detto in altri termini, nel mondo di oggi, se l’istruzione elementare non consegue i suoi scopi, nessuna scuola funziona come scuola.
Le quattro condizioni necessarie perché la scuola elementare possa assolvere il suo compito educativo
La scuola elementare può assolvere il suo compito di educare all’apprendimento, se sussistono queste quattro condizioni.
- In primo luogo la sua massima valorizzazione sociale, per riceverne sufficiente prestigio e cogenza agli occhi dei bambini, così da disporre positivamente la loro attenzione verso l’impegno per il sapere, a fronte della forza invasiva delle immagini televisive, dei giochi tecnologici e dell’addestramento al consumo.
Non si può, però, fare opera di valorizzazione della scuola elementare senza richiedere ai suoi insegnanti un alto profilo professionale, e senza aver aumentato le loro retribuzioni, più dei professori medi e superiori, come riconoscimento della maggiore difficoltà e dell’importanza strategica dell’insegnamento elementare.
- In secondo luogo occorre che i bambini frequentino la scuola con orari prolungati, necessari a darle un effettivo peso per riequilibrare i dislivelli nelle capacità espressive e di apprendimento dovuti alle diverse provenienze sociali, di classe e di famiglia. Ciò esige, naturalmente, una scuola che offra strutture coerenti con la realizzazione di questo programma, quindi mense, spazi, e ambienti che aiutino il bambino a sviluppare le proprie potenzialità in relazione con gli altri.
- In terzo luogo la scuola elementare esige la figura di un vero professionista che educhi al movimento e allo sport: nuotare, correre e muoversi nel modo corretto richiede allenamento costante sotto la guida di ottimi insegnanti. Il movimento, per i bambini, è necessario come l’aria: i fondamentali dell’educazione fisica devono essere interiorizzati in questa fascia di età. Non solo: un’adeguata attività sportiva è necessaria oltre che per lo sviluppo equilibrato del corpo, anche perché abitua alla corretta elaborazione di emozioni come l’aggressività e la competitività, al rispetto delle regole del gioco e dell’avversario, alla collaborazione con i propri compagni nel caso degli sport di squadra.
I finanziamenti per avere scuole elementari dotate delle necessarie strutture sportive (piscine vere, palestre vere, impianti veri) si potrebbero recuperare con il risparmio che ne conseguirebbe sulle spese sanitarie destinate a curare le tante patologie causate dal pessimo stile di vita cui i bambini sono oggi costretti, sia sui banchi di scuola, sia negli ambienti cittadini. La valorizzazione sociale e il tempo lungo di frequenza sono essenziali perché la scuola elementare assolva il suo compito, ma lo sono come presupposti, come condizioni.
4) La realizzazione degli scopi educativi della scuola elementare esige una quarta condizione, fondamentale, e cioè un asse culturale di tipo linguistico, finalizzato al pieno possesso della lingua materna in tutti i suoi aspetti e usi.
La filosofia, infatti, ha dimostrato che il rapporto dell’individuo con le radici storiche costitutive del suo essere è in origine un rapporto immediato, anteriore a ogni conoscenza e riflessività, e che tale immediatezza è il linguaggio. Il bambino umanizza la sua iniziale animalità incorporando in sé la storia da cui proviene attraverso l’apprendimento della lingua in cui quella storia è condensata: la lingua parlata dall’individuo è inizialmente la sua storia non conosciuta che parla in lui. Prima di arrivare a pensare usando creativamente il linguaggio, l’individuo non pensa che il pensato del linguaggio. Prima di arrivare a elaborare con il linguaggio schemi e valori, manifesta schemi e valori espressi dal suo linguaggio: le lacune, le opacità, le strettoie nell’articolazione del linguaggio non superate nell’infanzia sono elementi frenanti o addirittura preclusivi di tanti apprendimenti nelle età successive.
Le scelte didattiche conseguenti al presupposto teorico
In conformità a questo presupposto teorico si dovrebbe comprendere il perché la scuola elementare non dovrebbe disperdere le attività dei bambini in troppi rivoli, ma concentrarsi sul far imparare la lettura, la scrittura, le regole grammaticali, la ricchezza del lessico, l’uso corretto della sintassi, elementi di logica e di retorica, la capacità di descrivere e riassumere fatti ed esperienze, la capacità di seguire e produrre narrazioni. Tutto questo attraverso attività scolastiche di esplorazione dello spazio, di gioco, di discussione, di recezione di racconti storici, o mitologici, o letterari. La scuola elementare dovrebbe insomma garantire a tutti i bambini della nazione il pieno possesso della lingua materna, perché solo questo possesso è la condizione per continuare ad evolversi mentalmente.
Un asse culturale per la scuola media
Scopo educativo della scuola media: lo sviluppo della capacità astrattiva formalistica
La scuola media corrisponde a una fase successiva dell’età evolutiva, quella in cui l’ancoraggio immediato al linguaggio proprio dell’infanzia tende a trasformarsi nella manipolazione mentale dei suoi simboli, astratti dal contesto concreto in cui sono dati. Questa corrispondenza indica per se stessa il compito educativo naturalmente proprio di una scuola media: lo sviluppo della capacità astrattiva formalistica, produttrice di quelle entità che la filosofia ha definito universali astratti. Si tratta di una capacità cognitiva assolutamente fondamentale, perché, pur non coincidendo né con lo spirito critico né con la creatività mentale, ne è la condizione di base. D’altra parte, pur essendo insita nella preadolescenza una tendenza mentale al passaggio da una conoscenza meramente sensibile a una conoscenza astrattiva, tale tendenza, lasciata alla sua evoluzione spontanea, si sviluppa poco e male. Per questo il suo
sviluppo deve essere assunto come compito strategico di una scuola rivolta a quella fascia di età.
Un asse culturale che privilegi le materie che educano all’astrazione e al ragionamento logico
Definito lo scopo educativo della scuola media, ne discende che è la matematica la disciplina più educativa che deve dettarne l’asse culturale: il suo insegnamento dovrebbe essere meno noioso e pesante possibile, ma ad esso andrebbe dedicata una quota importante delle ore di lezione, riducendo drasticamente la dispersività assurda degli odierni contenuti che caratterizzano la scuola media.
Attorno alla matematica dovrebbero esserci poche materie importanti. La prima, per importanza, dovrebbe essere la geografia dell’Italia, dell’Europa e del mondo, fisica, politica e astronomica. Si tratta di un indispensabile strumento di apprensione mentale della realtà, utile e possibile come educazione all’astrazione rispetto alle esplorazioni concrete della scuola elementare, e prerequisito di ogni conoscenza antropologica successiva. Una simile geografia è infatti costituita da nozioni, disegni cartografici, quantificazioni e connessioni cui si giunge soltanto medianti procedimenti astrattivi dall’esperienza sensibile (sapere che cosa è un fiume è ben più che vedere scorrere sotto i propri occhi le acque del fiume che attraversa la città; capire che cosa è la densità di popolazione di una città è ben più che percepirne l’affollamento durante una passeggiata ecc.).
In questa prospettiva si potrebbe discutere anche l’opportunità di inserire il latino: a suo tempo soppresso perché discriminatorio, potrebbe non esserlo più se studiato dopo una scuola elementare rigenerata. Come lo studio della geografia ben fatto opera sinergicamente con l’apprendimento matematico nel promuovere lo sviluppo della capacità astrattiva, altrettanto il latino promuove lo sviluppo delle facoltà astrattive, è propedeutico al ragionamento logico, ed è dotato di forza di retroazione nella conoscenza della nostra lingua (che deve essere stata adeguatamente assimilata alle elementari). La questione del latino dovrebbe comunque essere discussa, senza pregiudizi.
La scuola media è quella più adatta per un primo insegnamento di una lingua straniera.
Attività sportiva tassativamente non agonistica
Per quanto concerne lo sport, il discorso è analogo a quello svolto per la scuola elementare, ovviamente adattato alle esigenze dello sviluppo fisico di questa fascia di età, e organizzato con modalità tassativamente non agonistiche.
È utile ricordare come l’assimilazione dei principi di una vera pratica sportiva oltre ad essere determinante per il benessere dell’individuo, rappresenti la via più logica,
utile e lungimirante per ridurre una gran quantità di patologie sociali con gigantesco risparmio in termini di spese farmaceutiche e più in generale di spesa sanitaria. Viene, legittimo, il dubbio che sia proprio questo ciò che si vuole evitare: quello che per noi è benessere e riduzione di spesa, dal punto di vista dei tanti soggetti che operano con logiche di mercato in ambito sanitario è, al contrario, “malessere” e contrazione dei profitti. Del resto, viviamo in un contesto sociale in cui ci si indigna se uno stadio di calcio non ha strutture ipermoderne, ma non ci si indigna quando i propri figli trascorrono la parte più importante della loro giornata e della loro vita in edifici le cui condizioni dovrebbero essere percepite come una vergogna nazionale.
Un asse culturale per la scuola superiore
L’adolescenza è l’età più a rischio in una società integralmente costruita intorno alla logica del mercato
La scuola superiore è la scuola frequentata dagli adolescenti. L’adolescenza è l’età della ridefinizione identitaria, dei problemi relazionali, dell’ansia esistenziale, dei bisogni ideali. Ed è, quindi, l’età più a rischio in una società integralmente costruita intorno alla logica del mercato e alle prescrizioni della tecnica: una società che sottomette identità, relazioni, elaborazioni e progetti a stili di vita decisi dalle convenienze aziendali e appiattiti sul consumo.
La storia è la disciplina adatta a costituire l’asse culturale di una scuola superiore
Per ritrovarsi e dirsi chi è e cosa vuole, l’adolescente deve riannodare mentalmente i contenuti della propria esistenza a un contesto globale che contiene le loro ragioni generative, cioè ad una storia. Senza una storia di riferimento, tutto è dato senza significato alcuno. La storia è trattenuta dalla memoria, per cui la sua appropriazione mentale è la ricostituzione di una memoria delle radici oggi di vitale importanza, perché minacciata di estinzione da un mondo fatto del solo presente delle cose da consumare e manipolare.
La storia dovrebbe costituire dunque l’asse culturale di una scuola superiore che sia veramente tale, in tutti gli indirizzi in cui la si voglia ripartire. Ciò significa che tutte le discipline di studio superiore, dalla letteratura alla filosofia, dalla fisica all’arte, dall’informatica alle scienze, dovrebbero essere insegnate in modo tale da poter essere collocate nella storia e comprese sotto l’aspetto storico. Senza il tessuto connettivo concettuale costituito dalla storia, l’isolamento settoriale e specialistico in cui sono costituite le discipline odierne le rende dispersive e dogmatiche.
Alcuni esempi
Se nell’insegnare la geometria euclidea, si spiegasse come il suo artefice, Euclide, ne abbia derivato il metodo deduttivo dall’Accademia platonica, basandolo sulla priorità di assiomi che per Platone erano teoremi derivabili dall’idea assiologica, con questa contestualizzazione storica si collegherebbero matematica e filosofia, e si problematizzerebbe il discorso scientifico aprendolo a nuovi possibili significati.
Se si parlasse del computer in modo storico e non soltanto tecnico, lo studente non sarebbe addestrato a un uso puramente meccanico e criticamente ottuso del computer, ma nella sua mente si connetterebbero, attorno al computer, economia, tecnologia, guerra e politica: gli andrebbe infatti spiegata una storia di scoperte tecnologiche dal transistor, al microprocessore, al modem, una storia delle lotte di mercato da cui sono nati i personal computer ed i software, una storia di Internet dalle sue origini militari ed universitarie ai suoi usi commerciali e di speculazione finanziaria. E via dicendo. La formazione di una memoria storica è oggi l’unico luogo possibile di apertura al senso critico, di un rapporto mentale non passivo con la società e con la vita.
Del resto l’abbandono del punto di vista storico nell’insegnamento della filosofia e della letteratura italiana non ha dato buoni frutti, com’era logico aspettarsi; le stesse discipline scientifiche dovrebbero essere in certa misura storicizzate. La storia come disciplina scientifica, articolata in storia etico-politica e socio-economica, sarebbe il primo antidoto contro la perdita della memoria nazionale e sociale.
Anche nella scuola superiore deve essere riservato uno spazio significativo allo sport, portando a compimento il lavoro impostato nei cicli precedenti, mantenendo quindi i caratteri non agonisti, ma funzionali all’assimilazione di un sano stile di vita e al piacere dell’interazione con gli altri attraverso i giochi di squadra. Palestre, piscine, spogliatoi, docce, attrezzi… e quant’altro devono diventare la norma e non l’eccezione. Il tutto gestito da personale qualificato e ben remunerato.
[Questo documento è stato redatto da Massimo Bontempelli (recentemente scomparso, docente di storia e filosofia a Pisa, saggista e autore di manuali di storia e filosofia, e autore tra l’altro, de L’agonia della scuola italiana, Editrice C.R.T., Pistoia, 2000) e da Fabio Bentivoglio (autore, tra l’altro, de Il disagio dell’inciviltà, Editrice C.R.T., Pistoia, 2000]
Premessa.
Una piattaforma politica che indichi un progetto scuola esaustivo è cosa estremamente complessa e richiede il contributo di varie competenze. Di seguito riportiamo solo alcuni punti che, a nostro giudizio, dovrebbero trovar posto in qualunque riforma della scuola che faccia riferimento alla democrazia, alla laicità, in una parola: alla nostra Costituzione ed al suo articolo 33.
È importante sottolineare che il lavoro intellettuale e manuale hanno esattamente la medesima dignità. La squalificazione del lavoro manuale è un portato di Platone e del suo giudizio sulla società di schiavi e di tutto l’idealismo. Il continuare oggi la denigrazione del lavoro manuale è frutto della società del capitale che tende a ricostruire sotto differenti spoglie e con molto belletto la società schiavista.
La scuola in un Paese democratico deve essere pubblica con garanzie di gratuità attraverso un sistema di borse di studio “a priori”, borse che decadono in caso di insuccesso scolastico. Ciò vuol dire che la scuola ha dei costi elevati per l’intera società: edilizia, strumentazione, salari di insegnanti, di personale tecnico, di personale ausiliare, il sistema delle borse di studio. Segue subito che non è lecito sperperare il denaro pubblico e quindi che occorre rendere il sistema efficiente rispetto alle finalità che si vogliono ottenere.
Le finalità generali della scuola sono quelle di formare dei cittadini in grado di capire la società in cui vivono, di comprenderne la storia ed il pensiero, di apprendere metodi e conoscenze in grado di incidere sulla realtà circostante anche con la formazione di conoscenze per inserirsi nel mondo del lavoro.
La scuola è divisa in cicli sia in senso verticale che orizzontale. Nella divisione orizzontale non vi sono cicli più qualificati o qualificanti di altri. La scuola è obbligatoria e gratuita fino al 18-esimo anno di età.
I vari ordini di scuola devono avere differenti finalità. I programmi di insegnamento dovranno avere carattere nazionale.
La scuola dell’infanzia è fondamentale per la formazione dei futuri cittadini. Essa non è un parcheggio e non può essere delegata a privati e/o ad enti confessionali ma necessita di tutte le risorse che permettano ad essa di svolgere appieno la sua funzione di prima socializzazione.
La scuola elementare, la più complessa e delicata, deve permettere al piccolo che vi accede un approccio guidato alla socializzazione, al rispetto degli altri, alla conoscenza in senso molto lato del mondo esterno, di regole e rapporti interpersonali. Ogni spazio ad ogni creatività e manualità non deve essere precluso. La scuola elementare deve far uscire ragazzi in grado di saper leggere, scrivere e far di conto, oltre ad aver imparato una seconda lingua (che dovrà seguire ad essere praticata per tutto il ciclo di studi, purché sia lingua e non letteratura !).
Il lavoro scolastico deve prevedere il passaggio graduale dal ragionamento concreto ad una prima fase di quello astratto attraverso l’apprendimento di metodi di lavoro che inneschino una dialettica tra mani e cervello e che stimolino tutte le capacità che in questi anni cruciali vengono sviluppate da giovani menti. Occorre utilizzare strumenti che permettano all’individuo lo sviluppo delle proprie abilità mentali. In questo senso l’imparare a memoria brevi brani, il fare riassunti, l’esercizio di analisi logica e grammaticale, sono ritenuti utili allo scopo.
Ma già dall’attuale buco nero della scuola media occorrerebbe che gli insegnanti tentassero di cogliere sempre più la personalità del giovanetto ed aiutarlo a capire meglio dove i suoi interessi lo indirizzano. I programmi devono iniziare a diventare importanti, le regole devono diventare più strette, la responsabilità del lavoro scolastico deve essere insegnata ed iniziata a praticare.
Una questione deve essere ben presente a tutti. Occorre recuperare quelle pratiche stupidamente e colpevolmente abbandonate per la loro funzione educativa complessiva. Occorre riprendere il riassunto, l’imparare a memoria una poesia, l’analisi logica e grammaticale, fino allo studio del latino o del tedesco. Queste cose non sono dovute a qualche fissazione speciale ma ad un progetto educativo che dia uno spazio adeguato nella scuola alle discipline strutturate. Oggi ci troviamo con la sola matematica (con la geometria) come unica disciplina in cui funziona la propedeuticità e l’insegnamento strutturato. Ciò comporta che tutte le discipline meno la suddetta lavorano sul racconto, sulle parole spesso mai ben comprese perché ripetute in modo facile, senza un impegno profondo nella loro comprensione. Il risultato è che nei consigli di classe vi è quel fissato di matematica che chissà cosa vuole dagli studenti che, poveretti (i famosi vasi di coccio), ce la mettono tutta. Se lo studente è sollecitato da più discipline strutturate (matematica, italiano con quelle parti che sono state cassate e che ricordavo, lingua latina o tedesca che funzionano in modo simile), apprenderà meglio un metodo di lavoro impegnativo ed altamente formativo (indipendentemente se da adulto ricorderà o meno il Teorema di Talete). Il
consiglio di classe vedrà più insegnanti parlare con più dettagli degli apprendimenti dello studente non essendovi più il fissato ma un gruppo di insegnanti che fanno lo stesso lavoro.
A questo punto si può discutere di un primo biennio che sia già orientativo verso un secondo biennio decisamente d’indirizzo (con eventuali opzioni per fare contenti i genitori sindacalisti dei propri figli, cosa della quale dirò più oltre). Dopo questi due bienni vi è un ultimo anno che chiamo COU che vuol dire Corso di Orientamento Universitario che chi non segue con l’università non deve frequentare. Al COU si fanno solo quelle discipline immediatamente funzionali agli studi del corso o corsi di laurea verso i quali uno si avvia (il COU non è per una sola facoltà ma per un gruppo di facoltà, ad esempio scientifiche dure, scientifiche, umanistiche, storiche, …).
È importante sottolineare che qui non ci deve essere nessun altro oltre lo Stato. I genitori, una volta aiutati i figli nelle scelte dei figli, non devono interferire in scelte didattiche che competono solo ai professionisti della scuola quali sono gli insegnanti. Le valutazioni sono su ciò che si è fatto secondo gli obiettivi di studio costruiti a margine di programmi NAZIONALI. Le vie personalizzate, i percorsi, o cose consimili devono essere eliminate. Si studiano dovunque, in Italia, le stesse cose con sempre maggiore rigore perché la scuola è faticosa per i ragazzi (e per gli insegnanti) ma non sono ammesse scorciatoie. Andare su quest’ultima strada ci può far felici al momento ma dobbiamo sapere che danneggiamo gravemente i ragazzi.
In questo percorso lo Stato deve accertarsi che TUTTI gli studenti siano garantiti con identiche opportunità. Ma lo Stato qui smette di essere caritatevole sulla volontà mai repressa di gioco e divenire selettivo. La parola non deve spaventare chi crede nel valore legale del titolo di studio e crede (si augura) che i migliori divengano classe dirigente di un Paese che non ha avuto le splendide scuole nate dalla Rivoluzione Francese che continuano ancor oggi a formare un ceto dirigente di altissimo livello.
La scuola media certamente va riformata nel senso che deve costituire la chiusura di un ciclo (insieme alle elementari) con il fine di fornire agli studenti ogni materiale che definisca il mondo esterno, le sue leggi, i diritti ed i doveri di cui un cittadino soffre e gode. Nel contempo deve rappresentare la base concettuale e nozionistica per chi intende proseguire gli studi nei due bienni suddetti (che potrebbero passare dal 2 + 2 all’ 1 + 3).
Il primo biennio serve ad orientare il ragazzo a scelte successive. Il metodo di lavoro dovrebbe essere quello che, a lato della probabile conquista della fase astratta del pensiero dei giovani, parta da un approccio il più possibilmente sperimentale per sganciarsi via via da esso ed acquisire appunto il passaggio dalla capacità di ragionare legando cosa a cosa alla capacità di ragionare legando concetto a concetto. Non vi è ancora una fase d’indirizzo di studi. Il secondo biennio è molto più d’indirizzo su un blocco di discipline che sia stato scelto dallo studente. Nel dire questo occorre sottolineare la necessità che formazioni centrate su
specialisti, non servono ancora a nessuno. La completa maturazione e capacità di operare in modo flessibile, nascono non da preparazioni specialistiche ma abbastanza logicamente indeterminate.
Coloro i quali arrivano all’ultimo anno di scuola superiore hanno due strade: o COU o Scuola Tecnico-Professionale. Del COU non dico altro perché si inserisce nella stessa struttura di lavoro duro e faticoso di cui dicevo prima. La Scuola Tecnico-Professionale deve invece essere tolta di mano a tutti coloro che l’hanno gestita fino ad ora che non hanno avuto interesse nel futuro dei ragazzi facendo lucrosi affari (scuole gestite dal sindacato e scuole confessionali). La scuola deve essere di alto livello con allo studio gli argomenti più avanzati, con la fornitura di laboratori attrezzati in tempo reale di ogni strumento atto alla formazione, con cambiamento rapido di programmi quando nuove produzioni, scoperte … entrano in gioco. È chiaro che una scuola di questo tipo dovrà tenere conto delle produzioni che hanno storicamente luogo in quella regione (chimica, meccanica, ottica, …) e che potrà servirsi (aiuto reciproco) all’ultimo anno di stage in azienda e/o fabbrica (dove esistono) come anno “abilitante”. Lo stage deve poi essere strumento che dà un punteggio molto elevato per l’assunzione.
La scuola deve educare inoltre alla cittadinanza attiva e responsabile, dando strumenti per interpretare la realtà (il reale è interpretabile e quindi si può intervenire su di esso per trasformarlo) e per comprendere il proprio ruolo all’interno della società. Occorre fornire agli studenti tutti i linguaggi di decodifica della realtà (comune, matematico, grafico, statistico, simbolico, musicale, …) convincendosi che non è necessario fornire tutto lo scibile e che non devono esservi argomenti tabù: in questo senso è fondamentale il metodo di studio, appreso il quale ognuno sarà in grado di costruirsi da solo il suo sapere (imparare ad imparare). In questo senso la scuola diventa un laboratorio aperto non solo agli studenti ma alla comunità che serve. I suoi spazi, le sue biblioteche, i suoi laboratori, la sua aula di lingue e di informatica, i suoi tecnici di laboratorio e di informatica, i suoi insegnanti devono poter essere fruibili dai cittadini.
Attenzione alle frasi orecchiate come “la formazione lungo tutto l’arco della vita” (Long Life Learning) perché sono termini dei vari poteri forti (OCSE, WTO, ERP, Confindustria…) ed hanno un significato diverso da quello accattivante che si percepisce ad una lettura disattenta e che, in definitiva, suonano bene ma sono una grande fregatura. La frase è solo uno slogan perché dietro il long life learning si cela un elemento chiave: la flessibilità. E per di più intesa come flessibilità totale: cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, cambiamenti di posto di lavoro, adattabilità del lavoratore, modalità di certificazione delle competenze del lavoratore. Quest’ultimo aspetto, a sua volta, col duplice scopo di facilitare le assunzioni o l’idea che basti poco per averle e di privilegiare l’idea di una preparazione efficace piuttosto che una preparazione efficiente, di una scuola efficace
più che ben funzionante. Basta poi osservare che quel Long Life Learning è il nucleo guida della TreeLLLe, quell’organizzazione legata ai poteri economico-finanziari forti italiani che, da dietro le quinte, dirige la scuola italiana.
Per capire quale scuola oggi è nella mente del sistema di potere basta leggere la sintesi Maragliano del 1997 (il documento che presentava la scuola di Berlinguer, vera controriforma che ci metteva in mano al liberismo sfrenato) dove, in un contesto in cui si auspica una scuola che non sa di scuola, dice:
Si tratta di utilizzare e valorizzare le forme dell’apprendere proprie del mondo esterno alla scuola, sviluppando il senso di responsabilità e di autonomia che richiede il lavoro, le capacità etiche ed intellettuali di collaborazione con gli altri, la pianificazione per la soluzione di problemi concreti e la realizzazione di progetti significativi (competenze di tipo trasversale da promuovere nella scuola e nell’educazione permanente). In questo quadro andrà particolarmente valorizzato il rapporto costruttivo fra scuola, comunità locali, mondo produttivo.[…]
L’istruzione e la vita famigliare dovrebbero essere maggiormente connesse che nel passato. Al momento non poche famiglie entrano nella scuola quasi solo per ricevere notizie sul rendimento e sul comportamento dei figli. La formale “democratizzazione” della scuola, attraverso la partecipazione dei rappresentanti dei genitori, ha mostrato, nella forma attuale, molti e preoccupanti elementi di debolezza.
È dunque necessario ripensare il legame fra scuola, famiglia e società civile, in termini più concreti, dove la scuola sia parte attiva delle moderne collettività urbane. Il mondo del lavoro, del volontariato, delle religioni, dei gruppi ambientalisti, della cultura, dovrebbero tutti penetrare nella scuola, ed essa a sua volta dovrebbe volgersi verso l’ambiente esterno attraverso associazioni scolastiche, e iniziative varie. Dibattiti e discussioni, rigorosamente preparati, sono strumenti cruciali, anche all’interno del gruppo classe, per la creazione di quel “mettere in questione” e di quella autonomia intellettuale che idealmente formano le basi di una moderna società civile. […]
Far sì che la scuola metabolizzi progressivamente una nuova cultura del lavoro significa investire su due fronti: l’orientamento e la proposta formativa. Per il primo fronte, si tratta di introdurre nella didattica alcuni contenuti innovativi propri di questo nuovo approccio: il superamento della “cultura del posto” a vantaggio di una nuova visione delle opportunità e delle professioni; la cultura della flessibilità attraverso la conoscenza delle nuove forme di organizzazione dei processi lavorativi; le nuove forme del lavoro, da quello autonomo a quello artigianale, a quello atipico; la preparazione all’autoimprenditorialità. Per il secondo, considerata la maggiore velocità di
trasformazione dei processi strutturali rispetto a quelli culturali, il problema più urgente è di por mano all’impianto metodologico della scuola: è in gioco non solo una questione di contenuti, ma anche e soprattutto una questione di metodo di studio e di impegno umano.
E ciò in pieno accordo con la Legge Bassanini che recitava:
l’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente, anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell’unitarietà del gruppo classe e delle modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali.
Ci si deve convincere che una scuola di massa non può essere un’opera Montessori. La scuola della Repubblica non può lavorare per favorire il successo formativo seguendo studente per studente nelle sue voglie momentanee sganciandolo da una finalità educativa comune.
Si deve prendere atto che gli insegnanti, una volta reclutati con prove serie sulle discipline e non sulle psicopedagogie che vanno bene fino alle elementari, sono dei professionisti che si organizzano nei consigli di classe, nei gruppi di materie, nel collegio docenti nell’ambito di PROGRAMMI NAZIONALI, dai quali si potrà prevedere un’uscita al massimo per un 10% del tempo scuola.
Gli insegnanti dovranno essere valutati sulle loro discipline solo da altri insegnanti che siano o siano stati per vari anni in servizio attivo. Le psicopedagogie non sono in grado di offrire valutazioni efficaci. Un formidabile strumento di valutazione periodica è la relazione che deve essere fatta (e letta dagli organi competenti) dal commissario di una data disciplina in ogni sessione di esame.
Una scuola del “volemose bene” è il peggio che possa essere offerto a delle persone in fieri. Occorre dare il meglio ed il meglio si dà con un impegno continuo al fine non già di andare dietro alle svogliatezze ma di eccitare la voglia di conoscere lavorando duramente e con fatica.
Un problema a margine è che per fare questo servono dei docenti motivati e l’attuale regime di salari, di inutile burocrazia cartacea, di denigrazione continua non aiuta.
Sugli insegnanti, oltre al problema della valutazione degli studenti, vi è un discorso più complesso da fare in questa fase contingente di
totale disinformazione sul sistema scuola sul quale tutti credono di poter intervenire solo perché sono andati a scuola a suo tempo.
Cerchiamo di essere chiari su alcuni punti che prevedono anche qualche competenza esterna non consolatoria. Intanto occorre convincersi che la libertà di insegnamento deve coniugarsi con la condivisione di un progetto. In classe tutti dovrebbero avere analoga posizione nei riguardi degli studenti, ad evitare che delle discipline divengano di rifugio mentre altre continuano da spauracchio. Vi è quindi un ambito che va al di là della disciplina in cui dovrebbe essere benvenuto un personaggio che non rappresenti alcun mercato tra discipline e qui, e solo qui, sarebbe utile l’intervento di un pedagogista.
Altra questione è la diffamazione dell’insegnante, dalla media alla secondarie di secondo grado, che non lavorerebbe come ogni altro lavoratore. Non vedo difficoltà a pensare ad un orario di lavoro di 36 ore a settimana, ore nelle quali si farebbero a scuola tutto ciò che ora si fa a casa. Dopo aver fatto le consuete 18 ore di insegnamento frontale, avrò una scrivania, userò del computer e di internet della scuola, userò della biblioteca, della fotocopiatrice, del telefono/fax della scuola, userò l’energia elettrica ed il riscaldamento della scuola (tutto questo oggi è a carico mio e tutti sapete quanto costa). Inoltre mi libererò di quei 16 metri quadrati di casa occupati dalle “pratiche” scolastiche. Questa organizzazione scolastica ci farebbe diventare operatori culturali al servizio del quartiere in un edificio dello Stato finalmente da utilizzare a tempo pieno: noi potremmo aiutare gli studenti in difficoltà, potremmo consigliare bibliografie, organizzare dibattiti, conferenze. Se si passasse a quelle 36 ore si scremerebbe la scuola da coloro che l’hanno scelta come secondo lavoro per avere poi tempo comunque in casa. Ad esaurimento, occorre introdurre il part-time: coloro che non vogliono fare le 36 ore nella scuola seguono con questo salario e con il lavoro che fanno ora. Gli altri vanno a salari europei (includendo quella cosina di cui nessuno parla: in tutti i Paesi europei si fa l’anno sabbatico!). Quando i dimezzati saranno tutti pensionati, nella scuola entreranno solo coloro che la scelgono come professione. Così potrà tornare ad essere un primo lavoro che riqualificherà la scuola e permetterà ad un insegnante di mantenere degnamente la propria famiglia (perché anche di questo si tratta!).
Le valutazioni degli studenti devono essere fatte dagli insegnanti sugli obiettivi generali della scuola e su quelli didattici della disciplina. Possono esservi interventi esterni ma non debbono modificare i piani di lavoro e di studio, le abilità richieste da altri possono non corrispondere ai fini che la scuola della Repubblica si è proposti. L’insegnante deve valutare ciò che lo studente ha appreso, né più né meno. Non devono interferire nella valutazione giudizi esterni alla medesima. Lo Stato ha la facoltà di valutare il lavoro degli insegnanti attraverso le prove finali, ai vari livelli scolari, a cui sono sottoposti i ragazzi. Ogni commissario esterno fa una relazione precisa su quanto ha ricavato dagli esami dei singoli studenti e tale relazione resta come un titolo (positivo o negativo) per la carriera economica dell’insegnante che ha preparato tali alunni. Non vi sono psicopedagogie
sovrapponibili all’insegnante con Test che non entrino nel merito e nel contenuto della sua disciplina.
Il dirigente della scuola deve essere elettivo e non appartenente ad un percorso diverso da quello dell’insegnante. Non esistono i manager della scuola perché la scuola non è un’impresa, non lavora per il profitto, ma un luogo in cui si formano i cittadini del domani.
Occorre far chiarezza riguardo, ad esempio, la grossa confusione informatica con l’equivoco tra metodi e contenuti. Tra uno strumento e la disciplina che si vuole apprendere. L’informatica ha la sua dignità di disciplina e se davvero si vuole insegnarla, lo si faccia con un professore appositamente assunto. Non si può rompere in modo trasversale. Ognuno, nelle sue discipline, utilizzerà gli strumenti che ritiene più opportuni senza miti perché lo strumento è, appunto, uno strumento.
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