Caro Pinochet, il papa La benedice…… – di Gianni Perreli
L’Espresso 10 dicembre 1998
A vent’anni dal golpe la legittimazione più calorosa arrivò al dittatore Augusto Pinochet dalle stanze del Vaticano. 18 febbraio 1993: la privatissima ricorrenza delle sue nozze d’oro viene allietata da due lettere autografe in spagnolo che esprimono amicizia e stima e portano in calce le firme di papa Wojtyla e del segretario di Stato Angelo Sodano. «Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d’oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine», scrive senza imbarazzo il Sommo Pontefice, «con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II.» Ancor più caloroso e prodigo di apprezzamenti è il messaggio di Sodano, che era stato nunzio apostolico in Cile dal ’77 all’88, e che nell’87 aveva perorato e organizzato la visita del papa a Santiago, trascurando le accese proteste dei circoli cattolici impegnati nella difesa dei diritti umani.

Il cardinale scrive di aver ricevuto dal pontefice «il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l’autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza». Aggiunge: «Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile». E conclude, riaffermando al signor Generale, «l’espressione della mia più alta e distinta considerazione».
Il Vaticano non rese pubbliche queste missive così partecipi. Né lo fece Pinochet, che pure probabilmente le aveva sollecitate. Si decise di mantenerle nell’ambito della sfera privata, per timore che l’eccesso di enfasi attizzasse nuove polemiche. Ma tre mesi dopo prevalse la vanità del dittatore. I documenti furono portati alla luce dal quotidiano cileno “El Mercurio”. E furono ripresi da “Témoignage Chrétien”, la rivista francese dei cattolici progressisti. Provocando «reazioni di rivolta, di tristezza e di vergogna», nel ricordo delle barbare esecuzioni e delle feroci torture perpetrate dal regime di Pinochet.
Molti lettori indirizzarono al Vaticano lettere di indignazione. Un gruppo di preti-operai di Caen diede una risposta particolarmente risentita all’iniziativa del Papa e di Sodano. Opponendo al commosso ricordo di
Wojtyla «l’emozione davanti alla morte del presidente Allende e di molti suoi collaboratori; davanti alla retata e al parcheggio dei sospetti nello stadio di Santiago; davanti alle dita amputate del cantante Victor Jara per impedirgli di intonare sulla sua chitarra gli accordi della libertà; davanti alle sparizioni, alle carcerazioni, alle torture». E la Fraternità e la Comunità Francescana di Béziert espressero la loro costernazione in modo lapidario: «Durante il potere di Pinochet Gesù Cristo era crocifisso ancora».
Sentimenti di ripulsa che in Francia si sono riaffacciati dopo l’arresto a Londra del dittatore. E che subito dopo il recente incontro in Vaticano fra il cardinal Sodano e il sottosegretario cileno agli Esteri Mariano Fernandez, visto come un tentativo di attivare il Vaticano in soccorso di Pinochet, hanno riproposto gli inquietanti interrogativi che accompagnarono la rivelazione dei messaggi di auguri. Nel ’93, Pinochet non era più il capo dello Stato, ma solo il comandante delle Forze Armate. E Sodano era tornato già da cinque anni in Italia dove aveva preso il posto di Agostino Casaroli al vertice della diplomazia pontificia.
Che ragione c’era di elargire al dittatore riconoscimenti così entusiastici, coinvolgendo anche il papa in prima persona, per una ricorrenza non così straordinaria che avrebbe al massimo meritato un asciutto telegramma di felicitazioni? La risposta, a sentire i cattolici cileni che lavoravano a Santiago per la Vicaria de la Solidaridad, un organo della curia che per sedici anni – dal ’76 al ’92 – si è battuto contro le atrocità della dittatura, è nel feeling che, nonostante le tensioni provocate dalle denunce dei sacerdoti socialmente più impegnati e dagli episodi di cronaca più scabrosi, si era instaurato fra Sodano e Pinochet.
Nel conflitto fra ragion di Stato e difesa dei diritti umani, pur senza plateali favoreggiamenti, il nunzio apostolico avrebbe privilegiato il dialogo con il regime, assecondando l’ipocrita transizione che provoca ancor oggi nel Cile tante lacerazioni. Negli inevitabili scontri con Pinochet, Sodano avrebbe badato a difendere l’istituzione Chiesa più che l’incolumità delle vittime perseguitate dalla dittatura. Certo, erano tempi tremendi. Ed è probabile che l’approccio sfumato dell’ambasciatore di Wojtyla sia servito a prevenire una repressione ancor più spietata. È meno comprensibile che, come dimostra l’estrema cordialità dei messaggi augurali per le nozze d’oro, a distanza di pochi anni il Vaticano abbia rimosso le pagine più tragiche della storia cilena e si sia profuso in attestati di stima verso il carnefice.
La lunga permanenza di Sodano a Santiago è coincisa con un processo di spaccatura all’interno della Chiesa cilena. Da un lato le frange più conservatrici del mondo cattolico facevano quadrato intorno alla dittatura in nome dell’anticomunismo. Dall’altro gli ambienti più aperti trasformavano la Vicaria de la Solidaridad nel vero simbolo dell’antipotere. Una divisione che nelle concitate reazioni all’arresto del generale affiora ancor oggi. Oltre la metà dei cattolici cileni teme che la soluzione di processare Pinochet in patria, per la quale si sta affannando il governo Frei, potrebbe rivelarsi una beffa alla giustizia. In Cile né la magistratura militare né quella penale (che anche dopo il ritorno della democrazia si è ben guardata dall’aprire processi alla dittatura) garantirebbero imparzialità di giudizio. E si scatenerebbe una nuova ondata di disordini. Solo un pubblico pentimento di Pinochet – ipotesi considerata inverosimile – introdurrebbe una nota di distensione, scongiurando il rischio che i mai sopiti rancori sfocino inaltrettanti regolamenti di conti.
Da circa sette anni la Vicaria de la Solidaridad, che già dopo il referendum da cui uscì sconfitto Pinochet nell’88 aveva perso la funzione primaria, si è trasformata in un centro documentazione. Attraverso i suoi archivi è possibile ricostruire nei dettagli i controversi rapporti fra una Chiesa di ispirazione progressista e il generale che si richiamava anche ai principi della fede cattolica per giustificare la sua azione di sterminio.
Già negli anni Venti la forza della Dc cilena si sviluppa intorno alle attività umanitarie dei sacerdoti che si schierano al fianco dei poveri e lottano contro il latifondo premendo per la distribuzione della terra ai contadini. Una sensibilità immune dagli estremismi della teologia della liberazione, che nel ’70 non ostacola l’ascesa al governo del socialista Salvador Allende. In quel periodo, l’arcivescovo di Santiago Raúl Silva Henriquez, cardinale dal ’61, accoglie con benevolenza Fidel Castro che prolunga una visita di Stato in Cile per 25 giorni, e al momento del congedo gli regala una Bibbia. Dopo il colpo di stato militare (11 settembre ’73), accolto con moderato sollievo anche dalla Dc nonostante il suicidio di Allende, Henriquez prende le distanze dal regime. E il 18 settembre, una settimana dopo il golpe, in occasione della festa nazionale, impartisce una prima umiliazione a Pinochet rifiutandosi di celebrare come ogni anno il Te deum davanti alle autorità dello Stato nella cattedrale, e allestendo la cerimonia in una chiesa meno rappresentativa. Fonda poi l’8 ottobre, insieme ai responsabili delle altre fedi religiose, un Comitato nazionale per la pace che si scaglia contro le malefatte del regime. Agli attacchi della stampa e alle minacce dei golpisti, il cardinale risponde alzando il tiro. E a Paolo VI, che disgustato dal clima di terrore gli offre sostegno, risponde che pensa di potercela fare da solo. Se il generale non allenterà la presa, potrebbe incorrere in una scomunica. Ma Pinochet stringe sempre più il Cile nella sua morsa. Si allentano le resistenze, si sfalda anche il fronte religioso. Nel ’75 è Henriquez che chiede aiuto a Paolo VI.
Che stavolta si dichiara impotente. La guerra fredda ha procurato qualche consenso internazionale a Pinochet.
Qualche mese più tardi è il tiranno a tentare un’apertura. Dopo l’uccisione d uno dei leader dell’ultrasinistra, un gruppo di marxisti si rifugia nella Nunziatura. E allora Pinochet decide di scrivere al cardinale: questo è un governo cattolico che vorrebbe buone relazioni con la Chiesa. Con lei personalmente non ci sono problemi. Il problema è il Comitato. Il cardinale intuisce che dietro le formalità si cela un ordine. Il generale non tollera più intralci. E il cardinale finge di obbedire, senza abdicare ai principi. Scompare il Comitato e al suo posto, come emanazione della sola curia cattolica, nasce agli inizi del ’76 la Vicaria de la Solidaridad. Un rifugio per le vittime del regime a cui vengono assicurati patrocinio legale e assistenza medica.
In aperta sfida a Pinochet, pochi mesi dopo l’arrivo di Sodano a Santiago, Henriquez proclama il ’78 anno dei diritti umani in Cile. E indice un convegno internazionale sulla materia. Sodano si defila. E quando arriva un messaggio augurale del papa, minimizza attribuendolo al cardinale di Stato Jean Villot.
I rapporti fra la curia e la chiesa si fanno particolarmente aspri nell’83, decennale del golpe. Henriquez si spinge a definire inumano il programma economico varato da Pinochet che applicando le teorie monetariste dei Chicago’s boys ha rimesso in ordine i conti dello Stato sacrificando però i programmi di assistenza sociale per le classi meno abbienti. E la giunta militare sbatte in carcere i tre sacerdoti stranieri che più avevano alzato la voce nelle proteste. Sodano chiede la loro liberazione. E i tre vengono espulsi.Per evitare fratture più traumatiche, papa Wojtyla, tramite Sodano, invita i militari a cercare risposte positive alle condizioni e alle situazioni di violenza. Pinochet, in cerca di legittimazioni, si dichiara in sintonia con le aspettative del pontefice: il governo cileno è impegnato nella creazione di un sistema democratico di ispirazione occidentale e cristiana; il messaggio di Sua Santità è uno strumento prezioso per la realizzazione di questi obiettivi. Ma appena sorge qualche contrasto con la curia di Santiago, si affretta a inviare a Roma Sergio Rillon, il funzionario governativo per le relazioni con il Vaticano, che non manca mai di sottolineare l’irritazione del generale. L’anagrafe dà intanto una mano a Pinochet. Per limiti d’età va in pensione il cardinale Henriquez. E a sostituirlo viene chiamato Juan Francisco Fresno, un arcivescovo più in sintonia con Sodano, che non si sottrarràagli scontri con la dittatura ma li condurrà in modo meno battagliero.
L’84 per Sodano è un anno vissuto pericolosamente. A Santiago, nella parrocchia di San Francesco si invoca la punizione divina contro i torturatori di Stato. Colti di sorpresa, i militari dichiarano guerra alle frange sovversive della Chiesa. E consegnano a Sodano un dossier da inoltrare in Vaticano, in cui si proclamano salvatori della patria.
Scoppia poi la grana dei terroristi del Mir, presunti killer del sindaco di Santiago Carlos Urzia, che attraverso i locali dell’ambasciata francese trovano rifugio negli uffici della Nunziatura. È una brutta rogna per Sodano. Anche se il Vaticano non ha firmato la convenzione sull’asilo politico, ragioni umanitarie sconsigliano la consegna dei ribelli a un governo che non dà alcuna garanzia sulla regolarità di un processo. Sodano chiede che ai quattro venga rilasciato un salvacondotto. I militari si irrigidiscono. E l’ira dell’ammiraglio José Toribio Merino Castro si scaglia verso l’obiettivo massimo: il papa, infallibile nelle cose divine, fallibile in quelle umane
È una mancanza di cortesia, è la prudente replica di Sodano che sulla sostanza però tiene duro e chiede per la prima volta aiuto legale agli avvocati della Vicaria, istituzione che ha sempre percepito pericolosamente estranea alla sua linea diplomatica. Snobbava spesso le sue ricorrenze, alle quali interveniva l’intero corpo diplomatico. E secondo i racconti che circolavano nelle comunità ecclesiali, avrebbe dissuaso un cattolico torturato dal sollecitare l’intervento della Vicaria. Nel braccio di ferro stavolta è Pinochet a cedere.
Dopo circa tre mesi di battaglie legali, i quattro guerriglieri del Mir ottengono il salvacondotto e salgono su un aereo diretto in Ecuador. Ma per Sodano le insidie non sono finite. Il sacerdote francese Pierre Dubois, parroco de La Victoria (quartiere proletario della capitale), e Carlos Camus, vescovo di Linares, creano nuovi attriti col regime, lanciando anatemi dai pulpiti.
Nel 1985 Sodano lancia appelli (ascoltati) per la liberazione dell’attivista dell’opposizione Carmen Hales, sequestrata e picchiata da gruppi di estrema destra. Ed entra in rotta di collisione col governo per gli editoriali anti-Pinochet della rivista cattolica “Mensaje”. Ma dopo il fallito attentato a Pinochet nell’86, Sodano elabora una strategia della distensione che culmina con la visita del Papa a Santiago. Ai fedeli che esprimono indignazione, il nunzio assicura che si tratta di una missione esclusivamente pastorale. Ma anche se Wojtyla incontra esponenti dell’opposizione, il clou del viaggio è l’apparizione sul balcone presidenziale del pontefice al fianco del dittatore. La Vicaria viene invece appena sfiorata. Il Papa saluta i suoi dirigenti nel cortile antistante, senza mettere piede nei locali.
Sodano lascia Santiago nel giugno ’88. E nell’accomiatarsi si dice preoccupato per «l’attuale situazione del paese, perché vedo che non vi è un profondo rispetto degli uni per gli altri.» Cinque anni dopo, a freddo, il segno del suo rispetto lo riserverà al dittatore.
L’Espresso, 10 dicembre 1998
Il cardinale che stimava il generale
Storia di Angelo Sodano, fra i candidati alla successione di Giovanni Paolo II – di Sandro Magister
Il Cile è la mia seconda patria, ha detto radioso il cardinal Angelo Sodano atterrando a Santiago lo scorso 7 ottobre, come legato pontificio all’incontro panamericano dei giovani cattolici. Ma se avesse saputo quel che stava piombando sulla testa del generale Augusto Pinochet, quell’autocertificazione se la sarebbe risparmiata. Perché tra il cardinale e il generale cileno c’è stata per anni una prossimità che oggi al primo regala solo guai.
Nella gerarchia della Chiesa Sodano, come cardinale segretario di Stato, è secondo solo al papa regnante. E quanto al papa futuro, si sa che aspira a diventarlo lui. Gli esperti di cose vaticane, all’unisono, hanno giudicato un’autocandidatura alla successione la sua conferenza tenuta in Laterano il 24 marzo di quest’anno ai .giornalisti e operatori delle comunicazioni sociali. Sodano l’ha anche fatta stampare dall’editrice ufficiale della Santa Sede, come fosse un’enciclica. Inoltre, due anni fa, ha fatto presentare in pompa magna nella sala stampa vaticana un libro con la propria biografia, affiancata a quella di altri due gloriosi cardinali dell’Ottocento, astigiani come lui. Tutto per dare a intendere che sotto la sua scorza di diplomatico batte un gran cuore da pastore. Da primo pastore della Chiesa universale.
In questa biografia autorizzata, di Pinochet non compare neanche il nome. In compenso, Sodano ne vien fuori più che mai cileno “ad honorem”. Un monsignore suo conterraneo, Giuseppe Fagnano, nativo di Rocchetta Tanaro che è poi lo stesso paesino che ha avuto come parroco uno zio prete del nostro cardinale, fu più d’un secolo fa il primo vescovo cattolico della Bassa Patagonia e della Terra del Fuoco. E il governo cileno tanto ne apprezzò lo zelo che gli diede in dote un’isola, l’isola di Dawson. Quando Sodano, nel 1977, quattro anni dopo il golpe, arrivò a Santiago con la carica di nunzio apostolico, l’isola era tornata da tempo in proprietà del governo. Ma il patronato sulle terre di Magellano era come fosse rimasto a lui per diritto celeste. E lo mise subito a frutto. Fu Sodano a mediare laggiù una controversia di confine tra il Cile e l’Argentina, che per poco non si spararono cannonate sul Canale di Beagle. La pace fu firmata nel 1984, con grande riconoscenza al nunzio dal generale Pinochet.
Il quale Pinochet teneva il Cile sotto il suo tallone di ferro, ma era anche un cattolico conclamato. Nel 1986, preso di mira da una sparatoria, attribuì alla Madonna lo scampato pericolo: e la prova era il profilo della Vergine disegnato dalle pallottole sulla sua Mercedes corazzata. I vescovi cileni non la pensavano tutti come lui, anzi. Ne aveva un bel numero contro. Ma per fortuna c’era il nunzio a bilanciare le cose. Sul suo tavolo s’accumulavano i lamenti della giunta militare contro vescovi e preti “politicizzati”. E nel 1987, alla vigilia della venuta di papa Giovanni Paolo II in Cile, Francisco Javier Cuadra, ministro segretario generale del governo, tirò soddisfatto il suo consuntivo:«Devo dire che siamo stati ascoltati».
Cuadra era membro dell’Opus Dei. E ai buoni uffici di Sodano e dell’Opus si deve l’affacciarsi congiunto del papa e di Pinochet, il 2 aprile 1987, dal balcone presidenziale della Moneda, con il portavoce vaticano Joaquín Navarro Valls, altro opusdeista, anche lui a far capolino lassù. Giovanni Paolo II premiò Sodano richiamandolo a Roma, promuovendolo suo ministro degli Esteri e infine, nel 1990, segretario di Stato e cardinale. Ma dal Vaticano, Sodano continuò a tener fermo il suo alto patronato sul Cile. Tutte le promozioni importanti di ecclesiastici cileni hanno sempre avuto il suo placet. Tra i suoi protegé saliti di recente in alto grado, fanno spicco due nomi.
Il primo è Jorge Arturo Medina Estévez. Nel pieno della dittatura, fu fatto rettore della Pontificia università cattolica di Santiago dopo che la giunta l’aveva decapitata. Poi divenne vescovo di Valparaíso, che è la città natale di Pinochet. Infine, nel 1996, fece il gran salto a Roma, in curia. Oggi è cardinale prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.
Il secondo è Francisco Javier Errázuriz Ossa. Dopo una vita trascorsa tra le fila del movimento di Schoenstatt, un’associazione cattolica conservatrice con qualche somiglianza all’Opus Dei, di cui è stato anche superiore generale, nel 1990 passò in Vaticano come numero due della Congregazione per gli istituti di vita consacrata. Nel 1996 fece ritorno in Cile come vescovo di Valparaíso, al posto di Medina. E infine, nell’aprile di quest’anno, è stato promosso ad arcivescovo di Santiago. I suoi tre predecessori nella capitale, dimessisi uno dopo l’altro per ragioni d’età e di salute, tutt’ora in vita e tutti e tre cardinali, sono la fotografia di un’evoluzione in discesa: dal battagliero Raúl Silva Henriquez degli anni del golpe, all’indomito ma più prudente Juan Francisco Fresno Larraín degli anni finali della dittatura, al moderato Carlos Oviedo Cavada degli anni della transizione. Oggi l’impronta del neopromosso è ancor più spiritualista. Non ne vuol sapere di presiedere una commissione per i desaparecidos, come proposto dal presidente del Senato, Andrés Zaldívar, democristiano. Giudica la pretesa di processare in Europa il generale Pinochet «una ferita alla fraternità tra i cileni».
Il giudizio di Sodano sul governo dei generali era ed è lo stesso che Giovanni Paolo II formulò alla vigilia del suo viaggio in Cile:«Una dittatura transitoria». Oggi che è passato il brutto, non ama che lo si ritiri fuori. Tantomeno, come segretario di Stato, vuole immischiarsi nella disputa internazionale. Il 1 novembre ha ricevuto a Castelgandolfo la visita del viceministro degli esteri cileno, Mariano Fernández. Ma non gli ha assicurato alcun passo di mediazione.
Ancora nel 1993, Sodano ha scritto al generale Pinochet che riponeva in lui «la più alta e distinta considerazione». Ma anche questo è «transitorio». Oggi non lo rifarebbe più. Tra i suoi prezzi la diplomazia ha anche quello di far buon viso ai dittatori. Ma ormai il papabile Sodano tiene a dirsi, prima che diplomatico, pastore.
MADRES DE PLAZA DE MAYO: Carta a Juan Pablo II
Buenos Aires, 23 de febrero de 1999
Señor Juan Pablo II°
Varios días nos costó asimilar el pedido de perdón que Usted Señor Juan Pablo reclamó para el genocida Pinochet.
Nos dirigimos a Usted como a un ciudadano común porque nos parece aberrante que desde su sillón de Papa en el vaticano, sin conocer ni haber sufrido en su cuerpo la Picana, las mutilaciones, la violación, se anime en nombre de Jesucristo a pedir clemencia para el asesino.
Jesus fué crucificado y sus carnes fueron laceradas por los judas que como Usted hoy defiende asesinos.
Señor Juan Pablo, ninguna madre del tercer mundo que dio a luz un hijo que amó, amantó y cuidó con amor y que después fué mutilado por la dictadura de Pinochet, Videla, Banzer, Stroesner van a aceptar resignadamente su pedido de clemencia.
Nosotras lo entrevistamos a Usted en tres oportunidades, pero Usted no impidió la masacre, no alzó su voz por nuestros miles de hijos en aquellos años de horror.
Ahora no nos queda dudas de que lado está Usted, pero sepa que aunque su poder sea inmenso no va a llegar hasta Dios, hasta Jesús.
Nuestros hijos, muchos de ellos se inspiraron en Jesucristo, en la entrega al pueblo.
Nosotras, la Asociación Madres de Plaza de Mayo le rogamos, le pedimos a Dios en un rezo inmenso que se extendrá por el mundo, que no lo perdone a Usted Señor Juan Pablo, que denigra a la Iglesia del pueblo que sufre, y en nombre de millones de seres humanos que mueren y siguen muriendo hoy en el mundo en manos de los genocidas que Usted defiende y sostiene.
DECIMOS NO LO PERDONE SEÑOR A JUAN PABLO II°
Asociación Madres de Plaza de Mayo
TRADUZIONE
Buenos Aires 23 febbraio 1999
Signor Giovanni Paolo II,
Molti giorni abbiamo impiegato per assimilare la richiesta di perdono che Lei, Giovanni Paolo II, ha reclamato per il genocida Pinochet.
Ci rivolgiamo a lei come ad un cittadino comune perché ci sembra aberrante che dalla sua poltrona di papa nel Vaticano, senza conoscere né aver sofferto in carne propria il pungolo elettrico (picana), le mutilazioni, lo stupro, si animi in nome di Gesù Cristo a chiedere clemenza per l’assassino.
Gesù fu crocifisso e le sue carni furono straziate dai giuda che come lei oggi difende un assassino.
Signor Giovanni Paolo, nessuna madre del terzo mondo che ha dato alla luce un figlio che ha amato, coperto e curato con amore e che poi è stato mutilato e ucciso dalla dittatura di Pinochet, di Videla, di Banzer o di Stroessner accetterà rassegnatamente la sua richiesta di clemenza.
Noi la incontrammo in tre occasioni, però lei non ha impedito il massacro, non ha alzato la sua voce per le nostre migliaia di figli in quegli anni di orrore.
Adesso non ci rimangono dubbi da che parte lei stia, però sappia che sebbene il suo potere sia immenso non arriva fino a Dio, fino a Gesù.
Molti dei nostri figli si ispirarono a Gesù Cristo, nel donarsi al popolo.
Noi, la Associazione “Madres de Plaza de Mayo” supplichiamo, chiediamo a Dio in una immensa preghiera che si estenderà per il mondo, che non perdoni lei signor Giovanni Paolo II, che denigra la Chiesa del popolo che soffre, ed in nome dei milioni di esseri umani che muoiono e continuano a morire oggi nel mondo nelle mani dei responsabili di genocidio che lei difende e sostiene, diciamo: No lo perdone, Señor, a Juan Pablo Segundo.
Asociación Madres de Plaza de Mayo
(in occasione dell’intervento ufficiale di Giovanni Paolo II presso il governo inglese per impedire l’estradizione di Pinochet in Spagna).
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Giugno-2002/0206lm04.01.html
Bilancio di un pontificato controverso
Giovanni Paolo II, un papa moderno per un progetto reazionario
Nel corso del suo 96esimo viaggio, in Azerbaigian e Bulgaria, Giovanni Paolo II, che ha appena compiuto 82 anni, non ha potuto dissimulare la degradazione del suo stato di salute, tanto che due cardinali hanno suggerito le sue dimissioni. A ventiquattro anni dalla sua elezione al soglio di Pietro, è giunto il momento di tracciare un bilancio del pontificato di Karol Wojtyla. Un pontificato che, nonostante tutte le sue contraddizioni, ha portato avanti soprattutto un’opera di restaurazione dottrinale e morale della Chiesa.
di François Houtart*
La vista di un uomo anziano, stanco, malato, che continua nonostante tutto a farsi carico di un compito immane, desta un senso di rispetto, simpatia o pietà. L’attaccamento di immense folle popolari, in tanti paesi del mondo, continua a essere impressionante. Una personalità che unisce a un vasto sapere la conoscenza di numerose lingue, un comportamento sportivo, un reale coraggio fisico, una profonda spiritualità, la fedeltà nell’amicizia e una grande forza di persuasione suscita ammirazione. Ma un bilancio deve comportare altre prospettive, e un diverso tipo di analisi.
Ripercorrere alcune delle linee di fondo del pontificato di Giovanni Paolo II non è impresa di poco conto, dati i numerosi anni da lui trascorsi al governo della Chiesa cattolica (poco meno di un quarto di secolo), i quasi cento viaggi internazionali, una dozzina di encicliche, innumerevoli discorsi, gli incontri con tante personalità e centinaia di beatificazioni e canonizzazioni. E tutto questo, in un periodo storico che ha visto il consenso di Washington (1) orientare l’economia mondiale verso il neoliberismo, con le conseguenti catastrofi sociali.
Il periodo del crollo del muro di Berlino, dell’avvento del pensiero unico e del fiorire dei movimenti di protesta su scala mondiale, per non parlare dell’attacco terroristico contro gli Stati uniti, o delle guerre che rafforzano il dominio del sistema mondiale oggi in atto.
La missione che Giovanni Paolo II si è assegnato alla testa della Chiesa cattolica era duplice: restaurare una Chiesa scossa dal concilio Vaticano II, e rafforzarne la presenza nella società, onde consentirle di attuare il suo compito di evangelizzazione.
Il cardinale Karol Wojtyla aveva partecipato attivamente al concilio Vaticano II (2). Aveva sostenuto la modernizzazione dell’immagine della Chiesa cattolica, appoggiando molte delle riforme adottate dall’Assemblea del vescovi. E tuttavia osservava con preoccupazione, dalla natia Polonia, le conseguenze del concilio su una Chiesa che si stava riformando in profondità, non senza traumi e conflitti interni.
Vicino all’Opus Dei (3), che lo aveva accolto in occasione di alcuni suoi viaggi all’estero, guardava con riprovazione non soltanto a taluni sviluppi eccessivi in campo liturgico (introduzione di testi o di musiche profane), ma anche a numerose applicazioni concrete delle decisioni conciliari. Lo rafforzava nei suoi convincimenti la sua appartenenza al cattolicesimo polacco, culturalmente egemonico in quella società: solido, ma spesso semplicistico nei contenuti, vigoroso nella sua spiritualità caratterizzata dal culto per la Vergine Maria, rigido nella sua morale, cemento della nazione e anima della resistenza al comunismo. Tutto questo doveva condurre l’eletto del Conclave a intraprendere una restaurazione dottrinale, morale e istituzionale della Chiesa cattolica (4).
Sul piano dottrinale, non c’è quasi un tema che non sia stato affrontato, se non da lui personalmente, dagli organi della Santa Sede. La fede, il magistero, l’autorità dottrinale della gerarchia ecclesiastica, la collegialità tra i vescovi per il funzionamento della Chiesa universale, la liturgia, il sacerdozio, il ruolo delle donne nella Chiesa, l’ecumenismo o i rapporti tra le Chiese cristiane, le religioni non cristiane, la dottrina sociale … Accanto a precisazioni interessanti figurano ammonimenti, richiami dottrinali o anche esplicite condanne che rappresentano altrettanti colpi di freno, con misure disciplinari sempre più restrittive, in luogo dell’accompagnamento pastorale di un difficile processo di riforme che doveva consentire alla Chiesa, in un mondo sempre più complesso, di trasmettere meglio il messaggio evangelico.
Sono stati sospesi, ad esempio, gli adattamenti liturgici iniziati da alcune Chiese locali asiatiche, in particolare in India, volti a dare alla fede un’espressione più adeguata a quel contesto culturale.
Il documento Dominus Jesus, attinente alla funzione salvifica universale di Gesù, ha posto termine al tentativo di ripensare i rapporti con le grandi religioni d’Oriente: il testo in questione è stato interpretato da alcuni responsabili religiosi e politici asiatici come una giustificazione del proselitismo nelle società che stanno faticosamente recuperando la propria identità culturale, segnatamente attraverso la religione.
Diversi teologi hanno subìto condanne, quali il divieto di insegnare o di pubblicare; al cingalese Tissa Balasuriya è stata inflitta la scomunica per aver pubblicato un libro considerato troppo ambiguo sulla verginità di Maria e sul concetto di peccato originale.
L’ascesa dell’Opus Dei Certo, nel campo dei rapporti con le varie confessioni cristiane e con le altre religioni vi sono state alcune manifestazioni suggestive, come gli incontri di Assisi nel 1986 e nel 2002, il digiuno dell’ultimo giorno del Ramadan nel 2001, e così via. Ma l’intransigenza dottrinale e gli ostacoli creati verso forme di collaborazione più istituzionali, in particolare con il Consiglio ecumenico delle Chiese, hanno opposto un limite invalicabile a taluni progressi. Se il papa ha chiesto perdono per le colpe di molti membri della Chiesa cattolica – ai tempi delle crociate e dell’Inquisizione, o ancora per comportamenti razzisti e antisemiti – non ha mai sollevato la questione delle responsabilità dell’istituzione in quanto tale (5).
Quanto alla collegialità episcopale – uno dei punti forti del concilio Vaticano II – Giovanni Paolo II l’ha chiaramente subordinata all’autorità romana. I sinodi generali o continentali si sono spesso trasformati in organi di registrazione della linea pontificia, se non in semplici occasioni di sfogo senza grandi conseguenze. Per la pubblicazione dei loro documenti si richiedeva l’approvazione preventiva del papa; e a volte sono state persino imposte alcune modifiche (6).
La Teologia della liberazione è stata oggetto di una repressione specifica. Nata in America latina, ha trovato espressione anche in Africa, soprattutto tra i teologi protestanti, così come in Asia, in India, nelle Filippine e nella Corea del Sud. È una riflessione su Dio – come tutte le teologie – che assume come punto di partenza la condizione dei poveri e degli oppressi, rendendo esplicito il suo carattere contestuale – cosa che altre correnti rifiutano generalmente di fare, velando così la relatività del discorso.
Per stabilire con chiarezza il suo punto di partenza nella complessità delle situazioni sociali contemporanee, la Teologia della liberazione, che attinge la sua ispirazione al Vangelo, esige la mediazione di un’analisi sociale. Ma questo pensiero travalica largamente il campo dell’etica sociale e ritrova, attraverso lo sguardo degli sfruttati, il senso della persona di Gesù, reinserito nel contesto storico della Palestina del suo tempo. Si sviluppano così una spiritualità e una gamma di espressioni liturgiche in cui ci si rende conto della vita dei poveri, e si guarda con severità a una Chiesa troppo spesso compromessa con i poteri oppressivi. Questa teologia parla di liberazione, al presente, come espressione dell’amore di Dio per il suo popolo. E dunque appariva pericolosa per l’ordine, sia sociale che ecclesiastico.
La reazione di Roma è stata durissima. Era facile accusare questa corrente teologica di marxismo, dato che è fondata sull’esistenza delle strutture di classe. Una prospettiva del genere, come ha detto il cardinale Joseph Ratzinger, responsabile della Congregazione per la dottrina della fede, doveva condurre direttamente all’ateismo.
Numerosi teologi hanno quindi subito il divieto di insegnamento e di pubblicazione. I Centri didattici hanno ricevuto l’ordine di proibire qualsiasi insegnamento in cui si parlasse di questa dottrina. La teologia della liberazione ha dovuto cercare rifugio presso qualche centro di studio o di formazione ecumenico, o nelle università laiche.
Nel 1996, lo stesso Giovanni Paolo II, in occasione del suo viaggio in Nicaragua, dichiarò che una volta morto il marxismo, la teologia della liberazione non aveva più motivo di esistere.
Quanto alle questioni morali, è nota l’insistenza del papa sul rispetto per la vita fin dal suo concepimento, così come la sua radicale opposizione all’aborto, alla contraccezione, al divorzio, all’eutanasia, ma anche alla pena di morte. Certo, il positivismo scientifico, gli effetti genocidi delle scelte dei poteri economici o il relativismo di un certo pensiero post-moderno rappresentano una minaccia per la vita.
Ma l’attaccamento del pontefice a una filosofia della natura superata dalle conoscenze contemporanee, la sua riluttanza a prendere in considerazione le condizioni sociali e psicologiche concrete degli esseri umani, così come le drammatiche conseguenze – come nel caso dell’Aids in Africa – di talune posizioni dogmatiche, hanno finito per far perdere alla Chiesa cattolica buona parte della sua credibilità.
La dottrina sociale rimane un campo privilegiato dell’attenzione di Giovanni Paolo II. I documenti su questo tema sono innumerevoli.
In nome del Vangelo, il papa ha condannato con estrema durezza gli abusi e gli eccessi del capitalismo, e ha persino denunciato – a Cuba – il neoliberismo e i suoi effetti perversi. Ma se nell’enciclica Centesimus Annus ha condannato il socialismo nella sua essenza, in quanto veicolo di ateismo, quando ha stigmatizzato il capitalismo selvaggio lo ha fatto denunciando le sue pratiche, non la sua logica.
E laddove si fa riferimento, in questo stesso documento, a un’«economia sociale di mercato», non si menzionano le pratiche «selvagge» attuate nei paesi del Sud e nell’Est europeo da quegli stessi agenti economici che si richiamano a questo modello. Allo stesso modo, i frequenti e insistenti appelli alla «globalizzazione della solidarietà» non sfociano mai in una denuncia delle cause profonde della povertà e delle disuguaglianze. Peraltro, uno degli strumenti dell’elaborazione e della diffusione della sua dottrina sociale è la Commissione Giustizia e pace, istituita dal concilio Vaticano II: ma la presenza di Michel Camdessus, ex direttore del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), nominato nel 2000 suo consigliere, basta da sola a far dubitare del ruolo di questa Commissione come portavoce dei poveri e degli oppressi…
Per l’attuazione del suo fondamentale progetto di restaurazione dottrinale e morale, Giovanni Paolo II aveva bisogno di un’istituzione in grado di portarlo avanti. La sua politica di nomine episcopali si è quindi orientata in questo senso. In numerose diocesi, i nuovi vescovi, su ispirazione della Santa Sede, hanno iniziato a esercitare un controllo sui centri di formazione, smantellando l’opera pastorale dei loro predecessori e introducendo congregazioni religiose o organizzazioni cattoliche conservatrici. In America latina, il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), che aveva svolto un ruolo di punta nel rinnovamento, organizzando, nel 1968, la Conferenza di Medellín per l’applicazione del concilio Vaticano II nel subcontinente, fu trasformato a poco a poco in un organismo di restaurazione. Le conferenze episcopali furono riorientate attraverso nuove nomine. In tutto il mondo, centinaia di diocesi attraversarono penosi processi di transizione pastorale, non senza drammi personali per coloro che avevano creduto in una Chiesa profetica e in un’istituzione più umana. Solo alcune diocesi di più antica cristianità furono in grado di preservare la propria autonomia, frenando il dilagare delle nomine di segno conservatore.
Nel 1982, quattro anni dopo l’elezione di Giovanni Paolo II, l’Opus Dei acquisì uno status di prelatura personale, al di sopra della giurisdizione dei vescovi. Il suo fondatore fu canonizzato nel 2002, a soli 27 anni dalla sua morte; molti dei suoi membri vennero nominati vescovi, spesso in diocesi importanti, e alcuni furono fatti cardinali.
Ma la sua influenza si fece sentire soprattutto nell’amministrazione centrale della Chiesa cattolica (la curia), dove i suoi membri occupano cariche importanti in numerosi settori e beneficiano di «promozioni» interne. L’«Opera di Dio» potrebbe giocare un ruolo di rilievo anche nella designazione del successore dell’attuale papa.
Giovanni Paolo II ha inoltre rafforzato la Curia romana, un apparato il cui mantenimento richiede mezzi considerevoli, che i contributi del fedeli non bastano ad assicurare. Ma la Santa Sede dispone di un ingente patrimonio, in particolare grazie ai Patti lateranensi (1929), mediante i quali l’Italia fascista risarcì il Vaticano della perdita dell’antico stato pontificio. Questo capitale fondiario e finanziario produce elevati redditi. Ma sotto l’attuale pontificato, le istituzioni bancarie del pontificato hanno dato luogo a clamorosi scandali, tra cui quello del Banco Ambrosiano (8). Scandali che sono costati centinaia di milioni di dollari alla Chiesa cattolica. Ma il pubblico è stato scarsamente informato di queste vicende, che si pongono in plateale contrasto con lo spirito del Vangelo. Tutti i poteri – giudiziari, politici, economici e mediatici – hanno congiurato per tacitarle, nel timore di mettere a repentaglio un’istanza morale che ai loro occhi costituisce una garanzia dell’ordine sociale.
Giovanni Paolo II, vescovo di Roma, avrebbe dovuto ritirarsi a 75 anni, come sono invitati a fare tutti i vescovi a partire dal concilio Vaticano II. Il suo rifiuto ha rafforzato il potere di un’amministrazione sempre più conservatrice. Nuovo «prigioniero del Vaticano», il papa è divenuto così vittima di una curia i cui maggiori esponenti, da lui stesso nominati, hanno portato la restaurazione a un punto tale da provocare reazioni crescenti persino negli ambienti moderati della Chiesa. La «nuova evangelizzazione» promossa da Giovanni Paolo II è caratterizzata da due principali orientamenti: da un lato quello dell’Opus Dei, volto a evangelizzare attraverso il potere, facendo della spiritualità un segno di eccellenza sociale; dall’altro, quello dei vari movimenti carismatici, esigenti in materia di comportamenti personali, con una tendenza a valorizzare aspetti di tipo affettivo, ma generalmente poco inclini a integrare una dimensione sociale. D’altro canto, le comunità ecclesiali di base nate in America latina, caratterizzate dall’autogestione, in cui a prendere la parola erano i poveri, sono state emarginate e talvolta distrutte: ai sacerdoti che vi esercitavano la funzione di consulenti si imponeva il trasferimento, o si vietava addirittura l’accesso ai locali parrocchiali. E intanto si creavano sotto l’egida clericale altri gruppi con lo stesso nome. Quanto al ruolo dei laici nella Chiesa, benché valorizzato nei testi, è stato il larga misura relegato a un livello subalterno, a meno che si trattasse di organizzazioni incondizionate quali l’Opus Dei. D’altra parte – e questo è un esempio che colpisce – la Gioventù Operaia Internazionale (Gcoi), nonostante il sostegno di varie conferenze episcopali, è stata emarginata, con l’abrogazione del suo status di organizzazione internazionale cattolica, mentre una Federazione concorrente è stata creata di sana pianta. Queste tendenze si collocano in un contesto tipico di dissociazione culturale, che si manifesta nelle correnti filosofiche così come in parte delle scienze umane, nella produzione artistica e nella ricerca religiosa, ove l’accento è posto sull’individuo.
Paradossalmente, la nostra epoca è contrassegnata a un tempo dal predominio del mercato e da un irrigidimento autoritario ai vertici delle istituzioni.
Sradicare il comunismo ateo I numerosi viaggi di Giovanni Paolo II da un capo all’altro del mondo hanno indubbiamente rivelato la sua eccezionale energia, e sono stati molto apprezzati in numerosi ambienti popolari, soprattutto nel Sud, oltre che – logicamente – in Polonia, e in generale da parte dei nuclei cattolici più ferventi. Ma più che di una vera presa di contatto con le realtà dei luoghi visitati, si è trattato innanzitutto di diffondere il pensiero di Roma. L’evento ha prevalso sul messaggio.
Se le visite pontificie hanno suscitato emozione, il più delle volte sono servite a rafforzare l’ala conservatrice del cattolicesimo.
La restaurazione della Chiesa cattolica dopo il concilio Vaticano II si è dunque tradotta, per Giovanni Paolo II, in una ridefinita solidità dottrinale, in un codice morale tutto d’un pezzo e in un’autorità fuori discussione, al servizio di un progetto modernizzato nella forma, ma fondamentalmente conservatore. Un orientamento del genere era necessario, secondo il papa, per affrontare le forze ostili della società. Perciò Giovanni Paolo II ha adottato come riferimento la figura di Pio XII, e ha aperto il suo processo di beatificazione accanto a quello di Giovanni XXIII, che la vox populi aveva già da tempo elevato agli altari.
Nella Gaudium et Spes (9), il concilio Vaticano II descrive il ruolo della Chiesa non già come esercizio di un potere, ma come ispirazione morale. La volontà di condividere le gioie e le speranze dell’umanità, che sembrava nascere da un ottimismo al limite del realismo, era il frutto di un’ispirazione programmatica. Il nuovo papa non ha tardato a tradurre questo spirito in una duplice battaglia contro le forze ostili al messaggio cristiano: il comunismo ateo e il secolarismo occidentale.
La lotta tradizionale contro il comunismo era stata rafforzata dalla proclamazione dell’ateismo quale «religione di stato» nei paesi dell’Est europeo, ma anche, più concretamente, dalla repressione delle libertà e dalle persecuzioni religiose. Giovanni Paolo II, guidato dall’esperienza della Polonia, riteneva che per sradicare il comunismo occorresse mobilitare i cattolici, sia all’interno della Chiesa – e da qui la condanna alla teologia della liberazione – sia all’esterno, attraverso un’azione diretta.
Laddove il comunismo era al governo, il papa incoraggiava la creazione di un contro-potere. Con le sue visite in Polonia ha promosso una mobilitazione religiosa, e assicurato – anche sul piano finanziario, tramite il Banco Ambrosiano – l’appoggio a Solidarnosc. Nei paesi in cui era sul punto di prendere il potere, i cattolici dovevano essere arruolati in un fronte d’opposizione. Fu così che in Nicaragua si arrivò nel 1983 allo scontro con il Fronte sandinista. Nell’omelia tenuta a Managua, il papa condannò la Chiesa popolare e il «falso ecumenismo» dei cristiani impegnati nel processo rivoluzionario.
E fece appello all’unità, sotto l’egida di un episcopato particolare reazionario (l’arcivescovo di Managua, Mons. Miguel Obando y Bravo, sarà nominato cardinale dopo la visita pontificia). Tutto questo portò a una forte repressione ecclesiastica, e sconcertò profondamente i cristiani dei ceti popolari, venuti a celebrare a un tempo la loro rivoluzione e la visita del loro papa. Il viaggio a Cuba segue la stessa linea. Nell’idea di Giovanni Paolo II, quest’isola era l’ultimo bastione del comunismo in Occidente, ormai a fine corsa. L’aggressività – in parte anche a causa del suo stato di salute – non era più all’ordine del giorno. E dato che a suo modo di vedere, la rivoluzione cubana rappresentava una parentesi nella storia, non la menzionò in quanto tale, ma si limitò a sottolinearne gli effetti, tutti in negativo. E al suo ritorno a Roma, dichiarò che la sua visita avrebbe avuto lo stesso effetto del viaggio compiuto dieci anni prima in Polonia.
Per la lotta anticomunista c’era bisogno non solo di una Chiesa forte e disciplinata, ma anche di alleanze con altre forze, in campo economico e politico. Da qui i numerosi compromessi con il potere americano, per cui molte delle sue organizzazioni cattoliche, in Europa e a Roma, hanno canalizzati fondi, sia ufficiali che segreti, in favore di Solidarnosc. E da qui anche la tolleranza nei confronti di regimi dittatoriali di destra, come quelli del Cile, dell’Argentina (10) o delle Filippine. Gli artefici di queste discutibili relazioni sono stati promossi da Giovanni Paolo II ai vertici di importanti organi della Santa Sede, prima tra tutte le Segreteria di Stato. Da qui infine l’intervento in favore del generale Augusto Pinochet. E sul piano simbolico, la beatificazione, proclamata nel 1998, del cardinale Stepinac, che era stato molto vicino al regime fascista della Croazia durante la seconda guerra mondiale.
Il secolarismo occidentale, caratterizzato dal relativismo, dal consumismo e dall’edonismo, è stato il secondo avversario di Giovanni Paolo II. Il quale ha ricordato con forza i valori dell’amore per il prossimo, della solidarietà, della moderazione nell’uso dei beni materiali.
Ma ancora una volta, lo ha fatto in una quadro dottrinale e morale talmente rigido che il messaggio è rimasto purtroppo in larga misura incompreso, e in definitiva poco efficace. Purtroppo, perché l’umanità contemporanea aspira alla spiritualità, è alla ricerca di un senso; e le lotte sociali sono il segnale di un profondo desiderio di giustizia, a fronte di una globalizzazione economica e culturale distruttiva.
Richiamo astratto ai valori sociali Un’altra preoccupazione di Giovanni Paolo II è stata quella di perseguire la pace. Si è opposto alla guerra del Golfo, ha messo in guardia contro quella del Kosovo, ha dichiarato le sue riserve sull’attacco all’Afghanistan, ha rivendicato il diritto dei palestinesi a uno stato. Un suo leitmotiv costante è la pace tra i popoli, fondata sulla giustizia nei loro rapporti. Si è dimostrato attento alle sofferenze delle vittime, condannando ad esempio l’embargo contro l’Iraq e contro Cuba, che sottopone la popolazione a restrizioni devastanti. Tutte posizioni ispirate alla fedeltà al Vangelo. Purtroppo, questi richiami ai valori sono rimasti il più delle volte astratti, dato che il papa non ha mai esplicitato le cause reali delle guerre e le loro connessioni con l’imperialismo economico.
Peraltro, l’alleanza di fatto tra la Santa Sede e i poteri economici e politici dell’Occidente continua ad esistere, sulla base di una logica istituzionale (la riproduzione sociale dell’istituzione ecclesiastica), e ha fatto perdere al discorso contro le guerre gran parte della sua credibilità.
In questo campo, lo strumento privilegiato della Santa Sede è il servizio diplomatico. Contrariamente a quanto spesso si crede, questo servizio non è un organo del Vaticano in quanto stato, bensì della Santa Sede, cioè della Chiesa; e ha avuto un considerevole sviluppo grazie a Giovanni Paolo II. Non solo è l’elemento più costoso, ma anche quello socialmente più compromettente, e simbolicamente più contraddittorio rispetto all’ispirazione evangelica, in quanto segno di potere (privilegio di uno stato) ed espressione di ricchezza (l’insediamento di nunziature a fianco delle ambasciate). Nessuno può dubitare che Giovanni Paolo II, il prelato sportivo, l’ex operaio dello stabilimento Solvay di Cracovia, dilettante di teatro e moralista dell’Università cattolica di Lublino, il sacerdote dalla personalità mistica, il pastore dei Carpazi sia destinato a rimanere nella storia come un gigante dell’era contemporanea: il papa di un quarto di secolo che ha trasformato profondamente l’umanità, il papa della globalizzazione (11). Ma per aver voluto ricostruire una Chiesa più solida in un mondo più umano, questo papa ha finito per distruggere un gran numero di forze vive emergenti, che portavano l’impronta di una visione evangelica e profetica. La luce spirituale e morale di cui voleva essere portatore si è trasformata in istanza politica. Il governo centrale della Chiesa, che avrebbe dovuto essere al servizio del «popolo di Dio», è divenuto un apparato reazionario, alleato di fatto dei poteri oppressori. Il suo appello alla giustizia e alla pace non ha assunto una dimensione profetica commisurata all’immenso sfruttamento, oggi più che mai globalizzato, ma si è tramutato in una critica dai toni ragionevoli. Ha fatto leva non già sulla forza del simbolo, ma su quella dell’autorità. Certo, Giovanni Paolo II ha restaurato la Chiesa, ma quale Chiesa? Certo, ha rafforzato il suo posto nella società, ma quale posto?
La cristianità – aveva detto Harvey Cox, teologo battista, docente a Harvard – ha bisogno di un papa, ma non come potere, bensì in quanto espressione simbolica dell’unità. L’umanità ha bisogno di un richiamo alla speranza, sulla base di analisi della realtà e di progetti per il futuro. Non si può dire che il bilancio del pontificato abbia risposto a questa duplice attesa. Dovrebbe essere questa la sfida del successore di Giovanni Paolo II (12), che potrà fondarsi a tal fine su una grandissima speranza e sulle forze vive, che fortunatamente sono tuttora presenti sull’intero pianeta.
note:
* Direttore del Centro tricontinentale e della rivista Alternatives Sud, Belgio
(1) Si legga Moisés Naim, «Il consenso di Washington colto in fallo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2000.
(2) Convocato da Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II ha comportato un’importante riforma, in particolare attraverso la costituzione Lumen Gentium, che ridefiniva la Chiesa come «popolo di Dio», e la costituzione Gaudium et Spes, che qualificava la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo come una realtà di ispirazione e non di dominio.
La riforma liturgica ha introdotto la lingua vernacolare e amplificato le funzioni dei laici, in particolare nel culto e nei sacramenti.
È stata inoltre rivalutata la collegialità dei vescovi, come contrappeso all’amministrazione centrale di Roma.
(3) L’«Opera di Dio», fondata nel 1928 in Spagna da mons. Escriva de Balaguer, definita da molti «massoneria bianca», conta più di 80.000 membri, in maggioranza laici, in un centinaio di paesi. Si legga François Normand, «L’inquietante ascesa dell’Opus Dei», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 1995.
(4) Nel 1984 il cardinale Joseph Ratzinger, nominato da Giovanni Paolo II alla testa della Congregazione di Propaganda Fide (già Sant’Uffizio) dichiarò in un’intervista: «Dopo le esagerazioni di un’apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico ed ateo, [la restaurazione] è auspicabile, e peraltro già in atto» (Jesus, Roma, 6 novembre 1984).
(5) Simbolicamente, Giovanni XXIII fu beatificato il 3 settembre 2000, contemporaneamente a Pio IX, il papa del Syllabus (un documento antimodernista, che condannava numerose libertà ormai accettate), non alieno da comportamenti antisemiti.
(6) Ad esempio in occasione del sinodo olandese del 1984, dove l’episcopato dovette firmare un documento preparato dalla Santa Sede.
(7) Come nei casi delle diocesi di Chur, in Svizzera, con la nomina di mons. Haas, di Recife con il successore di Dom Helder Camara, di San Salvador con la nomina di un vescovo dell’Opus Dei come successore di mons. Rivera y Damas e di mons. Oscar A. Romero.
(8) Il Banco Ambrosiano finanziava tra l’altro il regime del dittatore Anastasio Somoza in Nicaragua. Il suo presidente, il banchiere Roberto Calvi, fu trovato impiccato sotto il Ponte dei frati neri, a Londra.
Il 16 aprile 1992, nella sua sentenza sul fallimento del Banco ambrosiano, il Tribunale di Milano spiegò i collegamenti esistenti tra quest’ultimo e l’Istituto per le Opere di Religione (Ior), la banca del Vaticano, diretta all’epoca da mons. Paul C. Marcinkus, di nazionalità americana, già invischiato in altre vicende scabrose. Si legga Fernando Scianna, «La mafia au coeur de l’Etat et contre l’Etat», Le Monde diplomatique, ottobre 1982.
(9) La Chiesa nel mondo del nostro tempo.
(10) In Argentina, il nunzio all’epoca della dittatura militare, l’attuale cardinale di curia Pio Laghi, aveva rivolto alla guarnigione di Tucuman le seguenti parole: «Voi che sapete cos’è la patria, ottemperate agli ordini con obbedienza e coraggio mantenendo la serenità dello spirito» (La Nación, Buenos Aires, ottobre 1976). Nel Cile di Pinochet, il nunzio era l’attuale cardinale Angelo Sodano, poi nominato Segretario di Stato, che a proposito del regime ebbe a dichiarare: «Anche i capolavori possono avere qualche macchia. Vi invito a non soffermarvi sulle macchie del quadro ma a guardare l’insieme, che è meraviglioso».
(11) George Weigel, docente all’università cattolica di Washington, ha tracciato un bilancio del pensiero di Giovanni Paolo II nel corso del suo lungo pontificato. Il suo libro rispecchia la visione del papa sulla Chiesa e sul mondo (Jean Paul II, Témoin de l’espérance, Attes, Parigi, 2001).
(12) Giancarlo Zizola ha affrontato questo tema nel suo libro Il Successore, Laterza, 1997. Si legga dello stesso autore, «Guerra di successione in Vaticano», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2001.
(Traduzione di E. H.)
Due chicche in conclusione.
A margine di queste vicende che sono di per sé gravissime, ve ne sono delle altre non meno gravi che dovrebbero suonare come campane a morto per la Chiesa delle gerarchie. Il boia Pinochet e la sua collega e moglie Lucia Hiriarte hanno avuto vari figli, tutte con le caratteristiche criminali dei genitori.

Tratto da Repubblica del 17 luglio 2005
Al di là dei furti, fallimenti, crassazioni, appropriazioni indebite, … che hanno riguardato l’intera famiglia (cos’altro si può aspettare da militari fascisti e genocidi?) ci sono da notare gli interventi della Sacra (sic!) Rota (ancora Vaticano!) nei facili annullamenti di matrimonio (pardòn: divorzi!) che le figliole facilissimamente ottenevano. Da quanto risulta nella foto suriportata, la dolce Lucia è stata annullata due volte, mentre la tenera Jacqueline solo tre.
Più sopra vi è poi la foto che immortala Sua Santità (sic!) a fianco di uno dei più spietati criminali del secolo passato, per di più in divisa militare (fotomontaggio anche questo ?). Per me non c’è nulla di nuovo, la Chiesa delle gerarchie è sempre stata con il potere dei privilegi, della reazione e della morte per ogni oppositore. Speriamo che un giorno qualche pecorella del gregge cominci ad alzare la testa!
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